La Scimitarra di Budda/25. Un elefante di cattivo umore

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25. Un elefante di cattivo umore

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25.

UN ELEFANTE DI CATTIVO UMORE


Nel centro della grande penisola indocinese, stretta fra la Birmania, il Siam, il Tonchino e la provincia cinese di Yun-Nan, trovasi una vastissima regione percorsa da grandi fiumi, con poche catene di monti e immense pianure, che chiamasi Laos. Qual è la sua estensione? Quale il numero dei suoi abitanti? Quali i suoi regni? Quali le sue città? Nessuno sa dirlo con qualche certezza.

Pochi sono i viaggiatori che ardirono slanciarsi attraverso quella regione, e quasi tutti lasciarono descrizioni niente affatto chiare e niente affatto esatte. Taluni, anzi, sono in aperta contraddizione cogli altri.

Si dice che vi sia un regno chiamato Jangoma, governato da preti buddisti, fertile di riso, ricco di metalli preziosi, di benzoino e di muschio e celebre per la bellezza delle sue donne, ricercate dai monarchi dei paesi vicini. Dove si trova? Nessuno sa precisarlo.

Si dice che vi sia un regno chiamato Lac-Tho, senza città, senza fiumi, senza monti, ricco di piantagioni di bambù, di cotone e di depositi di sale. Le tribù vivrebbero nella semplicità dell'età dell'oro e avrebbero i possedimenti in comune. Il raccolto sarebbe lasciato senza custodia nei campi, le porte delle abitazioni sarebbero aperte dì e notte, il forestiero vi sarebbe accolto con la più grande cordialità. Esiste realmente questo regno, o è stato forse confuso col vero Laos che i cinesi chiamano anche Lac-chuè? Nessuno lo sa, come ignorasi pure ove esso trovasi.

Si dice che vi sia un terzo regno che dà il nome alla regione, chiamato Laos, che sarebbe il più potente, il più popolato e il più esteso, con belle città che si chiamerebbero Kiang-Seng, Lè, Meng, Kemerat e Leng. Sarebbe una grande pianura con appena qualche collina o qualche montagna, bene irrigata secondo Mendez Pinto, Marini, Da-Crusc, Kemfer e Du-Halde e senza un fiume secondo La Bissachere. È certo però che il Lant-tsan-kyang, che penetra nel Siam, percorre la regione in tutta la sua lunghezza.

Qualche cosa di più si sa del regno di Laniang, che occuperebbe la parte meridionale della vasta regione.

Questo regno sarebbe vastissimo, popolato da gente ben formata, robusta, di colore olivastro, dotata di buon naturale affabile e cortese.

La capitale, che dà anche il nome al regno e che significa nella lingua del paese «migliaia di elefanti da lanjens», sorgerebbe in riva al Menan-Kong o Lant-tsan-kyang e sarebbe difesa da mura altissime e da profondi fossi. Il palazzo del re, vasto quanto mai, la occuperebbe più che mezza.

Il re sarebbe principe assoluto e non riconoscerebbe alcun superiore negli affari temporali e spirituali, e disporrebbe a suo talento delle terre e delle sostanze dei sudditi. Le città sarebbero molte e popolose, le terre fertilissime, ricche di miniere d'oro, d'argento, di ferro, di piombo, di stagno, di rubini; abbondantissimo e a vile prezzo il sale, che formerebbesi nelle risaie con una certa spuma candidissima che il sole indurisce; svariati gli animali e numerosissimi gli elefanti, i rinoceronti e i bufali.

Da oltre un mese, i cercatori della Scimitarra di Budda, bene montati e meglio armati, percorrevano questa vasta regione, sconosciuta tanto al Capitano quanto a Min-Sì. Non trovata l'arma a Yuen-Kiang, quegli uomini di ferro si erano slanciati senza esitare sulla interminabile via dell'Ovest, decisi di guadagnare la frontiera birmana e scendere l'Irawaddy fino ad Amarapura, per ripigliare le loro ricerche; pronti, se fosse necessario, anche a raggiungere il Pegù e di là la gran piramide dello Scioè-Madù.

