La Gemma del Fiume Rosso/7. La caduta di Man-Sciù

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7. La caduta di Man-Sciù

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La caduta di Man-Sciù


Quando la vecchia Man-Sciù, dopo quello spaventevole capitombolo nell’abisso, tornò in sé e riaprì gli occhi, fu non poco sorpresa nel ritrovarsi ancora in questo mondo invece che in quello abitato da Gautama, il Dio dei tonchinesi.

Che si trovasse poi veramente troppo bene, non possiamo dirlo.

Si sentiva le membra quasi fracassate e nella testa un ronzìo strano, come se centinaia e centinaia di mosconi le volassero sotto la scatola ossea.

Per parecchi minuti la disgraziata vecchia, sebbene cogli occhi aperti, era rimasta immobile, chiedendosi se veramente era ancora viva o morta e guardandosi intorno con vera curiosità.

Presso di sé scorgeva vagamente le cime di altissimi alberi e udiva nell’aria un cinguettìo assordante che ora si avvicinava ed ora diventava meno acuto.

Persuasa finalmente di non essere morta, si provò a fare qualche movimento e vide sopra di sé un nuvolo di uccelli, non più grossi d’uno dei nostri tordi, colle penne verdi ed i becchi grossi quasi quanto il corpo, di colore giallastro, che mandavano strida furiose e che cercavano di beccarla.

– Che io sia veramente ancora viva? – si domandò, per la ventesima volta, sembrandole impossibile, dopo quel terribile capitombolo, di non essersi fracassata sui rami degli alberi che aveva scorto in fondo all’abisso. – Eppure non sono morta. Ecco lassù la cima della muraglia... ecco la vallata... mi ha gettata giù quel miserabile.
In seguito a quale miracolo io non sono morta?

Guardò gli uccelli che non cessavano di svolazzarle intorno, tentando di colpirla rabbiosamente coi loro grossi becchi come se volessero disputarle, con coraggio maggiore del successo, il posto che occupava.

– Dei tucani repubblicani, se non m’inganno – mormorò Man-Sciù. – Ma dove mi trovo io adunque? Che cosa è avvenuto? Ah! Sì, Laos, l’infame luogotenente di Sun-Pao... mi ricordo della lotta... della caduta... ho udito il suo urlo... precipitavamo insieme nell’abisso... Mi pare di avere le membra rotte... e questi uccelli che cercano di levarmi gli occhi? Fortunatamente fanno più chiasso che danno.

Cercò di alzarsi e s’avvide di essere coricata sul dorso, su una specie di piattaforma formata di sottili rami maestrevolmente intrecciati.

– Questo è un nido – mormorò.

Facendo forza di braccia, si mise a sedere e solo allora s’accorse che le sue vesti erano imbrattate d’un impiastro giallastro ed attaccaticcio.

– Si direbbe che sono precipitata in mezzo a delle centinaia di uova – disse Man-Sciù. – Gautama mi ha protetto. Ora comprendo tutto: io sono caduta su un nido di tucani repubblicani e questa piattaforma formata di rami flessibili, per un caso straordinario, mi ha salvata.

La vecchia indovina non si era ingannata. Un caso veramente miracoloso, inaudito, provvidenziale aveva interposto fra il suo corpo, precipitato dall’alto del muraglione sotto la spinta del luogotenente delle Bandiere Gialle, ed il suolo un nido e quale nido!

Era un immenso graticcio formato da rami finamente e maestrevolmente intrecciati, largo più di sei metri, leggermente concavo nel mezzo e solidissimo.

Tale era anzi la sua resistenza e la robustezza dei materiali che lo componevano, che quello strano nido aereo non aveva menomamente sofferto per la caduta della vecchia Man-Sciù!

Naturalmente le uova, ad eccezione di qualche dozzina, erano state frantumate ed il loro contenuto aveva imbrattata da capo a piedi l’indovina.

