La Montagna di luce/9. La festa del tirunal

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9. La festa del tirunal

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9.

LA FESTA DEL TIRUNAL


Pannah è una delle più antiche città dell'India e deve la sua fama alla ricchezza delle sue miniere di diamanti che sono le più celebri e anche le più vecchie che si conoscano.

Essa è situata in mezzo ad un vastissimo altipiano che è di accesso difficile, fra montagne selvagge e boscaglie gigantesche, antiche quanto forse la creazione del mondo, e riposa, si può dire, su un letto di diamanti, perché scavando anche il suolo delle sue vie se ne troverebbero di certo ed in gran numero.

Quantunque non molto vasta, non avendo che una popolazione di ventimila anime, compreso il personale delle miniere che è numerosissimo, è molto elegante ed ha più la fisionomia d'una città europea che indiana.

Le sue abitazioni, costruite per la maggior parte in pietra, hanno un bell'aspetto e per lo più la forma dei bungalows inglesi e anche i suoi templi, di costruzione quasi recente, essendo stati abbattuti quasi tutti gli antichi per uno strano capriccio del fondatore della dinastia, hanno uno stile rimarchevole.

Come tutte le città indiane, non manca d'un bazar spazioso, il solo forse che ricordi l'architettura del paese, ed un palazzo destinato al rajah, ma anche questo d'impronta europea essendo formato da un attruppamento di costruzioni a tetto piatto, con pochi colonnati di stucco sostenenti vaste terrazze.

Quando il drappello, preceduto dai mussalchi che portavano le torce, entrò nella città, le vie erano deserte e oscure.

Solamente qualche ronda di soldati malamente vestiti e armati di lance, passava di quando in quando con passo lesto e silenzioso.

Dopo d'aver attraversate varie vie, la scorta s'arrestò dinanzi ad uno degli ultimi bungalows del palazzo reale, che era guardato da una sentinella.

– Siamo giunti – disse il capo, affacciandosi allo sportello del palanchino occupato da Toby. – Questa è la casa assegnatavi dal rajah.

– Vi è posto anche per l'elefante? – chiese il cacciatore.

– Lo condurrò in uno dei recinti del palazzo e non mancherà di nulla – rispose il capo della scorta.

– Grazie, amico.

Discese lentamente, fece scivolare nelle mani del capo alcune rupie ed entrò nel bungalow seguìto da Indri e da Dhundia.

Quattro servi li aspettavano nel salotto pianterreno, ammobiliato un po' all'europea e un po' all'indiana, con in mezzo una tavola riccamente imbandita.

Sahib – disse uno di quei servi che pareva fosse il chitmudyar, ossia il maggiordomo della casa. – La cena è pronta.

– Per Bacco! – esclamò Toby. – Ben gentile il rajah! Non mi aspettavo una simile accoglienza. Amici, sediamo e facciamo onore al pasto.

– Il rajah ti tratta come un principe – disse Indri.

– Sì, dei cacciatori – rispose Toby, messo in buon umore dal profumo squisito che esalavano le vivande. – Speriamo di trovare anche un buon letto.

La cena era abbondante e svariata: il solito carri, condito con una salsa di pesce, arrosto di antilope, pasticci di riso, pudding, frutta di varie specie e birra.

Toby ed i suoi compagni, assai affamati, diedero un saggio della capacità dei loro ventricoli, facendo non poco stupire i servi, quindi si fecero portare delle pipe e del betel.

Il chitmudyar, sempre dietro la sedia di Toby, pareva che aspettasse di venire interrogato.

– Hai qualche cosa da dirmi? – chiese il cacciatore, che se n'era accorto.

– Sì, sahib – rispose il maggiordomo. – Il mio signore desidera sapere quanto ucciderai il mangiatore d'uomini che da sei settimane impedisce il lavoro delle miniere.

– Domani sera, dopo la festa.

– Assisterai al tirunal, sahib?

– Vogliamo goderci quello spettacolo. E quando potremo vedere il rajah?

