L'altra libertà/Sezione prosa/Opere premiate/Stefano Di Cagno - Il corpo

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Autori vari - L'altra libertà (2009/2010/2011)
Sezione prosa - Stefano Di Cagno - Il corpo
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Il corpo
Racconto breve
di Stefano Di Cagno


La radiosveglia si accese alle 7,30 in punto, diffondendo le note di una canzone che Juju, nel dormiveglia, credette di identificare in un pezzo dei Coldplay di cui non ricordava il titolo. Si stiracchiò come una gatta che fa le fusa, annusando con piacere l’odore dei corpi e del sesso della sera prima, ancora intrappolati sotto il piumone. Con uno scatto si tirò fuori dal morbido abbraccio del letto, alzandosi in piedi e flettendo il busto, toccando con un paio di piegamenti il pavimento. Prima di andare in doccia adocchiò il piede affusolato che spuntava dalle coltri e, presa da un languore subitaneo al basso ventre, lo baciò chiedendosi se avesse il tempo per esplorare quel sentiero di pelle che le dava tanto piacere. Frenò la sua ingordigia e andò a lavarsi, con una mezza idea di darsi solo una sciacquata alla faccia e alle ascelle, per trattenersi addosso il profumo conturbante dei loro amplessi notturni. Tornata in camera raccolse i propri slip da terra e se li infilò. «Ehi, io devo andare a lavorare», disse alla figura che gonfiava ritmicamente l’ammasso di stoffa a righine blu notte e bianche. Il piede si mosse prima in fuori e poi rientrò sotto il piumone come una lumaca che si ritira nel guscio. Due occhi nerissimi spuntarono dal bordo superiore della trapunta. «Ma che ore sono?», chiese una voce arrochita. «Quasi dieci alle otto, amore», rispose Juju, ficcando la zazzera di capelli ricci e rossi nella felpa nera, la virgola del logo della Nike di uno sfavillante argento sul petto. «Dormi, dormi, tanto c’è chi lavora», trillò allungandosi sul letto e infilando la mano tra la folta chioma corvina. Le sue labbra cercarono avidamente quelle dell’altra ragazza e si baciarono a lungo. «A che ora torni?», chiese Silvia in un sussurro. «Penso che per la una sono di nuovo a casa. Mi aspetti?» «Sempre. Lo sai…» Juju scese in garage e aprì il box auto, sfiorando il muro per infilarsi dentro e raggiungere il serbatoio color antracite della Ducati Monster, su cui poggiava il casco. Se lo infilò prima di inforcare il piccolo bolide, puntando gli anfibi da paracadutista sul pavimento di cemento, stando attenta a fare retromarcia senza rigare la carrozzeria della sua Mini One giallo canarino. Schizzò fuori dalla rampa d’accesso godendosi il rombo della moto, si immise fluidamente nel traffico, scalando le marce in su e in giù, dribblando le auto e gli scooter con perizia. Raggiunta la sede, parcheggiò la motocicletta davanti alla serranda, che aprì dopo aver disattivato l’allarme. Nel locale di trentacinque metri quadri aleggiava il solito odore di salsedine e di olio minerale. Salì sul soppalco e si sedette alla poltrona di cuoio girevole, accendendo il pc e buttando un’occhiata alla segreteria. La lucina rossa lampeggiava. Spostò il corpo in avanti e premette l’interruttore per ascoltare i messaggi in segreteria. «Salve – disse una voce di uomo -, ehm, mi scusi ma la chiamo per un’urgenza, c’è stato un incidente subacqueo in Albania, il figlio di un mio caro amico è disperso dopo una battuta di pesca in apnea. Mi hanno detto che lei ha un robot per la ricerca subacquea...» La ragazza prese nota del numero di telefono e del nome che seguivano e alzò la cornetta per richiamare. Dopo pochi squilli rispose una voce di donna, che le disse di attendere un attimo e le passò la persona. «Ho sentito il suo messaggio, può essere più preciso?», domandò Juju. «Come le ho detto nel messaggio, il figlio di un mio amico non è più riemerso durante una battuta di pesca all’isola di Saseno. I