Li ritroviamo una sera, poco dopo il tramonto, accampati in una vasta pianura circondata da una foresta, a circa cento miglia dal fiume Nu-Kiang.

La tenda era stata rizzata e un gran fuoco ardeva a pochi passi.

Il cinese e il polacco giuocavano ai dadi presso ai cavalli che erano legati a un piolo. L'americano, più grasso che mai, sdraiato su di un letto di fresche foglie, fumava beatamente una brutta pipa da lui costruita con dell'argilla, e il Capitano esaminava attentamente la sua carta geografica, misurando le distanze con un vecchio compasso.

– Avete finito? – domandò ad un tratto l'americano. – È una buona mezz'ora che vi rompete la testa a decifrare quegli sgorbi.

– Misuro la distanza che dobbiamo percorrere per giungere al Nu-Kiang.

– Cos'è questo Nu-Kiang?

– Un bel fiume che saremo costretti ad attraversare.

– Ancora un fiume! Eppure abbiamo attraversato il Mey-Kong, il Lant-tsan-kyang e il Mey-Nam. Non la si finirà più.

– È l'ultimo, James; dopo non ne incontreremo altri fino all'Irawaddy.

– Quanto ci vorrà per giungere al fiume birmano?

– Un altro mese per lo meno.

– Un mese ancora!

– Vi spaventa?

– No, ma i nostri cavalli mi sembrano un po' malandati. Se si potesse trovare qualche città...

– È cosa molto difficile, James.

– Non ci sono città forse in questa regione?

– Non dico di no, ma dove sono?

– La vostra carta non le indica?

– La mia carta è quasi bianca.

– Oh! I geografi!

– Percorriamo un paese perfettamente sconosciuto. Forse noi siamo i primi bianchi a percorrerlo.

– Buono! Quando tornerò a... Oh!...

– Cosa avete?

– State zitto. Non udite?

Il Capitano tese l'orecchio. In lontananza, fra le foreste, udivasi un sordo martellare che andava man mano avvicinandosi.

– Cosa succede? – chiese il polacco, alzandosi precipitosamente.

– Si direbbe che nei boschi ci sono dei calderai – disse l'americano. – Dzin!... Dzin!... Bum!... Bum!... Ma questa è una musica.

– Battono i gong – disse Min-Sì.

– Cosa sono questi gong? – chiese lo yankee.

– Tamburi di rame che picchiansi con un martello.

– E vanno a suonare nei boschi?

– I suonatori avranno un motivo per far ciò – rispose il Capitano.

– Che vengano a farci una serenata?

– Non udite, sir James, che cantano anche? – disse il polacco.

– Dite, Giorgio: se si andasse a vedere?

– Siete matto, James! – disse il Capitano. – Non sappiamo con chi abbiamo da fare.

I musicanti erano allora assai vicini e si udivano distintamente le loro voci scordate. Erano una trentina con quattro o cinque gong che battevano furiosamente, destando tutti gli echi della foresta.

Il Capitano, che si era allontanato dalla tenda alcune centinaia di passi, scorse, attraverso il fogliame dei boschi, numerose torce che mandavano bagliori rossastri.

– È una processione – disse all'americano, che lo aveva raggiunto. – Forse portano a passeggio il loro dio.

– Hanno un dio questi selvaggi?

– Come lo hanno tutti, James.

– Come lo chiamano?

– Shaka, che vuol dire «il comandante».

– Sarà qualche pezzo di legno scolpito e dorato.

– È probabile, James.

– Mi piacerebbe seguirli fino al loro villaggio.

– Non abbiamo bisogno di nulla, James. I cavalli non sono eccellenti, ma possono camminare e i viveri abbondano. Cosa volete di più? Ritorniamo e cerchiamo di dormire, ché domani voglio fare un bel tratto di strada.