– Dopo la morte del mangiatore d'uomini.

– Continua le sue stragi la tigre?

– Sì, sahib. Anche l'altra sera ha divorato un minatore e ne ha storpiati altri due.

– È una fiera ben terribile – disse Toby.

– Più nessun abitante osa attraversare le miniere – disse il maggiordomo.

– Domani, dopo la festa, andremo ad esplorare il terreno, e alla notte le tenderemo un agguato.

– Non hai paura che ti divori, sahib?

– Non sono già un indiano da lasciarmi mangiare come una costoletta – disse Toby. – Noi uccideremo la bâg e guadagneremo il premio promesso dal rajah.

– Te lo auguro, sahib.

Vuotarono un'altra bottiglia di birra, poi si fecero condurre nelle loro stanze, ammobiliate con eleganza e nello stesso tempo con semplicità e fornite di letti di provenienza europea.

Toby e Indri non tardarono ad addormentarsi.

Dhundia, invece di coricarsi, si era messo a passeggiare silenziosamente per la stanza, fermandosi sovente presso la porta, per ascoltare.

Pareva che aspettasse qualcuno.

Erano trascorsi venti minuti, quando udì un passo leggero salire la scala e fermarsi presso la porta.

Aprì e si trovò dinanzi al chitmudyar.

– Ero certo che tu mi aspettavi, sahib – disse. – Avevi compreso il mio segno?

– Sì – rispose Dhundia. – Chi ti manda?

– Sitama, il fakiro.

– È già giunto?

– Sì, camuffato da nanek punthy e accompagnato da Barwani, l'uomo gigante.

– Hanno qualche ordine da darmi da parte di Parvati?

– Nessuno, sahib.

– Allora perché sei venuto?

– Per dirti che noi abbiamo ucciso il messaggiero incaricato d'avvertire il rajah delle intenzioni di Indri.

– Avete fatto bene; se avesse compiuta la sua missione, la Montagna di luce sarebbe stata perduta per noi. Ah!... Parvati giuoca doppia partita!... Che Indri si perda, sta bene, ma il diamante deve cadere nelle nostre mani. Da quando appartieni alla casa del rajah?

– Da tre settimane – rispose il chitmudyar.

– Hai saputo dove si trova la Montagna di luce?

– È chiusa in una cassa di ferro e si trova nel palazzo del rajah.

Dhundia fece una smorfia di malcontento.

– Come farà Indri a prenderla? – mormorò. – Se gli uomini di Sitama che sono così astuti, non sono riusciti, non so cosa potranno fare Toby e l'ex favorito del guicowar.

Fece il giro della stanza, col capo chino sul petto, come fosse immerso in profondi pensieri, poi tornando verso il maggiordomo, disse:

– Sei certo che nessun altro messaggiero sia stato mandato da Parvati?

– Abbiamo uomini in tutte le strade che conducono sull'altipiano e nessuno passerà.

– Me ne sono accorto perché anche noi abbiamo incontrato due volte il nanek punthy.

– Lo so – rispose il maggiordomo, ridendo. – Mi ha raccomandata l'avventura dei serpenti.

– Hanno qualche sospetto su di lui.

– Domani conquisterà la sua fama di santone facendosi appendere all'albero, così nessuno dubiterà che sotto le vesti d'un fakiro si nasconde Sitama, il capo dei dacoiti ed il ladro del Bundelhand.

– E si lascerà lacerare le carni?

– Ha la pelle dura quell'uomo, e la Montagna di luce vale una tortura di poche ore. Hai ordini da darmi, sahib?

– Nessuno, per ora.

– Buona notte.

Il maggiordomo uscì senza far rumore, mentre Dhundia si spogliava, mormorando:

– Trovo che tutto va bene. Aspettiamo ora che Indri s'impadronisca della Montagna di luce, poi agiremo noi.


* * *


L'indomani Toby e Indri venivano svegliati da un baccano assordante che faceva rintronare tutte le vie della città.