suoi compagni l’hanno cercato senza successo e sono partiti dei subacquei di qui per aiutare nella ricerca, ma sono passati tre giorni e non si è concluso nulla. Il padre, la madre e il fratello sono lì con la loro barca.» «Che fondale c’è?» «Eh, questo è il punto. Scende subito profondo, oltre gli ottanta metri, e quei ragazzi non hanno equipaggiamento ed esperienza per l’esplorazione. Per questo l’ho chiamata.» Juju fece poche altre domande, spiegò quel che poteva fare e, con la solita fatica che le prendeva in quei casi tragici, comunicò il costo dell’operazione. L’uomo le rispose che per il viaggio avrebbero avuto a disposizione un pattugliatore della Guardia di Finanza, per cui ritoccò la cifra finale. Si misero d’accordo sul rivedersi di lì a cinque ore al comando navale dei finanzieri e partire subito dopo aver imbarcato le attrezzature. Telefonò a Silvia, che rispose subito. «Che è successo?» «Un apneista disperso in Albania, devo partire.» «Non passi di qui?» «No, cerco i ragazzi e preparo la roba da portare con la nave della Finanza che ci hanno messo a disposizione. Ci sentiamo da lì, comunque, se c’è segnale.» Si scambiarono teneri saluti e poi Juju chiamò al cellulare Marco e Davide, i suoi collaboratori. Nel giro di tre ore avevano assemblato tutto l’equipaggiamento e fecero una rapida colazione prima di trasferirsi al porto, dove ci vollero altre due ore prima di essere pronti e imbarcati. La navigazione cominciò alle sette di sera, mentre cominciava a calare il buio. Juju si installò vicino alla plancia scoperta, srotolando il sacco a pelo e mettendosi a guardare le stelle, sempre più brillanti mano a mano che si allontanavano dall’inquinamento luminoso della costa. Prese sonno senza accorgersene e dormiva profondamente quando la nave attraccò nel porticciolo dell’isola del Golfo di Valona. Si svegliò infastidita dalla luce dell’alba lattiginosa e dall’umidità notturna che le aveva imperlato i capelli. Alzatasi in piedi squadrò un piccolo rimorchiatore della Marina Militare che, all’imboccatura della rada, esibiva tutta la sua goffaggine a confronto con le agili motovedette della Capitaneria di Porto e della Finanza, ormeggiate lungo i moli. Saseno era diventata da anni la punta avanzata del contrasto italiano all’immigrazione clandestina, il traffico di droga e di sigarette. Avvertendo una presenza, girò su se stessa e puntò gli occhi negli occhi grigi di un ragazzino magro e allampanato, apparentemente sui sedici anni. Sostava davanti ad una struttura fatiscente di cemento armato che dava accesso alla banchina a cui erano attraccati, con indosso una t-shirt dal colore indefinito e un paio di jeans sdruciti. Di traverso sul petto reggeva un fucile mitragliatore Kalashnikov. L’atmosfera era irreale, ma fu sottratta al fluire di pensieri incoerenti dal rombo di una vecchia jeep che, scesa da una stradina sterrata, frenò in una nuvola di polvere vicino alla garitta. Il ragazzo fece un timido gesto di saluto, ruotò sui tacchi e prese posto sul sedile posteriore. Sgommando, i soldati albanesi ripartirono per dove erano venuti. «Già sveglia?» Marco spuntò dalla cabina comando con un bicchiere di plastica colmo di caffé. Juju lo bevve con cautela, soffiandoci su prima di ogni sorso. Diede una rapida occhiata al primo sole, che stendeva un tappeto d’arancio pastoso sulle acque immobili, quindi radunò la sua truppa e insieme scesero a terra andando ad esplorare il gruppo di casette di cemento e legno che sorgeva a pochi metri dalla riva. Mentre si avvicinavano a uno yacth sui diciotto metri che doveva appartenere alla famiglia dello scomparso, da una porta sbucò un marò del battaglione San Marco, a torso nudo, le braccia possenti coperte di tatuaggi. Recava tra le mani una trappola per topi, con all’interno un animaletto squittente. Fece pochi passi, mormorò un “buongiorno” e