La città del re lebbroso/Capitolo XIX - I furori d'un vecchio elefante

Da Wikisource.
Capitolo XIX - I furori d'un vecchio elefante

../Capitolo XVIII - Attraverso le foreste ../Capitolo XX - Nuovi complotti del puram IncludiIntestazione 9 gennaio 2017 75% Da definire

Capitolo XIX - I furori d'un vecchio elefante
Capitolo XVIII - Attraverso le foreste Capitolo XX - Nuovi complotti del puram

Capitolo XIX

I furori d'un vecchio elefante


Dieci minuti dopo, i due cacciatori si trovavano nella foresta, la quale non era, almeno sul principio, così folta come l'avevano creduta, poiché le piante crescevano a gruppi staccati.

Il pilota, che doveva conoscere quei luoghi a menadito e che, come la maggior parte dei selvaggi, aveva l'istinto dell'orientamento, si diresse verso la montagna, quantunque, trovandosi sotto quelle altissime piante, non potesse scorgerla.

Si era messo dinanzi al dottore, tenendo il fucile sotto il braccio e la sinistra sulla lunga impugnatura del suo coltellaccio a lama larga e quadra, tagliente come un rasoio.

Camminava senza parlare, come se fosse assorto in un profondo pensiero; e si capiva che si teneva in guardia, perché di quando in quando girava il capo a destra ed a sinistra, curvandosi ora da una parte e ora dall'altra per meglio raccogliere i più lievi rumori.

La foresta invece era silenziosa, come se nessun essere vivente la popolasse. Non si udivano né grida di scimmie notturne, né sibili di serpenti, né stridore di lucertole volanti, che pur sono così numerose nelle selve dell'Indocina.

Avanzarono così per circa mezz'ora, girando attorno a macchioni di areche, di tek, di banani selvatici e di fichi baniani, finché giunsero su un terreno umidissimo, ingombro di enormi bambù.

Il pilota si arrestò.

«È qui la sorgente,» disse.

«Non vedo alcun animale,» rispose il dottore. «Dove sono i cervi e i cinghiali che mi avevi promesso?»

«Abbiate pazienza; è ancora troppo presto e gli animali non hanno lasciato i loro nascondigli.»

«Sei stato altre volte qui?»

«Ci venivo di frequente una volta, con mio padre che, oltre ad essere un valente costruttore di barche, era anche un bravo cacciatore.»

«Hai sempre abitato a Sarawan?»

«Sempre?... No... ho girato molto il Siam e altri paesi ancora... Udite questo mormorio?»

«Sì.»

«È la sorgente. Aprite gli occhi e tenete pronto il fucile. Questi bambù sono i rifugi delle tigri e delle pantere nere.»

«Non temere per me.»

Il pilota girò un'enorme macchia di bambù e giunse ben presto dinanzi ad uno stagno, le cui acque gorgogliavano come se bollissero.

«Dove ci imboscheremo?» chiese Roberto.

«Vi devono essere delle buche qui, che una volta servivano da trappole. Eccone là una che servirà benissimo per noi.» Tornò verso la macchia e si arrestò dinanzi ad un grosso tamarindo, che sorgeva quasi isolato fra le canne giganti.

A pochi passi vi era infatti un'escavazione profonda un metro e mezzo, con parecchi pali aguzzi piantati nel fondo, e così vasta che un rinoceronte avrebbe potuto trovarvi comodamente posto.

«Scendiamo,» disse Kopom.

Stava per calarsi, quando quello stesso grido metallico, che già avevano udito alcune ore prima, ruppe bruscamente il silenzio che regnava nella foresta.

Kopom trasalì.

«Che bestia sarà questa?» chiese il dottore. «Ecco la seconda volta che udiamo questo suono. Si direbbe emesso da qualche strumento. Che quell'animale ci abbia seguiti?»

«Non ne so nulla,» rispose Kopom.

Saltò nella fossa e, fosse caso o per progetto, lasciò sfuggire la carica del suo fucile. Vedendo il lampo e udendo lo sparo, il dottore mandò un grido: credeva che si fosse ferito.