L'hauk, l'enorme tamburo che non si può suonare che nelle grandi feste e che si adorna di penne di pavone e di ciuffi di crini, rimbombava dinanzi al palazzo del rajah, mentre nelle vie adiacenti echeggiavano le note acute dei baunch, dei tabri e dei bansy, tutti istrumenti a fiato rassomiglianti a trombette ed alle nostre cornamuse, e le note metalliche e stridenti dei tam tam, percossi furiosamente.

La festa del tirunal cominciava e la popolazione accorreva da tutte le parti per prendere parte alla processione ed assistere al sanguinoso e ributtante spettacolo degli uncinati.

– Giacché oggi non possiamo far nulla, andiamo a vedere la festa – disse Toby. – Con tutto questo fracasso, la tigre non oserà avvicinarsi alle miniere.

– E forse nemmeno questa sera – rispose Indri.

– Noi però andremo ad aspettarla, Indri. Mi preme mostrare il nostro coraggio e la nostra premura al rajah, onde meglio guadagnare il suo animo.

Sahib – disse il maggiordomo, accostandosi a Toby. – Vi sono stati destinati dei posti nei pressi della pagoda.

– Preferisco seguire la processione – rispose l'ex sott'ufficiale. – Ringrazierai nondimeno il rajah di questa sua attenzione.

Fecero colazione in fretta, poi lasciarono il bungalow seguìti da Dhundia e dal cornac il quale li aveva attesi sulla gradinata.

I dintorni del palazzo dei rajah erano stati invasi da una folla enorme, accorsa non solo da tutte le parti della città, bensì anche dai villaggi sparsi sull'immenso altipiano.

Soldati, minatori, ricchi, contadini e servi si erano stipati attorno alla piazza, lasciando nel mezzo uno spazio appena sufficiente pel passaggio del carro e delle antenne sostenenti gli uncinati.

La processione, annunciata da un fracasso assordante di tam tam, di trombe, di cimbali, di tamburi e di campanelle di bronzo, doveva aver già lasciata la pagoda dedicata a Siva, al cui dio la festa era stata dedicata onde facesse cessare la siccità che minacciava di inaridire i pascoli dell'altipiano.

Toby ed i suoi compagni, dopo essersi aperti faticosamente il passo fra la folla, avevano potuto raggiungere una fontana sorretta da quattro teste d'elefante e salire sul parapetto, onde meglio dominare lo spettacolo.

Vi si trovavano da qualche minuto, quando Indri, nel girare lo sguardo verso l'estremità della piazza, s'accorse che un indiano di statura gigantesca lo guardava, senza mai staccargli gli occhi di dosso.

– Toby, conosci quell'uomo? – chiese sottovoce al cacciatore, fingendo di guardare altrove.

– No – rispose l'inglese, il quale si era pure accorto degli sguardi insistenti dell'indiano.

– E tu Dhundia?

– Nemmeno io.

– Si direbbe che ci sorveglia.

– Che sia qualche spia del rajah? – chiese Toby.

– A quale scopo dovrebbe farci seguire da uno dei suoi agenti?

– E se avesse saputo qualche cosa sul vero scopo del nostro viaggio?

– È impossibile – mormorò Indri, il quale tuttavia non aveva potuto frenare un fremito.

Cercò nuovamente l'indiano che lo aveva fissato con tanta ostinazione, ma quell'uomo, accortosi forse di essere stato notato, era scomparso fra la folla che si pigiava contro la fontana.

In quel momento la processione del tirunal sbucava sull'ampia piazza per recarsi nella pagoda maggiore della città, dove si doveva collocare il dio.

Precedevano l'immenso corteo quattro enormi elefanti con gualdrappe di seta rossa a frange d'oro, placche d'egual metallo alla fronte e grandi cerchi d'argento agli orecchi.

Sui loro poderosi dorsi reggevano le mickdember, ossia piccole torri quadrate, superbamente dipinte e dorate, dove si trovavano i principi del sangue.

