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La botte di sidro/Il tamburo

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Il tamburo

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Octave Mirbeau - La botte di sidro (1919)
Traduzione dal francese di Anonimo (1920)
Il tamburo
Due amici si amavano I due viaggi


San Latuin, era — ed amo credere che sia sempre — il venerato patrono della nostra parrocchia. Primo vescovo di Normandia, nel primo secolo dell’era cristiana, egli aveva cacciato dal paese, a colpi di pastorale, i druidi, sacrificatori di sangue umano. Si racconta, in libri antichissimi, che bastasse la sua ombra soltanto a guarire i malati e risuscitare i morti. Egli aveva anche dei poteri assai più belli e simili, m’immagino, a quelli che possedeva il reverendo padre Mounoir, il quale, con una imposizione delle proprie mani sulle labbra di stranieri, inculcava loro immediatamente il dono della lingua brettone, come è raffigurato in un affresco di Ian-d’Argent sui muri della cattedrale di Quimper.

Di questi meravigliosi poteri di San Latuin non me ne ricordo più molto, abbenchè la mia infanzia ne sia stata cullata. Ma tuttociò è un po’ confuso nella mia memoria di oggi e sarei imbarazzato se dovessi raccontare tutti i prodigi che gli si attribuiscono.

La cattedrale della diocesi preziosamente conservava, chiusi in un reliquario di bronzo dorato, alcuni autentici resti di questo magico San Latuin: un dente, fra gli altri, e dei piccoli frammenti di tibia, piccoli come fiammiferi. Il suo culto, mantenuto nelle anime dalle dotte esegesi e dai miracolosi aneddoti del nostro buon curato, era in moltissimo onore fra noi.

Disgraziatamente, la parrocchia non possedeva del suo amato patrono che una grossolana e sbiadita immagine di gesso, indecentemente graffiata, sbocconcellata e talmente insufficiente e così autenticamente apocrifa che i vecchi del paese si ricordavano di averla veduta, nella loro gioventù, raffigurare via via, a seconda dei bisogni dell’attualità liturgica, i lineamenti di San Pietro, di Santo Eustorgio e di San Rocco. Queste successive trasformazioni mancavano veramente di dignità e servivano di tema alle irriverenti facezie dei nemici della fede.

Questo affliggeva molto il buon curato, che non sapeva come rimediare ad una situazione cagionata, non dall’indifferenza dei fedeli, ma dalla povertà delle risorse parrocchiali. A forza di tentativi e di eloquenti preghiere, il curato ottenne da monsignore che questo rinunziasse al reliquario per farne dono alla nostra chiesa. Questo fatto arrecò vivissima gioia, quando una domenica il curato l’annunciò ai fedeli, dal suo pulpito. E il paese si preparò a sollennizzare con indimenticabili feste la traslazione delle reliquie, da tanto tempo e tanto ardentemente agognate.

Io avevo allora dodici anni e suonavo il tamburo come un uomo.


Orbene, nel paese viveva un personaggio singolare, chiamato Sostene Martinot. Lo vedo ancora, grosso, rotondo, col gesto untuoso, le labbra che stillavano sorrisi melati e un cranio piatto, pelato e rosso che somigliava un pomodoro troppo maturo. Antico notaio, il signor Martinot era stato condannato a sei anni di reclusione, per furti, abuso di fiducia, scrocco e falso ; sei anni durante i quali egli edificò il carcere di Poissy per la sua mirabile rassegnazione e per la sua abilità nel far trecce per cappelli. Terminato di scontar la pena e tornato a casa, riacquistò presto la stima dei suoi concittadini con una sua gaiezza di buona lega e una sagace divozione, forse in fondo sincera... poichè, chi sa mai?... Questo è certo che nessuno gli dimostrava nè freddezza, nè disprezzo. Le persone più onorevoli, le più rigide, lo ricevevano come un vecchio amico che fosse tornato da lungo viaggio. Egli stesso parlava della sua assenza con un’aria calma e come distratta. E che talenti! Nessuno, meglio di lui, sapeva organizzare una cerimonia religiosa, avviare una processione, decorare un altare provvisorio. Egli era l’anima di tutte le feste, avendo molta immaginazione e vena poetica, e i cantici che componeva espressamente per quelle cerimonie, diventavano popolari. Si cantavano non soltanto in chiesa, ma anche nelle famiglie, la sera, a veglia, intorno alla tavola, o al camino... Quanti ne ho cantati, anch’io, di quelli!

Il signor Sostene Martinot fu, naturalmente, caricato di ideare il programma dei festeggiamenti in onore di San Latuin. Oso dire ch’egli fu ammirabile.


Una mattina venne a casa e disse a mio padre:

— Vi domando Giorgio... ho bisogno di Giorgio. Sì, ho pensato che Giorgio, come tamburo, potrebbe condurre la processione... Non è grande lui... mio Dio! Non è un tamburo maggiore... ma batte benissimo... batte in una maniera sorprendente per la sua età... ha del fuoco, ha della stoffa... Insomma... è quello che ci vuole... Ed è un onore che ho voluto serbare per lui... perchè se ne parlerà molto, di questa festa, amico mio, ve lo assicuro!

E giungendo le mani come un santo in orazione, il signor Sostene Martinot riprese:

— Che festa!... caro amico mio... che festa! Ho già in testa tutto il piano, l’insieme e i particolari!... Sei archi di trionfo, immaginatevi! Condotta da Giorgio, la processione va a ricevere monsignore sulla via di Chartres al crocevia del Molino Nuovo... La musica suonerà delle marcie che ho composto io... Dei cori di fanciulle vestite di bianco, recanti le palme d’oro, canteranno alcuni cantici che ho composto io!.. Ci sarà anche un gruppo di druidi incatenati!... E delle bandiere... e questo... e quest’altro!... Ah! sarà spettacoloso come una cavalcata!... Volete che vi canti la mia composizione principale? Ascoltate!

