La fabbrica/XIII

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XIII. Gioie e spasimi

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XII XIV


Nell’alta notte Luisina vegliava, mezzo vestita, sull’ampio letto.

Intenta, prestando l’orecchio al più lieve rumore, trattenendo il respiro, ella aspettava il ritorno di Francesco. E il suo cuore si struggeva volta a volta nella speranza e nella disperazione.

Al fianco di lei, ignara di tutto, sua madre dormiva.

Luisina si era raccomandata ai Colombo, ai Martinelli, a tutti, perchè non dicessero nulla alla sua povera mamma. E per alcune ore, per un giorno forse, avrebbero taciuto. Se Francesco non ritornava, il silenzio, nonchè impossibile, sarebbe divenuto inutile; il pietoso inganno cadrebbe da sè.

Ma una speranza c’era.

Il delegato non aveva trovato nulla di compromettente nella sua perquisizione. Dunque, Bitossi avrebbe dovuto essere rimandato; a meno che non si compromettesse nell’interrogatorio con qualche risposta imprudente.

Luisina sapeva ch’egli aveva imparato a dominarsi, e si confortava.

Sarebbe dunque ritornato.

Forse era a due passi...

Forse lo avevano trattenuto per i suoi precedenti sfavorevoli... i suoi principi sovversivi, noti, notissimi; la coltellata, le violenze... Già egli lo diceva sempre:

- Povero me, se la Questura mi riagguanta! Basterà un pretesto per non lasciarmi più in pace!

E quella sera come era triste! Voleva infingersi per non darle dispiacere, ma non riesciva.

Aveva un presentimento vago, o sapeva che il Piloni l’avrebbe accusato?

Ella propendeva per questa seconda ipotesi. Conosceva bene il capomastro per propria esperienza e per quello che ne sentiva dire; e d’altra parte sapeva che Francesco non aveva voluto assecondarlo completamente.

Tutti lo dicevano: se Francesco fosse stato uno di quelli che pensano soltanto al proprio interesse, avrebbe potuto mettersi a posto bene col capomastro: diventare assistente guadagnare una bella giornata. L’abilità e il sapere non gli mancavano. Ma era un galantuomo e aveva cuore.

- Povero Francesco! - mormorava commovendosi fino alle lagrime - Povera me!

Un rumore la fece trasalire. Si drizzò a sedere sul letto; ascoltò con più attenzione.

Doveva essere il ferraio Mariani che rientrava con Luigi Bianchi il macchinista - quello che occupava la stanza già abitata da lei - due amici intimi e buontemponi. Francesco non ritornava; oramai era quasi inutile aspettarlo... - Oh! Dio, Dio!...

Soffocò i singulti

- Se non ritorna... vedranno... vedranno...

Non completò la sua minaccia, neppure mentalmente.

Un tremito l’assalse e una sorda imprecazione uscì dalle sue labbra frementi.

La Virginia, che dormiva di un sonno affannoso, si scosse come sul punto di risvegliarsi; poi il sonno la riafferrò, agitato, interrotto da sospiri profondi, ma tenace.

Suonarono le tre alla vicina chiesa di San Pietro in Gessate. Un altro orologio le ripetè. Un ubbriaco fermo sull’angolo dell’orrido vicolo dell’Incarnadino cominciò a cantare con la voce sgangherata.

No, no, Francesco non ritornava più! Forse era già al Cellulare.

Ella non poteva reggere nel letto; le coperte le bruciavano. Mise fuori i piedi e scivolò giù senza far rumore. Finì di rivestirsi a tastoni, si avvoltolò uno sciallino di lana intorno alle spalle e uscì dalla camera per respirare un momento sulla ringhiera. L’aria umida avrebbe calmata forse la febbre da cui era arsa. Un’oscurità profonda pesava sulla corte. Il silenzio non era rotto che dalla canzonaccia oscena dell’ubbriaco. Finalmente egli si mosse. Luisina riconobbe quel passo grave ed incerto come aveva riconosciuta la voce sgangherata. Giunto presso al portone s’arrestò e smise di cantare. Era il calzolaio che il Piloni aveva messo in istrada togliendogli le grame masserizie. Tutte le notti egli passava di là ubbriaco a quel modo e si fermava a brontolare davanti a quell’uscio chiuso.