Quel nido non aveva niente di straordinario. Come certi uccelli brasiliani, specialmente i tordi tessitori, i tucani repubblicani delle isole tonchinesi e malesi sono eminentemente socievoli e cercano la compagnia dei loro congeneri, radunandosi in truppe numerosissime, cosa che del resto nulla avrebbe di sorprendente ove quella socievolezza non producesse dei risultati curiosi.

Comprendendo quegli uccelli, per lo meno istintivamente, i benefizi dell’associazione, sotto i molteplici punti di vista della sicurezza, del lavoro, della sussistenza, formano delle vere colonie nelle quali tutto è posto in comune. Meravigliosamente disciplinati, non conoscendo rivalità di sorta, essi lavorano insieme alla costruzione del loro colossale nido.

Bisogna vederli tutti affaccendati cercare i materiali necessari, raccogliendo fuscelli e rami che poi intrecciano e amalgamano con abilità e pazienza infinita, formando ben presto una vera cittadella che resiste valorosamente alle più formidabili tempeste equatoriali.

A quel lavoro in comune succede poi la deposizione delle uova.

Queste, miste, confuse in mezzo al nido, sono covate da squadre che si dànno il cambio, mentre altre squadre vanno in cerca di provviste.

Quando poi i piccoli sono nati, vengono fraternamente nutriti dalle mamme che manifestano loro, qualunque siano, la medesima tenerezza.

Quel meraviglioso nido dunque, che aveva una superficie di una quindicina di metri quadrati, per un caso prodigioso aveva salvato la vecchia Man-Sciù, mentre il luogotenente delle Bandiere Gialle andava a fracassarsi le membra prima contro i rami degli alberi, poi contro il suolo.

I tucani, furiosi per la devastazione delle loro uova, gridavano a piena gola, cercando di far scappare l’intrusa, ma la vecchia, che sapeva essere quei volatili affatto inoffensivi non ostante le esagerate dimensioni dei loro becchi, non se ne dava per intesa.

Dopo aver constatato con visibile soddisfazione che, salvo molte ammaccature e qualche contusione, non aveva alcun membro rotto, si era messa a sedere.

Il sole stava quasi per tramontare dietro le foreste, e nella valle non si udiva più alcun rumore.

– Devo essere rimasta svenuta almeno dodici ore – mormorò. – Che cosa sarà avvenuto intanto di Sai-Sing, di mio figlio e di Sun-Pao?... Che siano venuti qua a cercarmi? Come avranno spiegato la mia scomparsa e quella del miserabile Laos? Assassino!... Spero che ti sarai sfracellato contro qualche albero. Tentiamo di scendere e cerchiamo mio figlio. Troverò qualche via che mi condurrà sulla cima del muraglione. Chissà che non siano ancora lassù.

Si alzò, respingendo colle mani i tucani che continuavano a svolazzarle intorno assordandola, vuotò in fretta alcune uova, poi si trascinò verso l’orlo del nido.

Per buona sorte, se l’albero era alto, non era molto voluminoso almeno al disotto della corona.

Scavalcò l’orlo del nido, afferrò uno dei rami che la sostenevano e si lasciò scivolare lungo il tronco, giungendo felicemente a terra.

Si provò a fare alcuni passi e constatò con piacere che poteva benissimo reggersi.

– Cerchiamo innanzi a tutto di giungere sulla cima del muraglione, se mi sarà possibile. Se non troverò alcun sentiero uscirò da questa valle e tenterò di giungere alla spiaggia.

La vecchia, che possedeva una energia straordinaria, raccolse da terra un grosso ramo per difendersi contro il possibile assalto di qualche serpente e si mise coraggiosamente in marcia.

S’avanzava a casaccio, essendo ormai il sole tramontato, girando intorno agli enormi tronchi dei calambuchi.

Dove andava? Non lo sapeva, essendo completamente smarrita.

Aveva percorso una cinquantina di metri, quando inciampò in un gran corpo peloso che giaceva presso un folto cespuglio.

– Un mias! – esclamò dopo d’averlo osservato attentamente. – Ed è morto! Chi può aver ucciso questa scimmia gigantesca che vince perfino le tigri e fracassa le mascelle ai coccodrilli?

