L'isola del tesoro/Parte II/IX
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Traduzione dall'inglese di Angiolo Silvio Novaro (1932)
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Poiché l’Hispaniola era ormeggiata alquanto fuori, ci toccò passare sotto la prua e poppa di molti altri navigli, i cui cavi ora sfregavano la nostra chiglia ora ciondolavano sul nostro capo. Alla fine peraltro accostammo e mettemmo piede a bordo, accolti e salutati dal secondo Arrow, un vecchio marinaio guercio, dalla faccia abbronzata, che portava anelli agli orecchi. Lui e il cavaliere pareva se la intendessero molto bene: io notai però immediatamente che le cose non correvano altrettanto lisce fra il signor Trelawney e il capitano.
Quest’ultimo era un uomo dall’aria severa, che sembrava scontento di tutto ciò che l’attorniava; e non tardò a dircene la ragione, poiché eravamo appena scesi in cabina, che un marinaio ci raggiunse.
«Signore», annunciò costui, «il capitano Smollett chiede di poterle parlare.»
«Sono a sua disposizione», rispose il cavaliere. «Fatelo entrare.»
Il capitano, che stava alle spalle del suo messaggero, entrò immediatamente e chiuse l’uscio dietro di sé.
«Ebbene, capitano Smollett, cos’ha da dirmi? Tutto è in ordine, spero, e possiamo prendere il mare?»
«Signor mio», rispose il capitano, «meglio è parlar franco, io penso, sia pure a costo di dir cose sgradevoli. Non mi piace questa crociera, non mi piace l’equipaggio, e non mi piace il mio secondo. Non ho altro da aggiungere.»
«Forse che non le piace il bastimento?», interrogò il cavaliere, molto irritato, a quanto vidi.
«Riguardo al bastimento non posso parlare finché non l’abbia messo alla prova», replicò il capitano. «A vederlo sembrerebbe una buona vela. Di più non posso dire.»
«E magari, signore, non le piacerà il suo armatore?»
«Un momento! Un momento!», intervenne il dottor Livesey. «Lasciamo stare questioni che non servono che ad inasprirci. Il capitano ha detto troppo o troppo poco, e io ho bisogno d’una spiegazione. Ella, capitano, ha detto che non le piace questa crociera. Perché, sentiamo?»
«Io sono stato ingaggiato in base al sistema così detto degli ordini suggellati, per portar questa nave dove codesto signore mi ordinerà. Fin qui, d’accordo. Ma io trovo ora che non c’è nessuno a bassa prua che non ne sappia più di me. E questo a loro sembra bello, forse?»
«No, che non è bello», disse il dottor Livesey.
«Poi», seguitò il capitano, «vengo a sapere che andiamo alla ricerca d’un tesoro, e lo vengo a sapere (notino bene) dal mio stesso equipaggio. Ora, andare alla ricerca d’un tesoro è affare delicato. Per conto mio non amo viaggi simili, tanto meno poi li amo quando sono segreti, e quando il segreto — mi perdoni, signor Trelawney — è stato messo in bocca al pappagallo.»
«Il pappagallo di Silver?», chiese il cavaliere.
«È un modo di dire», spiegò il capitano. «Divulgato, intendo dire. Io ritengo che nessuno di lor signori sa che cosa l’aspetta: ma devo dire ciò che penso: si tratta di vita o di morte, ed è un gioco serrato.»
«Questo è chiaro, e direi anche abbastanza giusto», osservò il dottor Livesey. «Noi andiamo incontro al pericolo, ma non siamo così ignoranti come lei crede. Poi, lei dice che non le piace l’equipaggio. Non sono forse buoni marinai?»
«Non mi piacciono, signor mio», ribadì il capitano. «E dal momento che ne parliamo, aggiungerò che la scelta dei miei marinai la si sarebbe dovuta riserbare a me.»
«Forse sì», replicò il dottore, «il mio amico avrebbe forse dovuto consultarla: ma la mancanza, se mancanza vi fu, non nascondeva nessuna cattiva intenzione. E a lei non piace neppure il signor Arrow?»
«No signore. Lo ritengo un buon marinaio ma si mescola troppo con l’equipaggio, per essere un buon ufficiale. Un ufficiale dovrebbe starsene da sé, non mettersi a bere con la ciurma.»
«Vuol dire che si ubriaca?», esclamò il cavaliere.
«No signore, ma soltanto che usa troppa familiarità.»
«Sta bene. E ora, la conclusione, capitano?», interpellò il dottore. «Sentiamo che cosa desidera.»
«Lor signori son proprio decisi a partire?»
«Decisissimi», rispose il cavaliere.
«Bene», riprese il capitano. «Allora, poiché mi hanno così pazientemente ascoltato mentre dicevo cose che non ero in grado di provare, prego lor signori di lasciarmi aggiungere poche parole. Polvere e armi si stanno depositando a prua. Dal momento che sotto la loro cabina c’è spazio, perché non piuttosto laggiù? Primo punto. Poi, lei, cavaliere, ha portato con sé quattro della sua gente, e mi si dice che qualcuno d’essi dovrebbe dormire a prua. Perché non dargli invece una cuccetta accanto alla cabina? Punto secondo...»
«C’è altro ancora?», chiese il cavalier Trelawney.
«Ancora uno», disse il capitano. «Si è già troppo blaterato.»
«Troppo davvero», convenne il dottore.
«Ripeterò ciò che ho inteso io stesso», proseguì il capitano: «che loro hanno la carta di un’isola; che ci sono sopra delle croci indicanti il posto del tesoro; e che la posizione dell’isola è...», e qui riferì latitudine e longitudine esatte.
«Mai ho detto questo, io», gridò il cavaliere, «ad anima viva!»
