La fabbrica/V

Da Wikisource.
V. La carità

../IV ../VI IncludiIntestazione 20 gennaio 2009 75% Romanzi

IV VI


Folla in via dell’Olmetto.

Sotto l’incubo della imminente scadenza della pigione, complicata con una quantità di sgomberature, nell’angosciante timore di rimanere sul lastrico, la povera gente accorreva alla Congregazione, armata di suppliche, di fedi di miserabilità, di lettere di raccomandazione, ed altri fogli giudicati necessari o almeno utili.

Era uno dei giorni in cui si distribuiscono i sussidii.

I beneficati ordinari, quelli che avevano il loro sussidio fisso, semestrale, trimestrale o mensile, camminavano tranquillamente, discorrendo; le donnicciuole avvolte nei loro scialli più logori; gli impotenti al lavoro curvi, barcollanti, qualche volta anche più del bisogno.

Gli altri, quelli che facevano la strada per la prima volta, o per la ventesima, senza aver nulla ottenuto, avevano tutt’altro aspetto. L’ansietà, l’incertezza, la vergogna apparivano sui loro volti stirati, pallidissimi o stranamente accesi. Alcuni di questi arrivavano soli, camminando adagio, sfuggendo i conoscenti o avendo l’aria di non riconoscerli; altri, dominati da una invincibile sovraeccitazione, chiacchierottavano continuamente con una specie di singhiozzo ficcandosi nei gruppi, fermando i conoscenti sui due piedi per raccontare le proprie disgrazie, le tenui speranze e i gravi timori.

Le occhiate sospettose, diffidenti, s’incrociavano come sciabole; le invidie schizzavano dai pori.

Nell’ampio cortile dell’antico palazzo Archinti, sotto ai larghi portici che lo circonda, la folla si diluiva; i piedi mal calzati strisciavano il passo; le voci rauche bisbigliavano più sommesse. Molti infilavano lo scalone da gente pratica del luogo mentre altri, pure molti, si fermavano a domandare informazioni al guardaportone. Certi poveri diavoli, poco pratici, che pretendevano di parlare col preside per il quale avevano una lettera, dovevano accontentarsi, per amore o per forza, dell’usciere particolare, che prendeva la lettera, o li rimandava direttamente alla Cancelleria. E ad altri ancora, che volevano il segretario, uomo affabile quanto elegante, o il delegato A, o il delegato B, toccava su per giù la medesima sorte.

Non mancavano i resistenti, gli ostinati, avvezzi a simili imprese, avvezzi alle parole secche e ruvide degli uscieri, alle scuse, ai rinvii; costoro rispondevano semplicemente: "Sta bene, aspetterò", e, piantati lì su due piedi, minacciavano di non muoversi finchè la persona nella quale mettevano tutta la loro fiducia non fosse passata per caso, o gli uscieri stessi seccati o vinti da quella persistenza, non si fossero rassegnati ad annunciarli. Sempre male accolti e meno fortunati i più necessitosi e meritevoli, se timidi, titubanti e facili ad avvilirsi. Certe donne, di aspetto discreto, riuscite chi sa come ad ottenere una lettera di qualche signora per il presidente, il segretario o qualche altro pezzo grosso, si facevano passare per domestiche o messaggere, assumendo un fare sicuro, indifferente di muta sfida.

La grande ressa era in una sala non molto vasta e parecchio buia; la gente si indossava presso al finestrino del distributore. I più arditi accaparrano i primi posti. I deboli che volevano lottare ricevevano spintoni e gomitate nello stomaco. Si parlava forte; si gridava; si bisticciava.

Luisa Terragni e sua madre, addossate alla parete aspettavano da venti minuti. La povera Virginia aveva voluto presentarsi di persona, malgrado la sua estrema debolezza e contro l’espressa volontà della sua figliuola. Le vicine esperte di tutto il sistema, specialmente una certa Agnese, misera lavandaia con tre figliuoli rachitici e il marito tisico, le avevano assicurato, che se non andava in persona non avrebbe avuto nulla, perchè la diffidenza dei distributori era immensa. Così la Virginia aveva voluto alzarsi a tutti i costi e trascinarsi fin là per la prima volta in vita sua.

E soffriva, soffriva per sè e per la figlia; soffriva materialmente di uno sfinimento mortale; e moralmente, di trovarsi là, in quello stato, in quel luogo.