Si curvò sul mostro, che era tutto imbrattato di sangue, e agli ultimi bagliori del crepuscolo vide due fori abbastanza distinti.

– Questi buchi sono stati prodotti da palle di fucile – mormorò Man-Sciù. – Che sia stato ucciso da Sun-Pao e da Ong? Mi ricordo che erano armati di moschetti. Allora sono venuti qui a cercarmi; ma quando? E dove saranno ora? Che si siano diretti verso il mare?
Cerchiamo di uscire per ora da questa valle. Un’ascensione fino al margine superiore della muraglia sarebbe troppo pericolosa con questa oscurità.

Riprese la marcia, guardando attentamente a destra ed a sinistra, temendo di venire improvvisamente assalita da qualche belva o da qualche mias.

S’avanzava, urtando ad ogni passo contro ostacoli che intravedeva vagamente, senza poterne determinare la natura, ma che nella sua immaginazione ingrandiva ed ai quali i suoi occhi stanchi davano delle dimensioni enormi.

Quantunque l’indovina fosse coraggiosa, a poco a poco si sentiva invadere da una vaga paura; quella paura irragionevole, molto naturale del resto in quel vallone selvaggio e tenebroso, che in certi momenti s’impossessa anche dell’uomo più audace e produce talvolta quel timor panico contro il quale anche dei vecchi soldati non hanno sempre potuto reagire.

Man-Sciù avrebbe voluto affrettare la sua marcia, correre anche... ma dove andare?

Eppure non si fermava che qualche istante per ripartire subito dopo a tentoni, titubando, come allucinata.

Ad un tratto una improvvisa e acutissima detonazione la fermò di colpo.

Era echeggiata dietro di lei, a pochi passi di distanza.

Si volse atterrita, credendo di vedersi alle spalle il feroce luogotenente delle Bandiere Gialle, sfuggito forse alla morte non meno miracolosamente di lei.

Con suo stupore non scorse nessuno e non sentì l’acuto odore della polvere.

– Che cosa è stato? – si chiese, smarrita.

Stette immobile qualche minuto, guardando sotto gli alberi, poi, non udendo alcun rumore, avanzò di alcuni passi.

Ed ecco che una seconda detonazione risuona, poi una terza ed altre ancora a brevi intervalli.

Era un vero fuoco di fila, senza lampi però e senza fumo. Erano colpi sordi, soffocati, come colpi di mina.

Spaventata dapprima, poi imbarazzata, Man-Sciù si mise a cercare la causa misteriosa di quello detonazioni e s’accorse che camminava fra delle grosse protuberanze di colore indeciso e di forma sferica.

Uno scoppio di risa le sfuggì. Erano dei funghi enormi che, appena toccati dalla sua sottana, scoppiavano come se contenessero nel loro involucro una piccola mina.

Tale fenomeno non aveva nulla di straordinario. Nelle foreste tonchinesi è frequente l’incontro di quei funghi colossali, che appartengono alla specie degli amarici.

È noto che gli organi riproduttori delle crittogame, in genere, sono corpuscoli chiamati spore, che sfuggono, nel momento della maturazione, dall’inviluppo che li contiene.

Nei funghi tonchinesi l’uscita dei grani fecondi si opera per esplosione.

Le spore, giunte a maturanza, gonfiano l’inviluppo membranoso che le contiene, al punto da farlo scoppiare sia spontaneamente, sia sotto l’influenza d’un urto qualsiasi.

Man-Sciù, avendo urtato senza avvedersene uno di quei funghi, aveva determinato la rottura del suo inviluppo.

La detonazione aveva fatto vibrare gli strati d’aria vicini e le altre crittogame, situate a breve distanza, avendo subìto l’urto, erano scoppiate in certo qual modo per influenza.

La vecchia indovina, conosciuta la causa di quegli scoppi che dapprima l’avevano tanto spaventata, non tardò a riprendere la marcia, risoluta a giungere su qualche spiaggia.

