La Montagna di luce/15. Preziose rivelazioni

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15. Preziose rivelazioni

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14. La caccia del cornac 16. Una lotta terribile

15.

PREZIOSE RIVELAZIONI


Quando Bandhara ed il fanciullo vi giunsero, la folla aveva già invase le vicinanze della piscina o meglio del laghetto perché aveva delle dimensioni straordinarie per essere una vera vasca.

Era costruita tutta in pietra, con immense gradinate tutto all'intorno, simili a quelle che dalle pagode scendono verso il Gange, il sacro fiume degl'indiani.

Uomini, donne e fanciulli accorrevano da tutte le parti, recando delle ceste contenenti delle frutta o dei vasi di latte da offrire alle divinità prima d'immergersi in quelle acque benedette.

Le gradinate erano già state prese d'assalto, prima di tutti, dai sacerdoti bramini, personaggi che consumano la loro vita in pratiche così assurde che sembrerebbero incredibili se non fossero verissime.

Si spogliavano in presenza della folla tenendo in mano un asciugatoio candidissimo, quindi si bagnavano i piedi, poi raccoglievano l'acqua nelle palme delle mani, l'alzavano e poi la sorbivano lentamente, facendola prima scorrere lungo i polsi.

Questa non era che la prima parte dell'achumuno, come chiamano il loro bagno mattutino.

Dopo un breve raccoglimento occupato a biascicare una preghiera a Brahma, si toccavano colla mano destra il naso, le labbra, gli orecchi, la fronte, le spalle, l'addome, quindi volgendosi dapprima verso oriente poi verso settentrione, si pulivano i denti servendosi d'un pezzetto di legno dolce.

Questa funzione, importantissima pei bramini, deve farsi prima del levare del sole perché diversamente, secondo le loro strane credenze, sulla metempsicosi nella seconda loro nascita, la loro anima correrebbe il pericolo di passare nel corpo d'un insetto immondo!...

Compiuta la pulizia della bocca, quei bravi sacerdoti, impastati dei più stravaganti pregiudizi, si lavavano le macchie di fango ed i segni fatti il giorno innanzi, distintivi della loro casta; si raschiavano la lingua avendo la precauzione di non farla sanguinare come prescrivono i loro riti, onde non diventare per quel giorno impuri e finalmente si bagnavano, andando poi a sdraiarsi all'ombra degli alberi in attesa del momento opportuno per raccogliere dei fiori, altra cerimonia importantissima.

Terminato il bagno dei bramini, la folla s'era precipitata nel laghetto, ansiosa d'immergersi nelle acque del sacro Gange.

Vi erano uomini, donne e fanciulli, tutti nudi, confusamente mescolati e chiassosi.

Dopo d'aver raccolta nelle loro mani l'acqua e d'averla offerta, con ridicole contorsioni, al sole che in quel momento sorgeva, sfolgorante di luce e di calore, e d'aver versato nel laghetto ampi vasi di latte candidissimo e d'aver gettati fiori e frutta per rendersi propizie le divinità protettrici dell'India, la folla s'era messa a guazzare come uno stormo di anitre.

Uomini e donne si bagnavano reciprocamente, gettandosi addosso l'acqua colle mani, ridendo, gridando, mentre una banda di suonatori, seduti sugli ultimi gradini, battevano fragorosamente tamburi e tamburelli e gonfiavano i polmoni per cavare note sempre più acute dai vari istrumenti a fiato.

Anche al di là delle gradinate, sotto gli alberi, dove i venditori di frutta e d'acqua zuccherata e di betel avevano piantate le loro baracche e dove bande di giocolieri eseguivano i più difficili esercizi, il baccano era assordante.

Si gridava, si chiacchierava, si pettegolava, mentre lunghe file di gente che avevano già compiuto il bagno, salivano le gradinate portando luccicanti vasi di rame ricolmi d'acqua sacra, che doveva servire per le abluzioni della giornata.

Bandhara ed il fanciullo, fatto il loro bagno, si erano messi a ronzare per le gradinate, guardando attentamente le persone che li circondavano.

Non era cosa facile trovare il fakiro in mezzo a quella folla, pure il cornac non disperava e continuava, infaticabile, le sue ricerche.