Seguivano poscia cinquanta cavalieri con vesti sfarzose e armati di lance e di scimitarre; poscia uno stormo di canceni e di devadasì saltellanti, cariche di anelli e di braccialetti, coi lunghi capelli raccolti in nodi intrecciati con fiori e con diamanti e corte gonnelle di seta a svariati colori.

Le prime sono danzatrici di professione, assai ricercate in tutta l'India e che prendono parte a tutte le cerimonie religiose come a tutte le feste.

Le seconde invece sono fanciulle destinate alla custodia dei templi, dove imparano a danzare ed a cantare.

Cantavano e saltellavano, facendo volteggiare i loro veli variopinti e le lunghe fasce di seta, mentre attorno ad esse, bande di musicanti suonavano trombe, pifferi, cornamuse o percuotevano tam tam e tamburi producendo un tal fracasso da guastare i timpani più solidi.

Dietro veniva l'orda dei santoni, dei fakiri, dei fanatici.

Ve n'erano di tutte le specie, gli uni più ributtanti degli altri.

Ecco gli orribili abt-hut, i fakiri che incutono maggior terrore e maggior ammirazione fra le popolazioni, coi volti ed i corpi atrocemente scarabocchiati e lordi di sangue che usciva dalle ferite fattesi; poi i ramanandy coi loro capelli lordi di fango rossastro; poi i poron-hungse che hanno la pretesa di vivere senza mai mangiare né bere e che gl'indiani onorano di ridicole cerimonie; indi i saniassi, santoni pericolosi che spogliano volontieri i viandanti e che saccheggiano i giardini.

Erano quasi tutti nudi, con barbe lunghe in forma di pizzo attortigliato, coi capelli scarmigliati, coi corpi tatuati o pitturati.

Ubriachi d'oppio e di bevande alcooliche, urlavano come belve feroci, si trapassavano le carni con aghi di rame, si tagliuzzavano il petto con coltelli e con spade, saltando, contorcendosi e mandando schiuma dalla bocca.

– Come sono ributtanti – disse Toby, facendo un gesto di nausea.

– Silenzio, amico – disse Indri. – Essi sono i santoni del popolo ed è un'imprudenza parlare male di loro.

– È vero; questi fanatici sarebbero capaci di accopparmi e di gettarmi sotto le ruote del carro. Hai veduto quel birbone di fakiro che abbiamo incontrato lungo il viaggio? Io l'ho cercato invano.

– Non sono riuscito a scoprirlo, Toby.

– Allora non era un vero fakiro.

– Sospetto anch'io che non appartenesse alla classe dei santoni.

La loro conversazione fu soffocata da un fracasso infernale. Un'altra orchestra, più numerosa della prima, s'avanzava sulla piazza suonando e percuotendo gl'istrumenti con vero furore.

Precedeva il carro, una macchina immensa, sorretta da dodici ruote e contornata da sculture rappresentanti tutte le incarnazioni di Visnù, il dio conservatore.

Su una specie di tabernacolo di pietra, tutto ornato di fiori e di banderuole, stava l'idolo rappresentato da un fanciullo seduto su un piccolo pappagallo, con un turcasso sulle spalle, ed in mano un arco di canna da zucchero ed una freccia contornata di rose.

Un centinaio di santoni trascinavano, per mezzo di grosse funi, l'enorme macchina, la quale s'avanzava traballando e scricchiolando.

All'intorno numerose guardie trattenevano i fanatici che cercavano di gettarsi fra le ruote del carro per farsi stritolare. Tuttavia qualcuno spariva sotto quella mole enorme, lasciando sulla via polverosa larghe chiazze di sangue e brandelli di carne orribilmente stritolati.

Il baccano era diventato così acuto, che Toby era stato costretto a turarsi gli orecchi.

Anche la folla che si pigiava sulla piazza, come fosse stata presa da un improvviso accesso di delirio, urlava e si agitava mentre gl'istrumenti musicali raddoppiavano il frastuono.