E senza aspettare la risposta di mio padre, il signor Martinot intonò con voce ferma la cantica, della quale mi rammento ancora questo couplet lirico:

Nel tempo passato, orribili Dei

Troneggiavano ovunque sulle nostre montagne,

E i cristiani, nelle campagne,

Tremavano sotto il lor giogo odioso.

O tenero padre,

Chi potrà rendere più dolci i cieli?

San Latuin, sarete voi, (bis)

Onore e voi! (ter)

Mio padre era estasiato. Complimentò il signor Martinot del suo talento poetico e lo ringraziò della sua proposta.


Quando mio padre mi partecipò l’incomparabile onore al quale ero stato designato, io piansi molto forte.

— Non potrò mai! — balbettai.

— Si può tutto quello che si vuole! — disse mio padre... — ... Studia!... Applicati!... Cura il rullìo... Come! Perbacco!... Una processione simile!... Una festa unica negli annali della parrocchia! E tu, a capo! In testa!... E piangi?... Ma non capisci dunque? Te lo immagini che onore?... Accidenti! A me non è toccata mai una fortuna simile!... E pure, son tuo padre!

La mamma, le sorelle, le cugine mi sermonizzarono, rimproverandomi la mia debolezza e la mia timidezza. Mia madre, sopra tutti, mi si dimostrò esaltata e in collera:

— Se tu non vuoi... — gridò — senti bene: io ti toglierò il tamburo... e lo regalerò a un povero!..

— Sì, sì, così! — applaudì tutta la famiglia. — Gli si riprenderà il suo tamburo!

Brava gente! Come siete lontani, oggi!

Dovetti rassegnarmi. Per tutto un mese, ogni giorno, io sgobbai dolorosamente sul mio tamburo, ora sotto la vigilanza di mio padre, ora sotto quella del signor Martinot, i quali, tanto l’uno che l’altro, con la voce e col gesto, incoraggiavano i miei sforzi.

Arrivò finalmente il gran giorno. C’era nel paesetto un’animazione insolita e febbrile. Le vie erano pavesate: lastrico e marciapiede erano tappezzati di fiori. Immensi archi di verdura, congiunti da festoni, davano al cielo, all’orizzonte, alle case, un impressionante aspetto di mistero, di trionfo, di gioia.

All’ora stabilita, il corteo si formò, io, in testa, col tamburo ballonzolante sulle cosce.

Io ero bizzarramente bardato d’una specie di cappottone, il cui cappuccio era foderato di lana rossa: una fantasia decorativa del signor Martinot, il quale pensava che il cappottone avesse qualche cosa di militare e di armonizzante con il tamburo.

Pioviscolava un poco: il cielo era grigio.

— Su, Giorgino!... — mi disse il signor Martinot — ... nervi... precisione e... eloquenza! Plan, plan!... Plan, plan!...

A partir da quel momento, di quella giornata storica non ho più che dei confusi ricordi... Mi rammento che m’invase una profonda tristezza... Tutto mi sembrava miserabile e pazzo... Avrei voluto fuggirmene, nascondermi, sparire tutto a un tratto, sotto terra, io, col mio cappotto e il mio tamburo... Ma il signor Martinot mi bersagliava sempre, instancabile ; era sempre dietro a me, che diceva:

— Benissimo!... Nervi!... Batti più forte!... Non si sente nulla!...

La pioggia afflosciava la pelle del mio tamburo che, sotto il movimento accelerato delle bacchette, dava un rullìo soffocato, sordo, lugubre.

Non vidi monsignor vescovo, non vidi il reliquario, non vidi altro se non una folla confusa in mezzo alla quale spiccavano a volta a volta, comparivano e scomparivano incessantemente delle strane figure. Non udii nulla, niente altro che un brontolìo confuso di voci lontane, sotterranee. Non vedevo che il signor Martinot, il cranio rosse del signor Martinot, capitanare la musica, spingere i druidi incatenati, dirigere i cori delle fanciulle che cantavano con certi guaiti cacafonici:

Nel tempo passato, orribili Dei...

E battevo sul tamburo, prima macchinalmente, poi con rabbia, con frenesia, trasportato da una specie di follìa nervosa, esasperato anche dagli incoraggiamenti del signor Martinot:

— Così!... Bravo!... Nervi! Plan!... plan!... Plan, plan!...

Questo durò molto, durò un secolo, attraverso strade, cappelle, archi di trionfo e fantasmi...


La sera, il nostro curato offriva un gran desinare. Io fui presentato a monsignore:

— È il ragazzetto che ha suonato così bene il tamburo, disse il curato, dandomi sulla guancia un buffetto amichevole.

— Ah... davvero! — sclamò il vescovo — così piccolo!

E anche lui mi diede un buffetto sulla gota.

Il gran vicario fece come il vescovo e tutti i convitati, che erano più di venti, fecero come aveva fatto il gran vicario.

— Vedi? — mi disse mio padre al colmo della contentezza, — ... Mi darai retta, un’altra volta?

E siccome io non rispondevo, egli ammonì con voce severa:

— Guarda! Tu non meriteresti quello che ti tocca!

Che cosa mi toccò? Accasciato da tante scosse e tante emozioni, mi buscai la febbre, l’indomani.

Una meningite mi tenne lungamente fra vita e morte, nel più spaventoso delirio... E se non ne morii, mi ha detto poi spesso mio padre, lo debbo al mio tamburo che fu inteso da San Latuin...