La mattina era trascorsa e le truppe dei bagnanti stavano per diradarsi, quando il ragazzo urtò vivamente Bandhara.

– Che cosa vuoi? – chiese questi.

– Guarda quell'uomo che sta acquistando delle foglie di betel e che è accompagnato da un giocoliere. Non lo riconosci?

Bandhara guardò nella direzione indicata e fece un gesto di sorpresa ed insieme di gioia.

– È il gigante che accompagnava l'incantatore di serpenti è vero?

– Sì, sahib, l'uomo che lo ha portato nella casupola. Lo riconosco dal suo turbante rosso e giallo e dalla fascia trapunta in argento che gli stringe i fianchi.

– Ecco una fortuna inaspettata – mormorò Bandhara. – Vedremo dove è andato a nascondersi quel maledetto fakiro.

Il gigante, dopo d'aver accartocciata una foglia di betel e di avervi messo dentro un pizzico di arecche e di polvere di calce ed alcune droghe, ne aveva formata una pallottola mettendosela in bocca.

La masticò per alcuni istanti, lanciando al suolo getti di saliva rossa, poi preso sotto il braccio il giocoliere, era andato a sedersi presso una tenda dinanzi alla quale alcuni saltimbanchi eseguivano il giuoco della gabbia.

Bandhara lo aveva seguìto dandosi l'aria d'un bramino che cerca un luogo opportuno, per compiere le sue pratiche mattutine senza venire disturbato.

Avendo scorta presso la tenda una ruth colossale, la quale proiettava dell'ombra e che stava dietro ai due indiani, si sedette a terra, fingendo di biascicare delle preghiere ma in realtà aguzzando gli orecchi per non perdere una sillaba di quanto dicevano quei due uomini.

Per non destare sospetto, aveva fatto cenno a Sadras di fermarsi a qualche distanza, presso un piccolo banano.

La conversazione dei due giocolieri doveva essere cominciata da qualche minuto.

– È inutile – diceva il gigante, al suo compagno. – Noi perdiamo qui il nostro tempo. Forse quell'uomo ha raggiunto i suoi padroni.

Bandhara aveva alzato il capo. Il suo istinto gli diceva che in qualche cosa doveva entrarci in quella conversazione.

Il compagno del gigante aveva risposto, dopo qualche minuto di silenzio:

– Lo credo anch'io.

– Eppure non è rientrato più nel bungalow del rajah.

– L'hai mai veduto tu, Barwani?

– No – rispose il gigante. – Se l'avessi guardato una volta sola non me l'avrei più scordato.

– Vi è solamente Sitama che lo conosca?

– Lui solo.

– Se fosse qui!...

– Ho voluto mettere troppo alla prova la sua fibra. Sitama ha la pelle dura, ma capirai che dopo un simile supplizio, anche un rinoceronte se ne risentirebbe. Eppure malgrado le sue orribili ferite ha voluto eseguire, dinanzi ai cacciatori, il giuoco della gabbia.

Per la seconda volta Bandhara aveva alzato il capo. Cominciava a comprendere perfino troppo.

– Parlano d'Indri e del cacciatore inglese – mormorò. – Quel Sitama deve essere il fakiro.

Barwani, il gigante, aveva ripreso il dialogo.

– Mi è venuto un dubbio.

– Quale? – chiese il giocoliere.

– Che abbiano avuto qualche sospetto su Sitama e che la sospensione non abbia confermato affatto la sua qualità di fakiro. Quel cacciatore bianco deve essere un furbo che dà dei punti anche a noi.

– Od il favorito del guicowar invece?

– L'uno deve valere l'altro – rispose Barwani.

– E tu supponi che abbiano mandato il loro servo sulle tracce di Sitama?

– E anche Sitama è di questo parere.

– Perché!... Un semplice cornac!... – esclamò il giocoliere, con disprezzo. – Non è uomo da competere con noi.

– Tu non puoi sapere cosa si nasconde sotto la pelle di quell'uomo.

– Pare che non mi conoscano ancora bene – mormorò Bandhara, il quale non perdeva una sola sillaba di quella interessante conversazione.

– Che cosa decidi di fare? – chiese il giocoliere.

– Abbandonare le nostre ricerche, per ora, e tornare da Sitama.

