L'assedio della Mirandola/II

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Il torneo dei madrigali

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Condotti dal commissario degli alloggi a casa di Zirolamo Losco, tre cavalieri ne ammirano la figlia, e contendono la sistemazione rivolgendole versi cortesi. Dialogo tra un parroco di campagna e il segretario dell’ambasciatore imperiale a Roma.


Lasciato alle spalle il ponte del castello, Zirolamo Losco attraversa la piazza oscura, si inoltra tra le stradette che convergono verso la porta di San Martino, raggiunge il vicolo dove sorge la sua casupola. La strada è occupata da una piccola folla che, alla luce delle fiaccole, applaude tra grida e acclamazioni. La circostanza sorprende lo stimatore, che sa non esservi, nella strada alcuna bettola. Pensa a una serenata e si chiede quale delle donne che abitano la via possa esserne destinataria. Scende dal ronzino e lentamente, il cavallo alla briglia, si fa largo verso la porta di casa. Proprio presso quella porta la folla si fa più fitta, la luce delle fiaccole più vigorosa. E’ penetrato di qualche passo nella calca quando capisce che il centro dell’assembramento è la sua porta, e che la destinataria della serenata è sua figlia.

La ragazzina è seduta su una sedia collocata, come un trono, sopra un tavolo, porta l’abito di ogni giorno, di povera tela, le spalle avvolte da uno scialle, ma le fiaccole illuminano il viso armonioso e i capelli d’oro sciolti sulle spalle. Potrebbe essere la principessa che la dichiara lo scettro d’argento che le è stato posto tra le mani. Ai suoi piedi un cavaliere in armatura recita, in ginocchio, versi d’amore, alle spalle del trovatore altri cinque cavalieri fanno cerchio, attorniati dagli scudieri e da soldati, circondati, a loro volta, dagli abitanti delle case vicine.


"Tu che dei Pico vanti la fierezza
fino ad ieri sconosciuta beltade,
abbi del cuor mio pietade,
senti dei miei sospiri la docezza,
e accendendomi in cor nuova speranza,
dammi gentil fidanza,
che potrò alfine espugnar la tua fortezza."

I compagni accolgono la strofa con complimenti e strette di mano, gli scudieri inneggiano, la gente plaude. Zirolamo guarda la figlia, la vede estatica, trasfigurata dalla gioia della serenata cavalleresca, cerca invano di incontrarne gli occhi, fissi sui cavalieri, quindi scorge la moglie, che lo guarda pallida, si avvicina e ricava, da poche parole sommesse, la spiegazione della recita. Il commissario della signoria ha percorso la città, gli spiega la donna, ricercando l’alloggio per una schiera di cavalieri, fuorusciti dei domini del papa. Giunti alla loro casa, il commissario è entrato con due gentiluomini che, vista Aloisia, hanno dichiarato entrambi di volersi fermare. Il commissario ha protestato che quella casa poteva alloggiare solo un cavaliere e lo scudiero, i due hanno dichiarato di essere pronti a decidere chi debba occupare la casa con un duello. All’asserzione altri cavalieri hanno voluto vedere la ragazza, lo scompiglio è cresciuto, ognuno pretendeva che la casa fosse assegnata a lui, e pareva impossibile risolvere la contesa, fino a quando un capitano del conte, per dirimere la controversia decretava che la ragazza stessa decidesse chi dovesse alloggiare giudicando i versi che tutti i concorrenti le avrebbero rivolto. La donna zittisce, mostrandogli, con la mano, il secondo sfidante pronto alla recitazione. Il cavaliere si inchina profondamente e declama:


"La mia terra ho lasciato e andai calcando
aspre campagne e inospital paesi,
così che spirto e cor mi furo presi
da ria doglianza, che mi va angariando.
Ma nella notte senza luna e stella
si accese alla Mirandola una face,
i ridenti occhi tuoi son la mia luce
s’allegra il core, ritrovo la favella"