I due avventurieri tornarono alla tenda dove li aspettavano con qualche inquietudine i loro compagni. Sorseggiarono una tazza di thè, poi, eccettuato Casimiro a cui spettava il primo quarto di guardia, si avvolsero nelle coperte chiudendo gli occhi.

Per ben due ore si udirono le grida scordate e i gong rimbombare nel bosco, poi tutto cessò. Il polacco però, che diffidava, sapendo di trovarsi in un paese selvaggio, fece buona guardia girando e rigirando attorno alla tenda colla carabina sotto il braccio.

A mezzanotte nulla era accaduto, né alcun essere vivente si era mostrato. Si cacciò sotto la tenda e svegliò il cinese, a cui spettava il secondo quarto.

– Nulla? – chiese Min-Sì.

– Nulla! – rispose il polacco.

– Non sono più tornati quelli che battevano i gong?

– Non li ho più uditi.

Il cannoniere-spaccamonti prese la sua carabina, diede uno sguardo sulla pianura e, soddisfatto di quell'esame, si sedette presso la tenda fumando un granello d'oppio. Come accade quasi sempre, anche ai fumatori abituati fino dall'infanzia, il cinese a poco a poco chiuse gli occhi e s'addormentò profondamente. Indovinate quale fu la sua sorpresa e il suo terrore quando, svegliatosi, si vide dinanzi, a sette od otto passi di distanza, un animale di enormi dimensioni, grigio, con una lunga e grossa proboscide e due bianche e assai acuminate zanne! Lo riconobbe subito.

– Un elefante! – mormorò, diventando orribilmente pallido.

Si credette perduto. Non gli passò nemmeno pel capo di mandare un grido di aiuto, né di afferrare la carabina che gli stava ancora accanto. Ma passarono alcuni minuti senza che l'elefante si muovesse. Pareva che il briccone si divertisse immensamente del terrore del povero diavolo. Lo guardava con due occhi maliziosi, agitava lentamente la tromba, tentennava il capo, alzava ora l'una e ora l'altra delle sue zampacce, ma niente di più.

Ad un tratto però fece due passi innanzi, avanzò la sua proboscide e, con un vigoroso colpo, rovesciò la tenda seppellendovi sotto il cinese e tutti quelli che vi dormivano dentro.

L'americano, il polacco e Giorgio, svegliati di soprassalto, s'affrettarono a uscire colle carabine in mano.

– Cosa accade? – chiese l'americano. – Toh! Un elefante!

– Alla larga! – gridò il polacco, che sentì scorrersi per le ossa un brivido.

– Fuoco, Casimiro! – tuonò l'americano.

– Fermi! Fermi! – gridò il Capitano. – Dov'è Min-Sì?

Il cinese, agghiacciato dallo spavento, si rialzava allora.

– Zitti! Zitti! – diss'egli. – Non fate fuoco o siamo perduti!

L'elefante, dopo il brutto tiro, erasi allontanato e si dirigeva lentamente verso la foresta, dondolando la proboscide ed emettendo sordi barriti.

– Ma come si è avvicinato? – domandò l'americano che stuzzicava la batteria della sua carabina.

– Non lo so – rispose il cinese, che era confuso. – Mi sono addormentato e quando mi sono svegliato me l'ho trovato dinanzi.

– E non hai scaricato la tua carabina?

– Era a dieci passi da me.

– Tanto meglio.

– Una palla non basta, James – disse il Capitano.

– E lo lasceremo andare? – domandò l'americano. – Io mangerei volentieri un beef-steak di elefante.

– Si può attaccarlo – disse il Capitano. – Un gigante di quella fatta merita una palla e... Oh!...

L'esclamazione gli era stata strappata da un furioso rullare di gong e da un gridìo assordante che venivano dalla foresta.