– Dove si trova?

– Nella vecchia pagoda di Visnù.

– Ha sloggiato ancora?

– Non si fidava a rimanere in quella bicocca – rispose il gigante. – Sitama è prudente e fa bene a esserlo.

– Avete notato qualche cosa di sospetto?

– Io so che tre ore fa, un ragazzo è andato a chiedere ai vicini chi abitava in quella casupola.

– Un ragazzo!... – esclamò il giocoliere.

– Sì, amico e noi avevamo sloggiato.

– Fu riconosciuto?

– Non vi era alcuno dei nostri.

– Chi può averlo mandato, Barwani?

– Ecco quello che si ignora.

– Che fosse un messo del cornac?

– Lo dubito.

– Eppure qualcuno deve averlo mandato e quel «qualcuno» potrebbe essere un amico dei cacciatori.

– Tu puoi forse aver ragione – rispose il gigante, con accento inquieto. – È perciò che sono contento di aver lasciato così presto la casupola.

Barwani si era alzato.

– Me ne vado – disse. – Questa sera vi è riunione nella pagoda; condurrai tutti.

– Torni presso Sitama?

– È necessario: stamane aveva la febbre.

– Cosa devo fare io?

– Cerca di scoprire il cornac.

– Le indicazioni che mi ha dato Sitama non sono sufficienti.

– Andrai al bungalow per vedere se è tornato o se ha raggiunto i suoi padroni alle miniere. Addio, a questa sera.

Bandhara si era levato prontamente per non farsi scorgere, quantunque fosse certo di non poter venire riconosciuto da quei due uomini che non lo avevano mai veduto.

Si avvolse nel dootée, e passò vicino al ragazzo, dicendogli rapidamente:

– Alla vecchia pagoda di Visnù.

Sadras fece col capo un segno affermativo.

– Pare che sappia dove si trova – mormorò Bandhara.

Fece il giro della tenda, attese che il gigante lo oltrepassasse, quindi si mise a seguirlo alla distanza di quaranta o cinquanta passi.

Quantunque si fosse cacciato tra la folla che s'accalcava nei dintorni del laghetto, era certo di non perderlo di vista. Il suo turbante rosso e giallo si scorgeva facilmente al di sopra di tutte le teste.

Barwani fece il giro del laghetto, poi si cacciò in una via poco frequentata che si dirigeva verso i quartieri meridionali della città.

Bandhara, vedendo che lasciava le vie popolate, era diventato inquieto. Egli ignorava dove si trovasse la vecchia pagoda, ma dalla direzione, presa dal gigante, sospettava che sorgesse in qualche luogo isolato e fors'anche, fuori delle mura della città.

Se la sua supposizione era vera seguire Barwani non era cosa facile. Il briccone, che già stava in guardia, poteva facilmente accorgersi di essere pedinato da qualcuno.

Era bensì vero che non conosceva il cornac, tuttavia non era prudente seguirlo attraverso a vie quasi deserte, senza correre il pericolo di venire notato ed a Bandhara premeva di rimanere incognito per giungere fino al fakiro ed agire liberamente.

– Forse ho fatto male a lasciare Sadras alla piscina – mormorò il fedele cornac.

– Un fanciullo desta meno sospetti e avrei potuto lanciarlo alle calcagna di quel misterioso briccone.

Stava pensando al modo di continuare la caccia senza allarmare il gigante, quando sull'angolo d'una via s'imbatté in una dhummi.

Sono questi dei rozzi veicoli posti su due ruote massicce e che vengono usati per viaggiare nelle campagne.

Hanno una specie di tettoia fatta a vôlta, composta di foglie, riparo eccellente contro gl'infuocati raggi del sole e sono tirate da due grossi zebù bianchi, specie di buoi che hanno delle gobbe pendenti da un lato e delle lunghe corna ricurve.

Quella macchina pesante stava ferma sull'angolo della via, mentre il suo conduttore, un giovane indiano, seduto a cavallo del timone, masticava un pezzo di arecche.

– Sei libero? – chiese Bandhara, avvicinandosi rapidamente al giovane.

– Sì, sahib – rispose questi.

– Ti do un rupia se tu mi conduci alla vecchia pagoda.