«Maledizione!» grugnì Kopom.

«Colpito?»

«No, signore; fortunatamente avevo la canna abbassata, e la palla s'è conficcata nel terreno.»

«Imprudente! potevi ferirti.»

«Mi rincresce per voi; gli animali, allarmati da questo sparo, non oseranno accostarsi alla sorgente.»

Come per dargli una pronta smentita, in quel momento stesso echeggiò invece a breve distanza un formidabile barrito, che si ripercosse lungamente sotto le piante.

«Un elefante!» esclamò il dottore, saltando precipitosamente nella fossa.

Una sorda bestemmia sfuggì alle labbra del pilota.

«È buona selvaggina,» disse il dottore, un po' sorpreso.

«Troppo pericolosa,» rispose Kopom con dispetto.

«Non ho paura io.»

«È un solitario, signore, e quei vecchi elefanti sono cattivi e non si arrestano dinanzi ai colpi di carabina. Lasciatelo andare, se compare.»

«Sono venuto qui per cacciare e non già per veder passare la selvaggina. Se lo vedo accostarsi non lo risparmierò, checché possa accadere.»

«Badate di non aver poi da pentirvi,» disse Kopom ruvidamente.

«Non sono un cacciatore novellino.»

«E poi gli elefanti appartengono al re.»

«Il re è lontano. Eccolo!... Lo vedi? Che splendido pachiderma!»

Un colossale elefante era improvvisamente comparso presso lo stagno, dietro ad un gruppo di cespugli, fra i quali forse si era tenuto nascosto fino ad allora, si mostrava inquieto. Agitava i suoi enormi orecchi e colla tromba aspirava fragorosamente l'aria. Certo fiutava l'odor della polvere.

«Miro alla giuntura della spalla,» disse il dottore. «Non è che a cinquanta metri, e non lo sbaglierò.»

«Vi ripeto di lasciarlo in pace, signore,» rispose il pilota. «Anche se ferito gravemente, ci caricherà e ci schiaccerà sotto i suoi larghi piedi.»

«Se hai paura, fuggi; io non lo lascerò andare.»

«Se vi succede una disgrazia, tanto peggio per voi.»

«Non occuparti di me.»

Il dottore alzò con precauzione la carabina, appoggiando la canna sul margine della buca, per meglio mirare.

L'elefante non si era mosso. La sua enorme massa spiccava nettamente presso lo stagno e si presentava di fronte. Continuava a dare segni di agitazione alzando ed abbassando la proboscide, e pestava il suolo colle enormi zampacce, facendo schizzare in aria larghi spruzzi di fango.

Kopom non aveva nemmeno alzato il suo archibugio, anzi pareva che non si occupasse in quel momento né del compagno, né del pericoloso animale.

Guardava da un'altra parte, colle mani agli orecchi per meglio raccogliere i rumori, facendo di tratto in tratto un gesto di rabbiosa impazienza e mormorando fra i denti:

«Maledetto elefante!... Guasterà tutto...»

D'improvviso un lampo illuminò la buca, seguito da una fragorosa detonazione. Il dottore aveva fatto fuoco.

L'elefante, certamente colpito dalla palla conica della carabina, fece due o tre passi indietro, mandando un lungo barrito.

«Fuoco, pilota!» gridò imprudentemente il dottore. «È toccato!»

Aveva appena finito la frase, che vide l'enorme pachiderma scagliarsi verso la buca con un slancio irresistibile. Il grido del dottore l'aveva avvertito della presenza dei suoi nemici: e caricava all'impazzata, barrendo spaventosamente e colla proboscide alta, pronto a colpire.

Il dottore con un gesto fulmineo strappò al pilota l'archibugio. Quantunque non avesse molta fiducia in quella pessima arma arrugginita, si preparò a servirsene.

L'armò rapidamente e, vedendo l'elefante che stava per precipitarsi nella buca, fece fuoco a bruciapelo, quasi sotto la gola.

Il pachiderma, vedendo la fiamma, si arrestò di colpo, impennandosi, poi, preso da un improvviso terrore, fece un rapido voltafaccia, fuggendo verso la macchia.