Senza ascoltare i versi del contendente che pronuncia la nuova composizione Zirolamo guarda ancora la figlia. I capelli rischiarati dalle torce, la figura sottile disegnata con eleganza nel vestito di contadinella, ride di un riso metà di fanciulla metà di donna. Lo scettro che impugna manda bagliori d’argento e madreperla: è, rileva Zirolamo, il fodero di un pugnale di cavaliere. Ha quindici anni, la considera il più grande dei beni, l’ha sempre custodita con premura e apprensione, non aveva ancora percepito che fosse già donna, che potesse attrarre attenzioni di uomini ricchi e violenti. Nella circostanza della serenata la scoperta lo getta in prede a un’ansia incontenibile. Guarda la figlia, guarda il contendente che si appresta a renderle omaggio, è poco più che ventenne, i capelli fluenti sotto il berretto di velluto, gli occhi scintillanti. Vede che la figlia lo scruta con curiosità affettuosa.


"Amor, ch’è gran giullare,
tolse lo scrigno in cui con margarite,
perle e coral natura avea nodrite
e di donne alla schiera
gittò di suo tesor colori e raggi.
Toccò gemma all’altera
principessa, timore de’ suoi paggi,
ma le pietre più rare fur fornite
a voi: perché ne fate a me ferite?

Recitati i versi il cavaliere si trattiene in ginocchio giungendo le mani, scrosciano gli applausi, si alza, con la celata al braccio, la destra all’elsa della spada, fissa con determinazione la fanciulla "Vi sommergerò di versi, comporrò poemi -promette-, non vi lascerò scendere dal vostro trono fino a quando non riconoscerete che valgo più di tutti gli avversari, e mi concediate il privilegio di alloggiare sotto il tetto che rapisce al mondo il sole dei vostri capelli". Ridendo gioiosa la ragazza gli sfiora la spalla con la guaina del pugnale, il cavaliere le prende la mano e la bacia tra le dimostrazioni di esultanza dei compagni, che riconoscono i meriti del vincitore e gli offrono gli auguri di felice conquista.

Mentre attorno alla regina della serata ferve il tripudio, il commissario degli alloggi, che ha riconosciuto Losco, lo informa che viene alloggiato presso di lui il cavalier Annibale Signoruccini, nobile della Marca, cui dovrà ossequio e premura. Adempiuto al dovere, prega il gruppo di seguirlo, perché possa assegnare un tetto a chi ancora ne è sprovvisto. Salutando appena il padrone di casa Signoruccini varca la porta seguito dallo scudiero. Losco lo prega di sedersi un momento perché sua moglie abbia il tempo di riunire i letti della famiglia, i genitori e i tre figli, in una sola cameretta, lasciando l’altra al cavaliere. Lo scudiero dormirà, su un pagliericcio, in cucina. Mentre la donna lavora a mutare camera ai letti, l’ospite attende in silenzio, quasi provasse imbarazzo, di fronte alla famiglia di popolani, per essersi prosternato davanti alla ragazza, che aiuta la madre ad assolvere l’incombenza.

Fingendo di riporre qualche arnese, Losco, ancora smarrito dalla circostanza, sogguarda l’ospite impostogli dalle regole dell’alloggio militare e da quelle della poesia, guarda le due donne togliere dalla cassa l’ultima coltre, scruta la figlia, che ha scoperto, ormai, capace di suscitare l’attenzione maschile, guarda la moglie, che sa in possesso, ancora, di una grazia più patrizia che popolana, si chiede quanto si protrarrà quell’ospitalità, misura, smarrito, la propria impotenza di fronte ai due uomini d’arme divenuti signori della sua casa. Quando la stanza è pronta la donna invita il cavaliere a prenderne possesso, Signoruccini vi entra, chiede acqua, si toglie le armi, ne esce, dopo mezz’ora in bell’abito di velluto, chiede informazioni e si dirige, con lo scudiero, verso un’osteria dove consumare la cena.