– A quale, sahib? Ve ne sono parecchie fuori dalla città.

– Vedi quell'uomo che ha un turbante rosso e giallo?

– Lo vedo benissimo.

– Seguilo e mi condurrai alla vecchia pagoda che desidero visitare.

– Tu sarai obbedito – rispose il conduttore a cui non pareva vero di poter guadagnare così facilmente una rupia.

Bandhara balzò agilmente sotto la cupoletta di foglie che lo celava interamente ed il giovane torse crudelmente la coda ai poveri animali per costringerli a prendere un rapido passo.

Barwani non poteva essersi accorto di nulla, essendovi ancora delle persone in quella via. Aveva continuato a camminare con passo veloce, senza guardarsi alle spalle.

Ormai Bandhara era certo che si dirigeva fuori dalla città, perché erano già giunti presso i vecchi bastioni e non accennava a voltare né a destra né a sinistra.

– Ho avuto una buona idea a noleggiare questo carro – mormorò il cornac. – Questo veicolo non può allarmare quel briccone, essendo naturale che in campagna s'incontrino di queste incomode macchine.

Barwani raggiunse l'angolo d'un bastione dove trovavasi un passaggio, attraversò il largo fossato su un ponte di legno e s'inoltrò attraverso a campi coltivati a bajac, specie di miglio che cresce splendido su quei vasti altipiani.

Sahib – disse il conduttore, volgendosi verso Bandhara. – Il tuo compagno deve recarsi nella vecchia pagoda dedicata a Visnù.

– È lontana? – chiese il cornac.

– Fra una mezz'ora vi saremo; non vedi laggiù, dietro quelle piante, quell'alta cupola sostenente un'asta dorata?

– Sì.

– È quella.

– La conosci?

– Ci sono stato parecchie volte.

– È abitata?

– No perché da lungo tempo le sue muraglie sono malferme.

– È molto vasta?

– Immensa, sahib.

– Sorge forse sui terreni diamantiferi?

– Sì, sahib, ma non su quelli frequentati dal terribile mangiatore d'uomini, è l'unica parte dove ancora si lavora all'estrazione dei diamanti.

– Hai udito mai a raccontare che in quella pagoda si radunino di notte delle persone?

– Lo ignoro, sahib – rispose il conduttore. – Io però non oserei passare una sera fra quelle rovine.

– E perché?

– Si dice che i cattivi geni la frequentano.

– Ah!... Sì!... – esclamò il cornac, sorridendo. – Hai fatto bene a dirmelo perché la vedrò di giorno.

Sporse la testa fuori dalla cupoletta e vide Barwani attraversare con maggior velocità i campi, volgendosi di frequente indietro.

Il carro procedeva anch'esso rapido. Il conduttore continuava a torcere le code dei due poveri animali ed a pungerli con un lungo bastone munito all'estremità d'un chiodo assai acuto.

I terreni coltivati sparivano rapidamente per dar luogo a quelli diamantiferi, ingombri di ammassi di ciottoli e di terra scavata dagli antichi pozzi.

Qua e là si scorgevano gruppi di capanne e tettoie vastissime dove si vedevano numerose persone, mentre nubi di polvere s'alzavano dalle spaccature del suolo.

Era il campo diamantifero in pieno lavoro.

Sahib, – disse il conduttore, – la pagoda sorge dietro quel bosco di mhowak, ma il mio carro non potrà giungere fino là, perché il terreno è tutto sconvolto.

– Puoi tornare in città – rispose Bandhara, mettendogli in mano la rupia promessa. – Non ho più bisogno di te.

Saltò a terra e dopo d'aver atteso che il carro si allontanasse, si diresse verso il bosco, celandosi dietro gli ammassi di terra e di ciottoli.

Barwani era ormai scomparso fra gli alberi. Il cornac tuttavia non si preoccupava di ciò. Sapeva dove si recava e questo era l'importante.

– Scoperto il rifugio di quel maledetto fakiro, il resto verrà da sé – mormorò. – Non conosco la pagoda e non so dove si riuniranno quei misteriosi nemici d'Indri, però riuscirò egualmente a sapere quanto desidero. Qui sotto c'è la mano di Parvati, sono certo di non ingannarmi.