Kopom aveva mandato un urlo di spavento, credendo che il colosso piombasse nella buca e li schiacciasse.

«Signore!» gridò. «Fuggiamo! Il Sen ritornerà alla carica.»

«Fuggire!... E dove?»

«Sull'albero, signore.»

«È ferito e forse gravemente.»

«Tornerà, vi dico.»

«Cerchiamo un rifugio dunque.»

L'elefante, reso pazzo dal dolore prodottogli da quelle due ferite, si era precipitato in mezzo ai bambù della macchia, barrendo ferocemente. I due cacciatori erano già balzati fuori dalla buca e si erano slanciati verso il tamarindo, il cui tronco, coperto da piante parassite, permetteva una rapida scalata.

«Salite, signore,» gridò Kopom.

Il dottore si aggrappò ad alcuni rotang che pendevano dai rami più bassi, senza dimenticare di portare con sé la carabina, arma troppo preziosa per essere lasciata a terra.

Kopom si era già afferrato alle piante parassite e saliva precipitosamente, temendo che l'elefante giungesse in tempo per afferrarlo.

Non ritenendosi sicuri sui primi rami, passarono su altri più elevati, tenendosi bene stretti.

Il pachiderma, come Kopom aveva preveduto, passato il primo momento di terrore causatogli da quella fucilata che si era veduto sparare quasi sotto la gola, tornava nuovamente alla carica.

Era in preda ad uno spaventevole accesso di furore. I suoi barriti rimbombavano nella foresta come scoppi di artiglierie e la sua tromba sferzava con impeto formidabile le piante e le canne, abbattendole come se fossero fuscelli di paglia.

Rovinò addosso al tamarindo con tale violenza che la pianta, quantunque fosse grossissima, oscillò violentemente, crepitando come se fosse lì lì per essere schiantata.

Fu un vero miracolo se Kopom e Roberto non furono scaraventati al suolo.

«La sradica!» gridò il dottore.

«Non temete,» rispose il pilota. «I tamarindi sono elastici, ma d'una solidità eccezionale.»

Il colosso, visto che la pianta non era caduta sotto quel poderoso urto, alzò la tromba e la introdusse fra i rami, sperando di poter afferrare i due cacciatori e di strapparli dal loro rifugio.

Vista l'inutilità dei suoi sforzi, si mise a rompere con furore i rami più bassi, imprimendo alla pianta nuove e violentissime scosse, per resistere alle quali il pilota e Roberto erano costretti a tenersi abbracciati al tronco.

«Se ci lascia un momento in pace, ricomincerò il fuoco,» disse il dottore. «Possibile che non si calmi un momento? Che cosa ne dici, pilota?»

Kopom non rispose. Non era l'elefante che in quel momento lo preoccupava. Per la seconda volta ascoltava attentamente, borbottando fra i denti:

«Che cosa aspettano quegli stupidi? L'occasione per prenderlo non potrebbe essere migliore.

Se Mien-Ming m'avesse lasciato fare, questo dannato farang non sarebbe più vivo. Perché vuole risparmiarlo? Una disgrazia può succedere anche ad un europeo.»

Intanto l'elefante, sempre più inferocito, raddoppiava i suoi sforzi, impedendo al dottore di ricaricare la carabina, giacché doveva tenersi ben stretto al tronco per non venire sbalzato a terra.

Il furibondo pachiderma, dopo aver strappato tutti i rami che erano a portata della sua proboscide, aveva ricominciato a investire la pianta.

La sua enorme testa, pari ad un ariete, cozzava contro il tronco, mentre le sue larghe zanne strappavano lembi di corteccia e si sprofondavano nel legno. Vi era da temere che, continuando a quel modo, finisse veramente per atterrare l'albero.

«Pilota!» gridò il dottore. «Cerca di caricare il tuo archibugio.»

«È impossibile, signore,» rispose Kopom, che cominciava a diventare inquieto. «Se lascio il tronco, cado.»

«Non si stancherà mai?»