– Toh! – esclamò l'americano. – Ancora la processione!

– Buono – disse il polacco. – Faranno un bell'incontro.

– A cavallo! A cavallo! – gridò il Capitano. – Se non ci affrettiamo, farà un massacro di tutti quei poveri diavoli.

Esaminarono rapidamente le carabine e le pistole e salirono in arcione mettendo i cavalli al galoppo. L'elefante era giunto sul limite della foresta e stava per entrarvi, quando uscirono trenta o quaranta lanjani1 di media statura, coperti di bianche vesti assai attillate, senza armi, battendo furiosamente i gong che portavano appesi alla cintura.

Con grandissima sorpresa dei cavalieri, quella truppa, invece di darsela a gambe, circondò il gigante, urlando e battendo i gong con maggior rabbia. Gli avventurieri arrestarono i cavalli.

– Ma quegli uomini sono pazzi! – esclamò l'americano.

– Che sia un elefante ammaestrato? – domandò il Capitano al cinese.

– Non può essere che tale – rispose il cinese.

– Se lo prendessimo e lo montassimo? – disse James. – E perché no? Un viaggio sul dorso dell'elefante deve essere divertente.

– Mano alle carabine! – gridò il Capitano.

L'elefante, dopo di aver sopportato tranquillamente le grida e l'assordante rullare dei gong, aveva improvvisamente abbassata la proboscide afferrando un indigeno.

Il pover'uomo, soffocato dalla formidabile tromba e furiosamente scosso, gettò un grido straziante, mentre i suoi compagni si davano a precipitosa fuga arrestandosi solamente sul limite della foresta.

– Accorriamo! – gridò l'americano, armando la carabina.

– Avanti! Avanti! – tuonò il Capitano.

I cavalli partirono rapidi come il vento dirigendosi verso l'elefante che non abbandonava la preda.

A quaranta passi di distanza i cavalieri scaricarono le loro armi.

Il pachiderma, colpito in varii luoghi, mandò un furioso barrito, strinse ancor più fortemente il disgraziato che non dava più segno di vita, lo scosse a venti piedi dal suolo, indi lo sfracellò contro il tronco di un albero.

I cavalieri, vedendo che le palle non avevano prodotto l'effetto desiderato, non si sentirono il coraggio di andare più innanzi e volsero i cavalli allontanandosi colla maggior rapidità possibile.

Il pachiderme esitò un momento, poi, in preda ad una collera spaventevole, si precipitò dietro ai fuggiaschi con balzi giganteschi, abbattendo alberi e cespugli colla rapidità dell'uragano. Incuteva terrore ai più arditi.

I cavalli, tremanti di paura, andavano a casaccio or qua or là, impennandosi, sferrando calci, non obbedendo più alla briglia, tentando di liberarsi dei cavalieri e impedendo a questi di caricare le carabine.

L'elefante invece muoveva dritto, con la bocca aperta, la proboscide in aria, gli occhi accesi, pronto a stritolare gli avversari.

In meno di cinque minuti fu alle spalle dell'americano, che lottava disperatamente per domare il suo cavallo. Vedendosi la tromba a pochi metri di distanza, lo yankee si mise a urlare:

– Aiuto!... Sono morto!...

Quasi nel medesimo istante fu atterrato assieme al cavallo.

Il colosso, imbrattato di sangue, si curvò su di lui gettando un lungo barrito. La sua tromba fischiava nell'aria come se esitasse a scegliere la vittima.

– Fatevi sotto al cavallo! – gridò ad un tratto una voce che l'americano riconobbe per quella del Capitano. – Attenzione!

I tre cavalieri correvano in suo aiuto, ventre a terra. S'udirono tre detonazioni. Subito l'elefante, senza dubbio colpito mortalmente, traballò a destra e a sinistra, girò su se stesso e rovinò a terra con sordo rumore.


Note

  1. Abitanti del Laos.