Così monologando raggiunse il margine del bosco formato da colossali mhowak e da gruppi di mangifere e dopo di essersi fermato qualche istante per accertarsi di non essere spiato, s'inoltrò sotto gli alberi.

Aveva facilmente scoperto le orme lasciate sull'umido terreno dai piedi del gigante e le seguiva attentamente, onde essere ben certo che non avesse deviato.

Dopo dieci minuti giungeva dinanzi ad una piccola pianura, cinta tutta intorno da boschi di mangifere, di bambù giganti, di grandi platani e di piccoli tek e nel cui centro, dinanzi ad uno stagno, s'alzava una immensa pagoda in parte diroccata, che rassomigliava un po' a quella di Tangiore, una delle più gigantesche e delle più belle dell'India.

Al pari di questa, l'edificio aveva la forma piramidale e s'alzava oltre i quaranta metri, terminando in una serie di cupole di marmo bianco e di porfido di color bruno che rassomigliava al bronzo.

Colonnati mostruosi, ricchi di sculture rappresentanti geni, teste di elefanti e demoni, lo circondavano, sorreggendo capitelli ancora più mostruosi, pure carichi di statue e di animali rappresentanti per la maggior parte delle mucche, bestie sacre degli indiani.

Sul dinanzi, in cima della gradinata, si elevava una orribile statua rappresentante Holica, un demonio femminile che, secondo quanto narra la leggenda indiana gettò il turbamento ed il terrore nel merù, il paradiso braminico, incatenando le divinità indiane per ottenere ventiquattro titoli laudativi ed il diritto di venire festeggiata ogni anno dai seguaci di Brahma, Siva e Visnù.

Monti di macerie circondavano la pagoda, prodotti forse dal franare di qualche enorme muraglia che in altri tempi doveva cingere l'edificio; tuttavia le pareti, quantunque presentassero larghe fenditure, sembravano ancora in ottimo stato.

Bandhara, nascosto dietro il tronco d'un grosso albero, stette alcuni minuti in osservazione, poi soddisfatto del suo esame, rientrò nel bosco.

– Il rifugio è scoperto; questa sera faremo di più. Andiamo a vedere se Sadras è giunto.

Si rimise in cammino, procedendo con precauzione, non essendo certo che quel bosco fosse deserto, e s'arrestò sull'opposto margine che guardava verso i terreni diamantiferi.

Vi era da alcuni minuti, quando scorse una piccola forma umana che s'avanzava strisciando dietro i monticelli di ciottoli e di terra.

– È Sadras – mormorò. – Il ragazzo è prudente e più astuto di quello che credevo. Mi renderà dei preziosi servigi.

Anche Sadras lo aveva scorto, perché procedeva ora con maggior rapidità, cercando però sempre di non farsi troppo scorgere.

Sahib – disse, quando gli fu vicino. – Tu mi hai fatto correre molto, ma sono lieto d'averti trovato.

– Sapevi dunque dove si trovava la pagoda?

– Sì, perché lo scorso anno ho preso parte alla festa di Holica.

– Conosci anche l'interno?

– Un po'.

– Non vi sono più sacerdoti?

– No, sahib.

– Ascoltami bene ora.

– Sono tutto orecchi – rispose il ragazzo.

– Hai udito a parlare del mangiatore d'uomini?

– Quello che divorava i minatori del rajah?

– Sì, Sadras. Conosci i terreni che frequentava?

– Le miniere occidentali, che sono le più importanti.

– I miei amici ieri sera sono partiti per cacciare il mangiatore.

– I coraggiosi!...

– Uno è un inglese, gli altri due sono indiani. Se io ti ordinassi di andarli a cercare, vi andresti?

Il ragazzo esitò un momento prima di rispondere.

– La bâg non mi mangerà? – chiese poi.

– I miei amici devono ormai averla uccisa, perché sono i più famosi cacciatori che si trovino in India.

– Allora andrò a trovarli senza paura.

– Ascoltami ancora – disse Bandhara.

– Parla, sahib.

– Io questa sera entrerò nella pagoda, perché mi occorre scoprire un mistero che è inutile che tu conosca. Tu mi aspetterai qui per due ore e se non mi vedrai apparire tornerai a Pannah; prenderai un cavallo e recherai ai miei amici il biglietto che ora ti scriverò.