Appoggiandosi alla ringhiera Luisina sentì l’urto di una grossa chiave che aveva in tasca. Era la chiave della camera di Francesco, consegnata a lei dalla portinaia dopo la perquisizione del delegato. Pensò alla camera vuota ed ebbe la sensazione pungente di una eterna separazione.

I singhiozzi repressi le gonfiarono il petto.

Il freddo della notte le entrava nelle vene; e nel cuore le entrava il sentimento di una implacabile disdetta. La superstizione, tante volte respinta, la riafferrava: si pentiva di non aver dato retta alla vecchia massima tanto ripetuta dalla sua mamma: Quando si è disfortunati l’è inutile; bisogna rinunciare a tutto; bisogna chiudersi nel proprio guscio; non levare gli occhi su nulla; vivere come mummie: unico mezzo per calmare il destino e stornare i malanni che ci pendono sul capo. Sciocca e presuntuosa!... Non le era bastata la prima prova; non il tradimento dello Zibardi; non la morte del bambino! Aveva creduto di poter ricominciare la vita, perchè un uomo buono, sinceramente affettuoso, voleva essere il suo appoggio, sposarla, darle una vita felice!... Sciocca!... Dopo tante titubanze si era lasciata vincere in un momento: dimenticando che due sfortunati, se si mettono insieme, vanno più presto alla malora!

Mentre ella s’inabissava così nel disperato pessimismo, il cuore le balzò in un impeto di gioia prima quasi che l’udito afferrasse distintamente il nuovo rumore che s’appressava. Restò un momento sospesa, con le mani sul petto, sentendosi risalire come dal fondo di un baratro; richiamata alla vita da un sentimento ineffabile che metteva in fuga le amare previsioni.

L’uscio di strada fu aperto e rinchiuso. Era lui, Francesco! L’avrebbe riconosciuto fra mille al passo leggero e fermo di uomo abituato a camminare su i tetti, su i ponti aerei delle fabbriche. Gli corse incontro, lo chiamò:

- Francesco! Francesco!

- O Luisina! Son io, sì!...

Allungarono le braccia anelanti nelle tenebre e si strinsero. Due petti frementi si unirono, due bocche trepidanti si avvinsero. Le lagrime santificarono i baci.

Era in loro tutta la gioia e tutta la trepidante angoscia di cui è capace l’anima umana. Epperò non parlavano. Tali commozioni non si esprimono che con le lagrime, coi baci, coi sospiri.

Mai si erano amati così, né mai avevano provato sì grande gioia unita a sì acuto spasimo.

In quell’istante divino il loro gaudio era fatto più intenso da un supremo presentimento; e l’angoscia trepidante che agitava pure nel gaudio le inconscie anime, veniva da lontano e andava oltre ai confini del presente; poichè essi erano in quel momento non due semplici amanti che si ritrovano, ma i rappresentanti di una razza di paria inebbriati dall’appressarsi della sognata redenzione e amareggiati dall’intima sicurezza di non doverla vedere.

- E la tua mamma, come sta? Cosa dice? - domandò finalmente Francesco.

- Non sa nulla: dorme.

Egli respirò.

- Hai tu la mia chiave?

- Sì. Ho messo un po’ d’ordine. Bisognava vedere che camera ti avevano lasciata! Pareva la fin del mondo.

- Apri.

Entrarono insieme.

Francesco accese un lume. Allora ella vide il viso sconvolto, gli occhi abbattuti. Ripresa da nuovo affanno, domandò con ansia:

- Sei libero, vero?... Sei veramente libero?

Egli esitò un istante.

- Sono libero, sì... Ma se lo sciopero accade non lo sarò più.

- Oh, che colpa ne hai tu?

- Avrei dovuto avvertire il padrone che i lavoranti si preparavano a questo sciopero per il giorno dopo la copritura della fabbrica.

- E avete finito di coprirla?

- Sì. Oggi che è domenica avremo il pranzo promesso; il capomastro coglierà la buona occasione per convincere gli operai del loro interesse a continuare il lavoro; io pure dovrò parlare in questo senso; e se si riesce, bene...; se non si riesce, succederanno probabilmente dei disordini; si faranno degli arresti e... capirai che, essendo già indiziato, arresteranno anche me...

- Dunque è proprio lui che ti ha accusato?

- Accusato alla lettera, no. Non poteva. Ma discorrendo con un delegato suo amico si è fatto capire che dubitava di me, perchè non gli riferisco niente di quello che succede e perchè ho sempre la faccia scura... Come se io potessi essere allegro quando sono davanti a lui!...