buttò la gabbietta e il suo contenuto in un barile col marchio della Shell, riempito fino all’orlo d’acqua sporca. «Che allegria…», mormorò Davide, mentre il militare ritornava sui suoi passi. Intanto la vita cominciava a brulicare nel distaccamento. In breve Juju e i suoi colleghi furono raggiunti dai finanzieri e venne effettuata la prima riunione operativa con il responsabile italiano del porto. Di lì a due ore erano di nuovo in mare, dopo aver trasbordato l’equipaggiamento su un piccolo rimorchiatore albanese sopraggiunto da Valona. Mentre navigavano circumnavigando l’isola, il pilota della barca, che parlava italiano, fece da cicerone: «Quella è la base dei sommergibili cinesi nel Mediterraneo – disse -, là dove ci sono quelle rocce bianche che bloccano l’ingresso alla caverna. Gli americani l’hanno fatta saltare. Lassù invece c’è la villa dove stava Mussolini quando i fascisti invasero il paese.» L’isola e il mare che la circondavano erano stupendi. Juju non poteva quasi credere che fossero a sole 80 miglia marine dalla costa pugliese e il paesaggio fosse così diverso. Giunti nella zona dove il ragazzo era scomparso, si avvicinarono agli strapiombi rocciosi. La ragazza aguzzò gli occhi e iniziò a scorgere uno dopo l’altro minuscoli bunker da un uomo, che a centinaia punteggiavano la pietra. «Tutta l’isola è un gigantesco alveare, ci sono tunnel ovunque e quelle sono le postazioni per i tiratori nel caso di un’invasione. Denver Oxa era piuttosto paranoico», le disse un maresciallo della Marina che li accompagnava. Non c’era comunque tempo per darsi al turismo. Juju e i suoi ragazzi prepararono il robot subacqueo e con quello cominciarono ad esplorare i fondali che avevano inghiottito il corpo dello sportivo. Andarono avanti e indietro per ore, alternandosi al monitor ogni venti minuti per sfuggire al mal di mare, provocato dal dover fissare lo schermo mentre le onde sbatacchiavano lo scafo. La quasi totale assenza di vegetazione marina contrastava con la lussureggiante flora soprastante. Erano chiari i segni di una scellerata pesca con ordigni esplosivi. «Non lo troviamo», borbottò Davide asciugandosi il sudore che gli colava dalla fronte. Il bagliore del sole riflesso dal mare gli aveva arrossato la faccia squadrata. «Già. Del resto non è detto che sia rimasto sul fondo», rispose Juju. «E secondo te potrebbe essere vivo, alla deriva?», chiese Marco. «Uhm, non ne ho idea, qui non ci sono correnti particolari che possano aver portato al largo un nuotatore capace, con tanto di pinne e muta galleggiante», ribatté la ragazza. «Quindi per te è morto», disse Davide, cupo. «Purtroppo penso di si, e se non lo ritroviamo noi potrebbe essere ovunque ormai.» «Ma come ha fatto l’amico a perderselo?» «Non lo sapremo mai, ha sicuramente fatto una cazzata, si è fatto prendere dal panico, non lo so. Quello che è certo è che la verità non la sapremo mai.» Dopo sei ore di inutili ricerche fecero ritorno al porto e andarono a spiegare la situazione al papà del ragazzo. Il fratello parlottava con il marinaio a poppa, ma non c’era traccia della madre. Probabilmente se ne sta nella barca a piangere, pensò Juju. Convennero di riprendere l’esplorazione il giorno dopo e via di seguito, ma l’ufficiale comandante fece presente che avevano il permesso di restare lì solo per altre 48 ore. Girarono sui tacchi e si lasciarono coinvolgere in una partita a calciobalilla da due marinai della Guardia Costiera, sotto un pergolato antistante un baretto gestito da una bella ragazza albanese. Il giorno dopo erano nuovamente sotto le pareti di roccia digradanti, che proseguivano la loro ripida corsa nell’acqua, compresi dall’incombenza di un ritorno in Italia che non poteva essere rinviato, a prescindere dal risultato. Ma non ebbero miglior fortuna. Il corpo era scomparso. Juju, appena possibile, osservava stranita