– E tu, sahib?

– Se io non ritorno, vorrà significare che mi hanno ucciso.

Sahib!... – esclamò il ragazzo con terrore. – Perché dici questo?

Invece di rispondere, il cornac si levò da una tasca interna un libriccino, strappò una pagina, vi vergò alcune righe con un pezzo di matita e la porse al ragazzo assieme a venti rupie.

– Questo denaro ti servirà per noleggiare un cavallo e per le spese che potrebbero esserti necessarie. Il biglietto non lo consegnerai che nelle mani dell'uomo bianco il quale risponde al nome di Toby. Me lo prometti?

– Te lo giuro, sahib.

– Ora possiamo andare a vedere le miniere dei diamanti. Abbiamo tempo fino a questa sera.

Bandhara ed il ragazzo lasciarono il bosco e s'inoltrarono attraverso a quei terreni solcati da spaccature ed interrotti di quando in quando da pozzi che erano stati colmati solamente in parte.

La miniera era vicinissima, sicché vi poterono giungere in brevissimo tempo.

Nella sua qualità di bramino, Bandhara poté attraversare indisturbato la zona guardata dai soldati del rajah per impedire le trafugazioni delle preziose pietre.

Quantunque a Pannah si celebrassero le feste religiose, nella miniera si lavorava attivamente.

Essa consisteva in una serie di pozzi larghi una quindicina di metri e profondi dieci o dodici, ai quali si scendeva per mezzo di piani inclinati, sorvegliati pure da guardie, ed in parecchie tettoie dove si lavavano i sassi e la terra per estrarne i diamanti che vi si trovavano mescolati.

Delle norie girate da buoi funzionavano attorno ai pozzi, senza però riuscire ad asciugarli interamente e vincere le numerose filtrazioni d'acqua.

Parecchie centinaia d'indiani, per la maggior parte condannati, interamente nudi, guazzavano in quel fango liquido, scavando il suolo con zappe e vanghe, mentre altri riempivano di terra dei grandi panieri che poi trasportavano faticosamente sotto le tettoie.

Il miscuglio composto di selci, di quarzi e di ganga, contenente talora dei diamanti splendidissimi, veniva in seguito lavato e disgregato mediante un sistema di truogoli di pietra.

Il residuo veniva quindi steso sopra vaste tavole di pietra, diligentemente esaminato da abili sceglitori, e quindi, dopo averlo vagliato parecchie volte, gettato via.

I diamanti venivano subito consegnati ai guardiani che li rinchiudevano in cassette di ferro.

La vagliatura della ganga diamantifera richiede degli operai praticissimi, perché non è facile distinguere, a colpo d'occhio, il diamante greggio in mezzo a frammenti di selci, di quarzi, di diaspri e di hornstoni, i quali hanno pure dei bagliori che possono facilmente ingannare.

Bandhara, sempre accompagnato da un guardiano che sorvegliava attentamente ogni sua mossa e che si studiava di tenerlo lontano dai lavoranti che risalivano dai pozzi, occupò buona parte della giornata, in attesa che la notte calasse per far ritorno alla pagoda.

Verso le sette, nel momento in cui il sole calava rapidissimo, rientrava nella foresta seguìto da Sadras, il quale lo aveva atteso fuori dalla miniera.

– Andiamo – disse al ragazzo. – È il momento di agire.

Stava per mettersi in cammino, quando udì in lontananza uno squillare di catube e un rullar di tamburi.

Guardò verso la città e scorse numerose torce che si avanzavano attraverso i campi.

– Una processione? – chiese al ragazzo.

– Che vengano a festeggiare Holica? – si chiese invece Sadras.

– Verranno a guastare le mie ricerche – mormorò Bandhara, aggrottando la fronte. – Ammenoché non siano i giocolieri e gl'incantatori di serpenti? Vieni, Sadras; li aspetteremo nel bosco e vedremo come dovrò regolarmi.

– Se entrano nella pagoda dovrò seguirli? – chiese Sadras.

– No, mi aspetterai qui fino alla mezzanotte, e se non mi vedrai più uscire, farai quanto ti ho detto.

– Sì, sahib.