– Andiamocene – disse Toby. – Io ne ho abbastanza.

– Sarebbe impossibile aprirci il passo – rispose Indri.

– Ho i timpani degli orecchi sfondati e sono nauseato. Questa non è una processione, è un macello.

– Tu non hai ancora veduto le feste di Scialembran e di Iagrenat.

– No, e non desidererei assistervi.

– Ecco i carri degli uncinati – disse Dhundia. – Quando saranno passati, la folla si riverserà verso la pagoda e voi potrete andarvene, signor Toby.

Quattro carri massicci, in forma di torre quadrangolare, posati su quattro ruote piene e trascinati da altri fanatici, s'avanzavano verso la piazza, circondati da una folla delirante ed entusiasta.

Ognuno di quei veicoli sorreggeva un'armatura in legno, la quale sosteneva un'antenna lunga dodici metri e che mediante funi si poteva abbassare od alzare a piacimento.

Ad ognuna delle estremità, sotto una specie di baldacchino adorno di frange, s'agitava un indiano quasi nudo, armato di spada e di scudo, oppure con un sacco contenente dei mazzolini di fiori che gettava al popolo.

Quei disgraziati, vittime volontarie del loro fanatismo, erano sorretti da quattro uncini infilati nelle parti più carnose del dorso e da una corda passata attorno al ventre, onde impedire che i muscoli si lacerassero completamente.

Malgrado il dolore atroce che dovevano provare e la perdita di sangue, il quale ad ogni trabalzo dei carri spruzzava la folla, non mostravano di soffrire troppo.

Agitavano solo nervosamente le gambe e le braccia, rispondendo con grida rauche agli applausi frenetici della folla.

Il primo carro era già giunto presso la fontana, quando un grido sfuggì al cacciatore.

– Guarda, Indri!... Lo vedi?

– Chi? – domandò l'ex favorito del guicowar, stupito.

– Il fakiro che abbiamo incontrato sull'altipiano!...

– Dov'è?

– Là, appeso alla prima antenna!...

– Allora era un vero fakiro – disse Indri.

– Lo riconosci?

– Sì, Toby. Veniva qui per farsi uncinare.

– Eppure...

– Che cosa?

– Ma è lui!... Ora che lo vedo senza quella mezza barba, non m'inganno.

– Spiegati.

– È anche l'uomo che mi ha mandati addosso quei serpenti!... – esclamò Toby.

– Non t'inganni?

– No, Indri: è lo stesso uomo!...

– Se fosse stato una spia, non si sarebbe fatto uncinare così crudelmente, Toby.

– Non so cosa dire.

– Forse l'incantatore di serpenti gli rassomigliava.

– Hum! Non ci vedo chiaro sotto questa faccenda.

– Bandhara – disse Indri, volgendosi verso il cornac che gli stava dietro.

– Cosa vuoi, sahib? – chiese questi.

– Segui quel fakiro e sorveglialo attentamente; mi hai compreso?

– Sì, sahib.

– Mi dirai dove abita e t'informerai sul suo vero essere.

Il cornac balzò giù dalla fontana e scomparve fra la folla.

– Bandhara non lo lascerà più – disse Indri.

– E se il fakiro s'accorgesse di essere sorvegliato?

– Non sfuggirebbe di certo al cornac, anche se dovesse uscire dalla città. Bandhara, oltre ad essere un abilissimo cornac, non ha l'eguale per seguire una pista.

– In mezzo a questa folla?...

– Troverà egualmente le orme lasciate dal fakiro. Ti sembrerà strano, incredibile, che in un paese secco come il nostro, dove i piedi d'un uomo non lasciano che un'impronta impercettibile agli sguardi più acuti, si possa rilevarla e seguirla, eppure vi sono degli uomini che valgono meglio dei cani.

– Ne dubito, Indri.

– Vedrai Bandhara alla prova.

– Cosa facciamo ora? Seguiremo la processione?

– Se non ti rincresce?

– Andiamo, Indri. Voglio rivedere il fakiro.