«Ci vuole a terra, signore.»

«E finirà per buttare giù il tamarindo, se non riusciamo a finirlo.»

«È quello che avverrà, signore.»

«Ah!... Maledetta bestia!...»

Uno scricchiolio sinistro si era fatto udire, dopo un urto più violento degli altri. Il dottore aveva mandato un grido, mentre Kopom si era lasciata sfuggire una rauca imprecazione.

A un tratto gli urti cessarono. L'elefante doveva aver compreso che con una carica furiosa poteva riuscire a sradicare la pianta.

Si allontanò rapidamente per prendere lo slancio ed investirla con tutta la massa del suo enorme corpaccio.

«Signore!» gridò Kopom, con accento di terrore. «Si prepara ad investirci!»

Il dottore stava approfittando di quel momento di sosta. Introdusse rapidamente una cartuccia nella carabina e abbassò l'arma.

Il pachiderma si precipitava innanzi a testa bassa.

Egli fece fuoco, credendo di arrestarlo in piena volata, ma la nube di fumo non s'era ancora diradata, che udì uno schianto terribile.

Non ebbe il tempo di riafferrarsi ai rami e si sentì proiettato in aria. Girò due o tre volte su se stesso, poi piombò in mezzo ai fasci di bambù che si trovavano a breve distanza e che si piegarono scrosciando sotto il peso del suo corpo. Gli parve di udire confusamente delle grida, parecchi colpi di fucile; poi più nulla.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

«Ebbene, come state, dottore?»

Roberto, udendo la voce armoniosa di Len-Pra, riaperse gli occhi, guardandosi intorno con vivo stupore.

Si trovava nella sua tenda, coricato sopra un soffice cuscino di seta rossa, e la graziosa figlia del generale gli stava accanto, porgendogli, sorridente, una tazza colma di un liquido fumante e odoroso.

«Una buona sorsata di tè, signor Roberto. Ve l'ho preparato io e vi assicuro che vi farà bene.»

Il dottore si alzò a sedere, continuando a guardare Len e la tenda. Non riusciva a raccapezzarsi.

A un tratto si rammentò dell'elefante e del capitombolo in mezzo ai bambù.

«Come mai sono qui, Len?» chiese. «E l'elefante?... Ed il pilota?... Mi sembra impossibile di trovarmi ancora vivo. Che cosa è successo, Len?»

«Molte cose, dottore, ma prima bevete questo tè,» rispose la fanciulla.

Il dottore prese la tazza e la vuotò avidamente.

«Come state? Mio padre vi ha esaminato e non ha trovato alcuna ferita sul vostro corpo, quantunque quei briganti facessero un fuoco infernale.»

«I briganti!... Quali briganti?» chiese il dottore, la cui sorpresa aumentava. «Volete dire l'elefante?»

«Era già morto, dottore,» disse Lakon-tay, entrando nella tenda, «Non sentite questo profumo? È un pezzo della sua tromba che cuoce. Siete ancora debole?»

«Ah!... Generale!» esclamò Roberto, stringendo la mano che gli veniva tesa. «Spiegatemi che cosa è avvenuto dopo il mio capitombolo.

Mi ricordo vagamente d'aver udito uno scroscio e veduto l'albero rovinare, e poi... che cosa è successo poi? Chi mi ha portato qui?»

«Sono avvenute delle cose molto gravi e per me assolutamente inesplicabili, per ora. Prima di tutto, rispondete ad alcune mie domande. Come vi sentite?»

«Ho le membra un po' ammaccate, ma nulla di più.»

«Sfido io! Una caduta di sessanta piedi! Se non c'erano i bambù lì presso, non so, dottore, se sareste ancora vivo.»

«E il pilota?»

«Se l'è cavata meglio di voi,» rispose Lakon-tay. «Invece di lasciarsi cadere, si è tenuto ben stretto al tronco dell'albero ed i rami, urtando contro il suolo, lo hanno preservato.»

«E l'elefante non l'ha stritolato?»