Ma più di lei forse soffriva Luisina, che in quei giorni aveva fatta e rifatta quella Via Crucis le venti volte, e parlato con la metà degli impiegati per ottenere una misera promessa. Ella pensava:

- Se avessi accettato il patto dello Zibardi, se avessi ascoltato i consigli della sora Rosa, non si sarebbe qui. La mia mamma starebbe tranquilla nel suo letto. Forse questo strapazzo le costerà la vita. L’avrò ammazzata io!...

E poi ancora:

- Forse mia madre sopporterà anche questa burrasca; ma avrà patito per nulla. Questa elemosina, quando fosse pure la più generosa che sia lecito sperare, non basterà a saldare il debito al padron di casa! Egli ci venderà la mobiglia e ci metterà sulla strada lo stesso; e la mia mamma dovrà andare allo spedale!...

Questi pensieri le straziavano il cuore; ma non voleva mostrare quello che provava e cercava di far coraggio alla sua mamma con buone parole di speranza, affinchè la speranza la sostenesse almeno durante il supplizio.

Intanto la ressa aumentava. Entravano quelli muniti di libretti, sicuri del fatto loro. E a proposito di questi libretti si facevano commenti di ogni sorta, si scambiavano ingiurie. Le catapecchie di S. Pietro in Gessate, compresa quella dove abitavano le Terragni, fornivano un bel contingente alla miserabilità. Epperò ogni tratto capitavano casigliani, vicini o conoscenti delle due donne. E nella penombra si scambiavano saluti, sorrisi, sguardi benevoli, occhiate fulminatrici.

La madre del ferraio Mariani - quello che si metteva a lavorare di buona voglia quand’era ora di smettere - una vecchietta piccina piccina, rotondetta, con una selva di capelli bianchi intorno a un viso stremenzito, arrivò con un foglio che le dava diritto ad una limosina straordinaria di 30 lire, e andò a collocarsi presso alla Virginia. La presenza della vecchietta cappelluta suscitò un lungo bisbiglio:

- Anche lei!... - esclamò la donna gialla, che teneva in mano, oltre ai suoi, i libretti delle sue tre dozzinanti: - Anche lei! Se danno i sussidi a quelle che hanno l’uomo e i figliuoli che guadagnano, siamo fritte noialtre, povere vedove, senza nessuno al mondo!... Guarda anche la Terragni... Oh, oh. Si vede che la bella ragazza ha fatto giudizio... Come è pallida! Pare una morta di fame.

- Stia un po’ zitta! - le gridò indignata la moglie del muratore Tamburini - la ci ha lì sette libretti, e la porta più ciccia intorno a lei che tutti noi insieme!

Una risata colossale scoppiò nel punto più vicino e andò propagandosi fino all’altra estremità della sala.

Ma le risa salirono al colmo, allorchè la vecchia cominciò a sternutire.

- Salute!... Un figlio maschio!

- Accoppati!

Inviperita, la donna gialla, che, fra parentesi, quel giorno indossava un vestito turchino a piccole righe rosse, si rivoltò, appena potè, contro la Tamburini, gridandole di rimando:

- Pettegola! Ciabattona! Non è colpa mia se tu non hai più nulla attaccato alle ossa! Non è colpa mia se ti sei fatta mangiar viva dai tuoi ganzi, o sudiciona di una schifosa!

Alcuni uomini messi in uzzolo gridavano a squarciagola:

- Brave! bene! bis!

Invano le donne più timide andavan sussurrando:

- Zitto! è una spia della Questura.

Le risate scrosciavano.

La Tamburini, sentendo di avere la peggio, si slanciò sulla nemica per darle una lezione con le unghie e coi denti, se occorreva. E gridava come una energumena:

- È inutile che tu slarghi tanto la bocca! Se ne sanno di più belle sul conto tuo, o poco di buono!...

Visto che le cose prendevano una mala piega, una delle guardie di piantone al finestrino si avanzò risolutamente fra le due donne, minacciando di cacciarle fuori se non la finivano.

L’ordine fu relativamente ristabilito.

Un vago rumore dietro al finestrino annunciò finalmente che la distribuzione stava per cominciare. Le guerricciole e le risate cessarono; il tramestio divenne più forte, giacchè tutti volevano accostarsi di più al finestrino e le guardie avevano un bel da fare a impedire che si schiacciassero.

La Virginia Terragni, sempre in piedi, appoggiata alla figliola e alla vecchia Mariani, tremava in tutte le membra. Oh, come avrebbe voluto essere nel suo letto!