l’immensa tavola del mare che circondava l’isola. Poteva essere davvero ovunque, continuava a pensare costernata. Ad ogni reingresso nel porticciolo, aveva visto i famigliari uscire dal cabinato e attendere qualche notizia che desse loro una qualsiasi forma di consolazione. Ormeggiavano e uno dei finanzieri si recava mestamente a fargli il resoconto dell’ennesimo insuccesso. L’ultimo incontro con i parenti del ragazzo fu il peggiore. Era terribile non poter dare una risposta a quelle persone, lenire almeno in parte lo straziante dolore con la consolazione del ritrovamento delle spoglie. Ripartirono alla volta di casa con fatica, angosciati dall’inutilità dei loro sforzi. Lo yacht della famiglia li sopravanzò a tutto motore e in breve diventò un puntino bianco sulla distesa di mare liscia come l’olio, laggiù all’orizzonte, dove il blu cobalto si stemperava nell’azzurro del cielo. Poi scomparve. Juju rimase in coperta meditabonda, inspirando l’aria satura di iodio. Aveva solo voglia di annegare la tristezza tra le braccia di Silvia. Dopo mezz’ora di navigazione sentì gracchiare la radio e voci concitate pervennero dalla plancia. Incuriosita tese l’orecchio, ma non riuscì a cogliere il senso della conversazione. Davide sbucò dal passo d’uomo con una faccia strana. «L’hanno trovato», riferì. «Hanno trovato cosa?» «Il ragazzo. Stavano navigando, quando al marinaio è venuta come un’ispirazione e si è voltato. Ha visto qualcosa galleggiare qualche centinaio di metri dietro di loro ed è tornato indietro. E’ lui.» Juju non credeva alle sue orecchie. Erano in mare aperto, lontano dalla costa, ormai inavvertibile. Se ci fosse stato un po’ d’onda non sarebbe stato possibile accorgersi di nulla, e comunque anche con quelle condizioni ideali era come trovare un ago in mille pagliai. In una decina di minuti arrivarono ad accostare allo yacht. Galleggiava pigro sulla tavola immane d’acqua. Juju vide i tre uomini che si sbracciavano a poppa. La madre, drappeggiata di nero, era accartocciata sul prendisole di prua. Pareva una figura arcana, desolata e smarrita; circondata dal bianco abbacinante dell’imbarcazione sembrava un personaggio di una tragedia omerica al centro di un anfiteatro di pietra. Il corpo del figlio era a circa cento metri di distanza. Ebbe la netta impressione che non avessero avuto il coraggio di avvicinarsi, e Juju pensò che era stata una decisione saggia: dopo sei giorni in mare i resti dentro la muta subacquea dovevano essere gonfi e irriconoscibili; un’immagine lacerante, troppo penosa da portarsi appresso come ricordo per gli anni a venire. Mentre discutevano sul da farsi, se prendere il corpo e portarlo in Italia oppure affidarlo alle autorità albanesi, il mare cominciò a montare. Presto divenne una distesa verderame, rugosa, sulle cui increspature, a tratti, apparivano le prime tracce di spuma candida come neve. Juju rifletté che in quelle nuove condizioni sarebbero passati anche a pochi metri dal cadavere senza riuscire a vederlo; doveva mancare poco a ché i gas della decomposizione fuoriuscissero: la cintura dei pesi di zavorra l’avrebbe trascinato sul fondo, a centinaia di metri dalla superficie. Era come se Nettuno (o il Dio dei monoteisti) avesse voluto riconsegnarlo ai propri cari, attirando lo sguardo del marinaio, costringendolo a voltarsi indietro nel momento preciso in cui poteva ancora scorgere il fagotto rasente l’acqua. Il corpo aveva reclamato attenzione. Aveva lanciato un ultimo disperato grido per dare ai parenti una risposta, un luogo dove piangere in sua memoria e posare dei fiori freschi. Attorniata dall’equipaggio del pattugliatore che rumoreggiava attorno all’incredibile rinvenimento, Juju lanciò l’ennesimo sguardo sul mare. Un raggio dorato di sole si faceva largo tra il piombo fuso delle nuvole arrancanti da sud. Illuminava il corpo, che galleggiava silente.