«Eppure l’equipaggio lo sa», ribatté il capitano.
«Non può essere stato che lei, Livesey, oppure Hawkins», proclamò il cavaliere.
«Poco importa chi sia stato», replicò il dottore.
Ed io m’accorsi che tanto lui quanto il capitano davano ben poco peso alle proteste del signor Trelawney. A dire il vero, neppur io gliene davo molto, tale sbracato chiacchierone egli era: ma in questo caso penso che realmente avesse ragione, e che nessuno avesse parlato della posizione dell’isola.
«Ebbene, signori miei», continuò il capitano, «io non so chi di voi custodisca questa carta: ma pongo come punto essenziale ch’essa sia tenuta segreta anche a me e al signor Arrow: senza di che mi vedrei costretto a dimettermi.»
«Capisco», osservò il dottore. «Noi dovremmo, secondo lei, preoccuparci dei pericoli della situazione, trasformando la poppa della nave in una fortezza, presidiandola coi servitori personali del mio amico, e munendola di tutte le armi e polveri che sono a bordo. In altri termini, ella teme un ammutinamento.»
«Signore», disse il capitano Smollett, «senza volerla offendere le contesto il diritto di mettermi parole in bocca. Un capitano, signor mio, che prendesse il mare avendo sufficiente motivo di pronunciar codeste parole, non meriterebbe nessuna scusa. Quanto al signor Arrow lo ritengo sostanzialmente onesto; lo stesso potrei dire d’una parte degli uomini, o magari, che so io, di tutti. Ma io sono responsabile della sicurezza della nave e della vita di quanti sono a bordo. Ho l’impressione che le cose non vadano del tutto bene, e la prego di prendere alcune precauzioni, o di lasciarmi rassegnare il mio mandato. Questo è tutto.»
«Capitano Smollett», riprese il dottore con un sorriso, «ha mai inteso la favola della montagna e del topo? Mi perdoni, ma lei me la fa ricordare. Quando entrò qui, scommetto la mia parrucca che voleva dirci qualcosa più di ciò.»
«Dottore», soggiunse il capitano, «lei ha la vista acuta. Mentre venivo qui, m’aspettavo di essere congedato. Non supponevo che il cavalier Trelawney mi avrebbe lasciato pronunziare più d’una parola.»
«Non desidero sentire altro», gridò il cavaliere. «Non fosse stato qui il dottor Livesey, l’avrei mandato al diavolo. Comunque, ormai l’ho ascoltato. Farò ciò che desidera, ma ho di lei un pessimo concetto.»
«Come a lei piace, signore», disse il capitano. «Vedrà che so fare il mio dovere.»
E con queste parole si congedò.
«Trelawney», osservò il dottore, «contrariamente a tutte le mie idee, io penso che lei è riuscito a tirarsi a bordo due persone oneste: quell’uomo e John Silver.»
«Silver sì, se così le pare», esclamò il cavaliere, «ma quanto a quell’insopportabile ciarlatano, trovo la sua condotta indegna d’un uomo, d’un marinaio, e più ancora d’un inglese.»
«Bene», concluse il dottore «vedremo.»
Quando venimmo sul ponte, gli uomini, sorvegliati dal capitano e dal secondo Arrow, avevano già cominciato a trasportare armi e polveri ritmando su voci in cadenza la loro fatica.
La nuova sistemazione era al tutto di mio gusto. L’intera goletta era stata messa sossopra; sei cabine erano state apprestate nell’ultima parte poppiera della stiva, e questa serie di cuccette non comunicava col castello di prua che per uno stretto passaggio a babordo. In un primo tempo si era stabilito che il capitano, Arrow, Hunter, Joyce, il dottore e il cavaliere avrebbero occupato codeste sei cabine. Ora invece, due erano state destinate a me e a Redruth; e Arrow e il capitano avrebbero dormito sul ponte, nella copertura della scala ch’era stata allargata in modo da meritar quasi il nome di casseretto. Naturalmente rimaneva sempre bassa d’aria; v’era tuttavia spazio per appendervi due amache, e lo stesso Arrow sembrava soddisfatto di tale soluzione. Anche lui, forse, dubitava dell’equipaggio: ma questa è una semplice congettura, poiché, come il lettore vedrà, non ci fu dato di giovarci a lungo dei suoi pareri.
Lavoravamo con ardore intorno alle munizioni e alle cuccette, quando uno o due ritardatari accompagnati da Long John giunsero in un canotto.
Il cuoco scavalcò la murata con la lestezza d’una scimmia, e visto ciò che stavamo facendo, gridò:
«Ohé, camerati, che è questo?»
«Stiamo cambiando posto alle polveri», rispose uno di loro.
«Per mille diavoli, se facciamo questo, perderemo la marea del mattino.»
«Miei ordini», tagliò corto il capitano. «Potete andar sotto, amico mio. L’equipaggio avrà bisogno di cenare.»
«Sta bene, signore, sta bene», rispose il cuoco; e toccandosi il suo ciuffo di capelli, sparì in direzione della cucina.
«Ecco un brav’uomo, capitano», disse il dottore.
«Sì, lo si direbbe», replicò il capitano Smollett. «Adagio con quello, ragazzi, adagio», proseguì rivolto agli uomini che maneggiavano la polvere; e subito dopo, accortosi di me che stavo osservando il cannone collocato a mezza nave, un pezzo in bronzo da nove: «O tu, mozzo», gridò, «via di lì. Corri dal cuoco, che ti dia qualcosa da fare.»
Poi, mentr’io mi dileguavo, sentii che diceva forte al dottore: «Non voglio dei privilegiati a bordo, io.»
Inutile dire che io condividevo in pieno il modo di vedere del cavaliere, e detestavo profondamente il capitano.