Lo sportellino si era aperto del tutto, e l’impiegato, tranquillo, indifferente, metodico, cominciava a prendere i libretti e i fogli volanti, uno a uno, esaminandoli con una lentezza che agli aspettanti pareva esagerata apposta per tormentarli. Ogni esame era seguito da qualche domanda rivolta al presentatore o alla presentatrice, obbligati a dare tutti gli schiarimenti richiesti. Poi l’impiegato si consultava con un personaggio che rimaneva mezzo nascosto e parlava lento, a bassa voce. Finalmente se tutto andava bene, il danaro veniva sborsato: altrimenti il postulante veniva rimandato con brevi recise parole.

Ogni rinvio provocava naturalmente delle proteste, qualche volta una scena di lagrime o una sequela d’improperi secondo i temperamenti. Ma nessuno vi badava. L’impiegato non rispondeva neppure: le guardie mandavano via i disturbatori con le belle e con le brutte e avanti, che l’importante per tutti era di far presto e finirla.

Quando la Tamburini presentò il suo libretto, si sentì dire che le toglievano il sussidio trimestrale di venti lire. Quella era l’ultima quota che riscuoteva: suo marito guadagnava abbastanza ed anche i ragazzi. Non aveva bisogno di sussidi: ovvero altri avevano più bisogno di lei. A tale annunzio la Civardi che le stava alle spalle ghignò mormorando qualche parola poco benevola.

Vi fu un momento di silenzio ansioso.

I vicini aspettavano che la Tamburini si rivoltasse e alcuni pregustavano il piacere di una scenata. Invece la povera donna ebbe una crisi di nervi che la gettò a terra singhiozzante.

Fu chiamato un inserviente e con l’aiuto di qualcuno degli astanti la portarono fuori. Da quel momento tutto il favore della folla fu per lei. La Civardi, odiosa a tutti, se ne sentì dire di ogni colore malgrado il terrore che ispirava a quelli che la conoscevano. Non ridesse troppo: se era lei che aveva fatto la spia: qualcuno le avrebbe reso la pariglia, ci aveva la camicia parecchio sudicia e si era troppo affrettata a slargar la bocca!

Un nuovo incidente cambiò la scena.

Una ragazza piuttosto vistosa e assai ben vestita si presentò sulla soglia e cercò di penetrare nella calca per arrivare al finestrino col suo libretto in mano.

- Oh! - esclamarono varie voci - Oh! la Bellincioni, la nipote della "poveretta di San Bernardino dei Morti!" Oh, oh!...

Quelli del quartiere di Porta Romana e di Porta Vittoria, che conoscevano la Bellincioni come la bettonica, si misero tutti d’accordo a spingerla indietro.

Altri si unirono ad essi, soltanto perchè si trattava di una donna ben vestita che non pareva tanto bisognosa. In un momento ella si trovò circondata da gente ostile, bersagliata da frizzi salaci e da parole insultanti.

Certi vecchi, che a vederli, si sarebbero creduti completamente dimentichi della loro antica virilità, approfittavano dell’occasione per allungare le mani su quel corpo di donna giovane e procace. Sgominata dalla veemenza con cui la respingevano, Bellincioni rinunziò alla speranza di arrivare ai primi posti; si diè vinta e si rassegnò a retrocedere.

La madre del ferraio la chiamò:

- Venga qui, Cesira! Saremo le ultime ma almeno arriveremo a casa con le ossa sane.

- Ah! son ben contenta di vedere una faccia cristiana! - esclamò la giovine rendendosi all’invito. Ringraziò la buona donna di quella gentilezza; poi, viste le Terragni, le salutò arrossendo lievemente...

Luisina ebbe un invincibile movimento di ripugnanza. In quei giorni correva la ciarla che la Cesira avesse intavolato un rigiro con lo Zibardi. Certo Luisina non aveva gelosia di quell’uomo; era come morto per lei; tuttavia dopo l’ultimo insulto; dopo l’infame mercato che le aveva fatto proporre, non poteva a meno di provare un senso di ribrezzo per la donna che in quel momento forse lo amava. E pensando al suo bimbo, che marciva a Santa Caterina, e del quale non aveva alcuna notizia da circa un mese, perchè le era mancato il tempo di andare dalla levatrice, o non l’aveva trovata in casa, le lagrime le gonfiarono gli occhi.

- Come sono stanca! - mormorò sommessamente la Virginia. - Noi non arriveremo mai più al finestrino!...

Invece di diminuire la folla sembrava aumentare tutti i momenti.