A poco a poco il fondo del vallone cominciava ad elevarsi in dolce pendio. I calambuchi e le felci arborescenti scomparivano. Il suolo diventava meno umido e leggermente roccioso.

Gli alberi erano meno vigorosi e meno abbondanti e l’oscurità scemava, mentre l’aria, prima mefitica, era diventata più respirabile.

Man-Sciù, che aveva camminato per tre o quattro ore, stava per lasciarsi cadere alla base d’un albero onde prendere un po’ di riposo, quando ad un tratto vide due punti luminosi, fosforescenti, brillare a breve distanza.

Una forma oscura, ancora indecisa, era uscita da un folto cespuglio e si era arrestata a dieci passi di distanza, mandando un sordo brontolio.

La vecchia, atterrita, si era appoggiata al tronco dell’albero, ed aveva alzato un ramo per impugnarlo, sperando di spaventare quell’animale che pareva deciso a chiuderle il passo.

– Che sia una tigre od una pantera? – si era chiesta con profonda angoscia.

La belva non si era lasciata affatto intimorire dai molinelli che Man-Sciù faceva descrivere al bastone, anzi si era raccolta su se stessa come per prepararsi ad assalirla.

Pazza di terrore la povera donna si era messa a gridare:

– Aiuto!... Aiuto!...

Solo l’eco della vicina foresta aveva risposto a quel supremo appello.

La belva, tigre o pantera che fosse, conservava un’immobilità minacciosa, fissandola sempre coi suoi occhi fosforescenti e mandando di quando in quando un rauco brontolìo.

La disgraziata vecchia, paralizzata dal terrore, non aveva più la forza di fuggire. Guardava la belva cogli occhi dilatati dallo spavento, stringendosi convulsivamente contro l’albero. Ad un tratto l’animale scattò. Man-Sciù si sentì atterrare, prendere per le vesti, poi trascinare in una corsa sfrenata attraverso la tenebrosa foresta.

Quanto durò quella corsa? Non avrebbe potuto dirlo.

Due spari che echeggiarono ai suoi orecchi la fecero tornare in sé.

Aprì gli occhi e vide la belva che fuggiva mandando dei rauchi ruggiti; poi due uomini armati di fucile uscirono da una macchia.

Uno di essi mandò un grido di stupore.

– Sono ubriaco od ho la vista torbida? Che Gautama mi fulmini se questa non è la vecchia Man-Sciù?

– Tu sogni, amico.

– Guardala dunque!...

– Per mille pescicani!... Man-Sciù!...

I due cacciatori si erano curvati sulla vecchia indovina che era ancora quasi istupidita dallo spavento e l’avevano alzata.

Uno prese la fiasca che teneva appesa alla cintura e l’accostò alle labbra di Man-Sciù, versandole in bocca alcune gocce del contenuto.

– Bevi, vecchia – disse. – Ciò ti farà bene e ti rimetterà in gambe.

L’indovina ingoiò qualche sorso, poi respinse colla destra la fiaschetta, mormorando:

– Basta... grazie, ragazzi.

– Hai la pelle dura, Man-Sciù – disse colui che le aveva dato da bere.

– E anche una bella fortuna – aggiunse l’altro. – Senza di noi la pantera ti avrebbe divorata. Ma come ti trovi qui tu? E Sun-Pao? E la Gemma del Fiume Rosso?

Man-Sciù guardava i due uomini senza rispondere.

– Chi siete voi? – chiese finalmente.

– Uomini di Kin-Lung.

– Non è morto il vostro capo?

– È più vivo di te.

– Dove si trova?

– Accampa sulla spiaggia.

– Conducetemi da lui.

– Puoi camminare, vecchia? – chiese l’uomo dalla fiasca.

– La pantera non mi ha morsicata – rispose Man-Sciù. – Mi aveva afferrata solamente per le vesti.

– Allora seguici e ringrazia Gautama di averti protetta. Se quella pantera avesse preso me, mi avrebbe per lo meno stritolata una coscia. Il campo non è lontano: guarda laggiù i fuochi che brillano.