«Non ne ha avuto il tempo. L'avete colpito mortalmente, a quanto pare, col vostro ultimo colpo di fucile, e, appena rovesciato l'albero, è caduto anche lui per non rialzarsi più. Aveva resistito perfino troppo alle vostre palle.»

«Sicché il pilota è salvo?»

«Sì, salvo; anzi parliamo di lui, giacché è lontano. Vi ha dato qualche motivo per sospettare di lui?»

«Nessuno,» rispose il dottore, facendo un gesto di meraviglia. «Perché mi fate questa domanda?»

«Non aveva dato alcun segnale? Pensateci bene, dottore.»

«No, ne sono certo.»

«Come si è comportato con voi?»

«Come un uomo premuroso di farmi fare una buona caccia; anzi mi aveva avvertito del pericolo a cui mi esponevo affrontando l'elefante.»

«Non avete il più lontano sospetto che possa avervi teso invece un agguato?»

«No, assolutamente.»

«Come si spiega allora quella improvvisa aggressione?»

«Di quale aggressione parlate?»

«È vero, voi la ignorate, giacché quando noi vi abbiamo raccolto eravate svenuto.»

«Spiegatevi, generale,» disse il dottore, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

«Noi avevamo udito i vostri spari. Ma prima di questi ci aveva impressionato l'udir echeggiare nella direzione da voi presa quella misteriosa nota. Non mi sembrava naturale che dovesse ripetersi ad una così notevole distanza, avendola noi udita per la prima volta a venti o venticinque miglia da qui.

Non so perché, mi venne il sospetto che fosse invece qualche segnale, e decisi di venire a cercarvi con Len e Feng.

Eravamo a mezza via, quando ci giunsero agli orecchi i due primi spari. Affrettammo il passo e giungemmo alla sorgente nel momento in cui l'albero veniva sradicato e voi cadevate fra le canne, salutato da una scarica di fucilate.

Vedemmo subito sette od otto uomini slanciarsi verso i bambù, armati di coltellacci. Chi fossero, non ve lo saprei dire, perché l'oscurità era troppo profonda in quel luogo.

Compresi però che ce l'avevano con voi. Scaricammo senza indugio le nostre armi contro quei banditi e li mettemmo in fuga. Qualcuno era caduto, e fu subito raccolto dai compagni e portato via.»

«Erano Siamesi?»

«Non lo so: dei briganti forse, quantunque io abbia il sospetto che si tratti di qualcosa di più grave. Dottore, non trovate qualche relazione fra il vostro tentato assassinio presso le rive del Menam, la scomparsa del mio balon e questo nuovo attentato?»

Roberto lo guardò a lungo senza rispondere.

«Ditemelo,» disse Lakon-tay.

«Sì,» rispose il dottore. «Vi sono ormai troppi indizi per poter dubitare. Qualcuno cerca di sopprimermi, e questo secondo agguato ne è la prova; ma a quale scopo? Io non ho mai avuto nemici a Bangkok.»

«E poi,» disse Len, che era diventata pallidissima, «chi oserebbe attentare alla vita d'un europeo?»

«Potremmo tuttavia ingannarci nei nostri sospetti,» disse Lakon-tay, dopo un breve silenzio. «Il primo attentato può essere stato commesso da ladri volgari, che speravano di trovarvi indosso qualche somma rilevante. Il balon può esserci stato rubato da pirati di fiume che non avevano alcuna relazione coi primi; gli uomini che vi hanno assalito poco fa possono pure essere dei banditi, operanti per loro conto e che forse altro non desideravano se non impadronirsi del vostro fucile e dell'elefante ucciso.»

«Forse,» rispose il dottore, il quale era tuttavia diventato pensieroso.

«Signor Roberto,» disse la fanciulla. «Non lasciatevi sorprendere in qualche altra imboscata.»

«Non andrò più a cacciare solo, ve lo prometto, Len. Che ritornino quei banditi, generale?»

«Non credo, dopo l'accoglienza che hanno avuto. Orsù, lasciamo che quei bricconi fuggano e andiamo ad assaggiare un pezzo di tromba d'elefante.

Ve la siete ben guadagnata, dottore.»