Una vecchia trascinava il distributore in una discussione. Costui non voleva pagarle il sussidio trimestrale che le era concesso, avendo essa il marito infermo; e ciò perchè il certificato - da presentarsi rinnovato ad ogni trimestre - non portava la firma del medico ufficialmente incaricato, bensì di un altro medico che stava di casa a Porta Garibaldi ed era vicino di lei.

Se aveva denari da pagarsi un medico di suo genio, voleva dire che non le occorrevano i sussidii! Oh! ve n’erano troppo di più poveri!...

La donna a sua volta giurava e spergiurava che il medico non l’aveva pagato: che il certificato glielo aveva fatto per carità; perchè il medico dell’ospedale non si lasciava vedere mai mai, e lei non poteva correre le dieci, le venti volte fino all’ospedale col marito infermo e nessuno altro che lei per assisterlo.

Inutile. Il regolamento ordinava che i certificati fossero firmati dal medico incaricato; tanto peggio per chi non si conformava al regolamento. E su questo, l’impiegato, stufo della disputa, chiuse lo sportello sul muso alla donna.

Successe un vero tumulto. Colta dalla paura di non riscuotere più nulla per quel giorno, la poveraglia si scagliò contro la causa di tanto danno.

Chi gridava, chi bestemmiava, chi si limitava a supplicare l’impiegato traverso al finestrino chiuso.

La donna, cui non restava più nessuna speranza per quel giorno, fu costretta a ritirarsi.

I più audaci e svelti si valsero della confusione per cacciarsi innanzi, certi che il finestrino si sarebbe riaperto. Difatti, l’impiegato, desideroso di finirla anche lui, tornò poco dopo alla distribuzione. Seguì un quarto d’ora di relativa calma.

Poi un’altra scena, per colpa di due donne giovani accusate di avere preso un sussidio di cento lire e di non averne bisogno. Le frasi amare, pungenti, ciniche, non più larvate, non più smozzicate, grandinarono.

Ecco dove andavano i denari della carità pubblica!... Si davano a chi mangiava e beveva a piacer suo tutti i santi giorni della settimana!... Se li distribuivano tra di loro!... O li davano alle signore compiacenti, alle belle ragazze!...

E la collera impotente, e il rancore atroce della fame patita, dei bisogni repressi si sfogavano con ingiurie, con recriminazioni senza fine. Le guardie minacciarono i più riottosi, e il distributore si fece sentire: "Avrebbe rinchiuso lo sportello per non riaprirlo!"

Nella sala, bassa, l’aria diveniva sempre più irrespirabile; l’angoscia appariva su molti visi.

I malcontenti si allontanavano ancora eccitati, gridando forte. Alcune donne piangevano lungo lo scalone, la cui imponente architettura pareva quasi una derisione a tanta miseria, ad un così completo abbassamento di umane creature.

Se le donne incontravano un delegato, o qualche impiegato di loro conoscenza, imploravano che si fermasse, che ascoltasse un istante i loro lamenti, le loro ragioni, e il malcapitato, sentendosi sulle spine, rispondeva secondo il solito:

- Pazienza, donne, pazienza; si fa quello che si può: i poveri sono tanti... Si vedrà... Si farà il possibile... Ne riparleremo in consiglio alla prossima seduta. Tornate da qui a un mese... quindici giorni.

E via come il vento, felice di esserne uscito.

Quando Dio volle, anche le Terragni, la mamma del ferraio e la Cesira Bellincioni poterono accostarsi allo sportello.

Erano le ultime.

La Bellincioni presentò il libretto, che era di sua zia, la quale non poteva recarsi in persona per non lasciare la chiesa; e le trenta lire le furono pagate senza alcuna difficoltà come a ogni trimestre. Anche la Mariani ebbe trenta lire, ma con l’avviso che era una limosina straordinaria, che non sperasse altro.

Quanto alle Terragni, l’impiegato pareva incerto. Frugò e rifrugò tra le sue carte, come se avesse perduto qualche cosa. Scartabellò un registro, osservò gli attestati, e finalmente contò dieci lire che consegnò alla Virginia ripetendole con importanza:

- È trimestrale. Vale a dire quaranta lire all’anno. Potrete ritornare di qui a tre mesi.... Avete capito?

- Sì, signore... grazie... - balbettò la infelice che si sentiva mancare.

- O mamma... mamma!... Povera mamma mia! - gemeva, Luisina mordendosi le labbra per non scattare.