L'eroina di Port Arthur/16. Una terribile battaglia navale

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16. Una terribile battaglia navale

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15. L'agguato dei giapponesi

16. UNA TERRIBILE BATTAGLIA NAVALE


Il sole si era già alzato da un paio d'ore, quando le torpediniere giapponesi, che si tenevano nascoste nei canali che separavano quelle piccole isole, scorsero per le prime la flotta avversaria.

Makaroff a cui, come dicemmo, premeva mostrare ai suoi marinai come non temesse i piccoli giapponesi, aveva mantenuto la sua parola, ed era uscito da Port-Arthur fidente di potervi rientrare senza troppi fastidi. Era anzi tanto sicuro di non incontrare il nemico, che aveva permesso all'arciduca Cirillo, nipote dell'Imperatore, di prendere posto sulla sua nave. La Petropawlowsk, che era la nave ammiraglia, precedeva le altre, scortata da una squadriglia di torpediniere. Era la più potente della flotta, la più armata e montata da un equipaggio numerosissimo, scelto fra i migliori marinai. Seguivano tutte le altre su due file e l'aspetto di quella squadra, sempre magnifica nonostante le perdite subite, era ancora così imponente da incutere rispetto ai giapponesi, quantunque questi fossero superiori per numero di navi, avendo aggiunto alla loro flotta il Kasuga ed il Nissin, due formidabili e velocissimi incrociatori, costruiti nei cantieri di Genova per conto del Governo argentino e poi ceduti all'Impero del Sol Levante.

All'allarme dato dalle torpediniere giapponesi, la squadra giapponese che si teneva nascosta dietro le isole issò le bandiere di combattimento, e preceduta dalla Mikosa, la più grossa corazzata, mosse a tutto vapore addosso alla squadra nemica che era ben lungi dall'aspettarsi quella sorpresa. L'ammiraglio Makaroff, accortosi a tempo di essere caduto nel tranello, non ritenendosi abbastanza forte per impegnarsi con Togo, fece dare il segnale della ritirata, mentre i giapponesi aprivano un fuoco violentissimo e scatenavano le loro torpediniere.

I russi, quantunque sorpresi, avevano virato prontamente di bordo, fuggendo verso Port-Arthur, perseguitati accanitamente dalle navi più veloci di Togo, che non cessavano di scaricare formidabili bordate.

Pure in ritirata, i russi rispondevano con non meno furore, cercando di arrestare il nemico.

Gli obici cadevano dovunque e non per questo i giapponesi si arrestavano, anzi: spingevano la caccia con un coraggio disperato.

Era uno spettacolo impressionante quello di veder manovrare tante navi, fra nuvoloni di polvere e lampi acciecanti e soprattutto le piccole torpediniere giapponesi che facevano sforzi supremi per raggiungere le navi avversarie e affondarle prima che giungessero in porto.

Erano così giunti presso l'avamporto, quando le torpediniere giapponesi e le russe vennero a contatto impegnando una terribile lotta coi cannoni a tiro rapido e coi siluri, tentando di distruggersi a vicenda.

Sakya, che non aveva perduto di vista la Strakny di Boris, l'attaccò risolutamente. Aveva veduto il russo sporgere dalla torricella di comando e si era giurato di non lasciarsi sfuggire quella fortunata occasione per vendicare il gran daimio.

Le due piccole navi, senza preoccuparsi delle corazzate che manovravano attorno a loro, avendo tentato i russi di far fronte alla squadra nemica che stava per seguirli anche entro il porto, e degli obici che cadevano dovunque, scaricati senza esito i siluri, si erano abbordate ed i marinai di Sakya si erano scagliati sul ponte della Strakny colle sciabole e le rivoltelle, incoraggiandosi con urla selvagge.

— Vendichiamo il gran daimio! — aveva gridato Sakya, slanciandosi verso Boris insieme a Yamaga.

Russi e giapponesi stavano per caricarsi a vicenda, quando una torpediniera di Togo che passava velocissima, vedendo la bandiera moscovita sventolare sulla poppa della Strakny e non essendosi il suo equipaggio accorto che i marinai della Morioka erano già saliti a bordo, le lanciò contro un siluro. Una formidabile denotazione, seguita da due grida di donna, rimbombò. La Strakny, colpita in pieno, era saltata in frantumi, danneggiando nel medesimo tempo la Morioka, la cui prora erasi aperta.

Mentre giapponesi e russi scomparivano fra il gorgo, fulminati dall'esplosione, giungeva sul luogo della pugna la Petropawlowsk che si difendeva disperatamente contro la Mikasa e la Idzumo che la coprivano d'obici. Vedendo degli uomini dibattersi fra le onde e due fanciulle che gridavano sulla poppa della Morioka dove si erano rifugiati i macchinisti, una scialuppa fu subito calata e accorse, credendo forse che vi fossero anche dei russi da salvare. Shima e Naga, che avevano assistito, pazze di disperazione, all'orribile dramma che aveva privato l'una del fratello e l'altra dell'uomo amato, vennero strappate a viva forza e condotte a bordo della corazzata e fatte scendere precipitosamente nelle batterie mentre gli obici scoppiavano con orribile frastuono, lanciando ovunque frammenti di acciaio e sprigionando gas letali. Una indescrivibile confusione regnava a bordo della magnifica corazzata. Gran numero d'uomini coprivano i piani delle batterie gemendo e urlando e anche il ponte, su cui Makaroff, sereno e tranquillo, comandava sempre la manovra, tentando di radunare attorno a sé le sue navi che i giapponesi perseguitavano con accanimento feroce.