Dopo alcuni istanti di riflessione Luisina disse:

- Capisco che tu lo devi odiare; ma il tuo odio è niente al paragone del mio! Non tanto perchè mi ha venduta la mobilia umiliandomi davanti a tutti, umiliando la mia mamma, che ha sofferto ancora più di me; se non fosse che questo, dimenticherei: sono avvezza a soffrire... ma l’odio a morte per quello che fa a te; e se ti succede una disgrazia, giuro a quella immagine della Beata Vergine che ci guarda: giuro che ti vendicherò!

Francesco divenne ancora più pallido e crollò il capo.

- Povera Luisa! Cosa vuoi fare tu? Al primo tentativo saresti presa e ammanettata. Non è ancora il momento. E poi, che cosa è il male che soffriamo noi in confronto a quello che hanno sofferto e soffrono e soffriranno tante e tante migliaia di creature?...

- Ognuno per conto proprio! E siccome noi siamo i più...

- Non basta essere i più. Bisogna intendersi; e per intendersi bisogna avere uno scopo generale. Ora questo scopo non può esser la vendetta personale di ciascuno; dev’essere il bene di tutta la classe. E a questo dobbiamo sacrificare anche i nostri risentimenti, la vita se occorre!... Credi tu, che se questo pensiero non mi trattenesse, non l’avrei già ammazzato io, quel cane?... E non solo lui, ma anche quell’altro, quel vinaio lurco, mascherato da signore. Ogni volta che lo vedo mi ribolle il sangue... E sarei contento di morire subito per avere il gusto di scannarli... Ma non voglio: non devo.

- Oh, Francesco! - sospirava la giovine, - come sei buono, tu!

- Buono?... Non so. Una volta non sarei stato tanto a pensarci su. Mi sarei lasciato trasportare, avrei tirato il colpo; e felice notte. Adesso so di avere altri doveri. Ricordati: il sangue che un povero lavoratore di città o di campagna versa deliberatamente, ricade su tutta la classe dei lavoratori. Le nostre vendette, le nostre azioni violente, anche se provocate, ci rimandano indietro di tanti anni e ritardano il giorno della liberazione. Noi dobbiamo far valere i nostri diritti con la ragione; vincere con la fermezza, con la calma potente. Poco a poco la nostra causa penetrerà nelle altre classi; tutti gli uomini intelligenti, forti, generosi, si legheranno a noi: si formerà un partito nuovo, immenso, il partito della giustizia, e arriverà l’ora della riscossa... che sarà forse terribile, ma più probabilmente senza martiri. I martiri siamo noi... questa generazione, un’altra forse... noi, i battistrada, i pionieri; noi, che abbiamo l’obbligo di lavorare, di soffrire, di combattere per quelli che verranno, se non per noi. Questa sarà la nostra gloria.

Egli tacque e rimase assorto, come se questi discorsi l’avessero trasportato lontano, in un altro mondo.

Sorgeva il giorno. Si spegnevano i lampioni. La finestra della camera s’imbiancava nella luce scialba di una mattina nebbiosa. A San Pietro suonava la prima messa. Chinata la fronte sulla spalla di Francesco, in una commozione profonda, Luisina piangeva sommessamente.

- Perchè piangi? - domandò il giovine con la voce velata, come all’uscire da un sogno.

- Non so. Ti amo!... Quando parli così, la tua voce mi va all’anima e le cose che tu mi dici mi esaltano. Certo, io non avrei mai saputo pensare quello che tu dici; ma quando lo dici, mi pare di avere come sognato qualche cosa di simile e aspettato che tu lo dicessi!...

Egli la guardò teneramente.

- Cara Luisina! Cara!...

La strinse fra le braccia e restarono silenziosi. Francesco fu il primo a rompere l’incanto.

- Bisogna che tu vada - disse sciogliendosi da quell’abbraccio. - Presto saranno tutti alzati. Se ti vedessero uscire di qui non finirebbero mai più di spettegolare... Addio!

- Addio!

- Su! Non ti avvilire così. Il famoso banchetto sarà per le tre; ci vedremo prima. Questa sera andremo a spasso insieme. A rivederci.

- Oh! non vorrei lasciarti mai... Ho paura!...

Egli sorrise dolcemente, e l’abbracciò ancora una volta come per trasfondere in lei il proprio coraggio.