Dappertutto vi era sangue e dovunque si scorgevano morti e feriti, nondimeno gli artiglieri russi, anche in mezzo a quel pandemonio, a quello scrosciare continuo di obici e di proiettili di acciaio, rispondevano poderosamente tentando di rendere la ritirata meno disastrosa e di lasciar tempo ad una delle loro corazzate, la Pobieda, che era stata torpedinata, di rientrare in porto. Shima e Naga, perdute nella batteria, fra il fumo che le soffocava, si erano abbracciate.

— Tutto è finito, mia povera ghesha — aveva detto la figlia del gran daimio, con voce rotta dai singhiozzi. — Sono morti, ma la nostra flotta è salva.

— Che uccidano anche noi — aveva risposto Naga.

— Sì, che ci uccidano — rispose Shima che pareva in preda ad una viva esaltazione — La nostra esistenza è ormai spezzata, vieni, andiamo a cercare la morte!

Aveva presa la ghesha per una mano e si era messa a correre verso la poppa dove si udivano scoppiare con maggior fragore gli obici che lanciavano senza posa le corazzate giapponesi.

Attraverso il denso fumo che circolava nelle batterie, vedevano vagamente gli artiglieri russi che sparavano i loro pezzi, facendo tremare tutta la nave. Le due fanciulle erano giunte sul pianerottolo d'una scala che doveva mettere nella batteria bassa di poppa, quando un'enorme granata scoppiò presso i primi gradini, scatenando una fiamma immensa. Udirono sotto di loro delle urla strazianti. — Là vi è la morte! — gridò Shima che pareva impazzita.

Trasse la ghesha, che non opponeva alcuna resistenza, giù dalla scala. Dei cadaveri orrendamente dilaniati giacevano presso una specie di tubo di rame, mentre alcuni artiglieri si dibattevano e si rotolavano per la batteria, mandando urla lugubri.

Vedendo quel tubo, che Shima aveva subito riconosciuto, una idea terribile le passò pel cervello.

— Tu vuoi morire, è vero, Naga? — gridò.

— Sì, mia signora.

— Che la nostra morte sia utile alla patria. Sopra di noi vi sono centinaia di uomini appartenenti a quella razza maledetta che ha infranto i nostri cuori, con Makaroff, la speranza dei russi, ed un nipote dell'Imperatore. Che muoiano tutti! Il siluro farà saltare ogni cosa!

Poi fuori di sé, cogli occhi in fiamme, il viso alterato da un odio terribile, raccolse una scure che era sfuggita alla mano di un marinaio, e si slanciò verso il tubo percuotendolo poderosamente ad una estremità. Un lampo terribile illuminò la batteria sprigionando una fiamma immensa. Si udì una detonazione formidabile, orribile, seguita poco dopo da due altre non meno intense, prodotte dallo scoppio dei depositi delle polveri e delle gigantesche caldaie, poi la maestosa corazzata si piegò sul fianco e s'immerse, insieme all'ammiraglio russo e ai settecento uomini che la montavano, dei quali solo cinquantasette, col granduca Cirillo, riuscivano a salvarsi... La perdita di quella grande corazzata, e soprattutto di Makaroff, su cui la Russia aveva riposto tutte le sue speranze, nonché la rovina dell'altra corazzata, la Pobieda, e di parecchie torpediniere, dovevano produrre ben presto effetti disastrosi ed incoraggiare la vittoriosa armata dell'Impero del Sol Levante a spingere innanzi alacremente le operazioni di guerra.

Ed infatti mentre i russi, ormai demoralizzati, venivano stretti da presso dalla ormai invincibile squadra di Togo e tribolati da incessanti bombardamenti, il primo maggio il generale giapponese Kuroki passava colle sue truppe il fiume Yalù per investire anche da parte di terra la piazzaforte.

Sconfitti pienamente i russi, non ostante la loro accanita resistenza, infliggendo loro perdite enormi e togliendo ben trenta cannoni, con marce fulminee invadevano la penisola di Talienwan alla cui estremità sorge Port-Arthur, mentre Togo affondava quasi contemporaneamente sei grossi piroscafi nell'avamporto, per togliere alla squadra russa ogni speranza di poter mai più uscire. Il 13 maggio le comunicazioni fra Port-Arthur e Moukden, sede del quartier generale russo, venivano tagliate e la piazza veniva completamente investita da parte del mare e della terra, cominciandone l'assedio.