La fine di un Regno (1909)/Parte III/Documenti vol. II/IV

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Documento IV

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Documento IV, volume II, cap. VI.


A proposito del domicilio coatto di Carlo de Cesare
a Barletta nel 1853.


Una lettera di Francesco Saverio Vista.


Suo zio, Carlo de Cesare, non so se ella ne ha mai inteso, fu per parecchi mesi del 1853, e con alcuni amici di Spinazzola, a domicilio coatto qui in Barletta, ordinatogli dal terribile [p. 112 modifica]sottointendente Santoro, che lo volle il più vicino possibile sotto la sua feroce sorveglianza. Si trovava qui allora un giovine piuttosto maturo, impiegato di dogana, Peppino Macridima, greco di origine, nato però a Barletta, tanto amico di mia famiglia; e suo zio, che fu raccomandato qui a Zaccaria Briccos, negoziarte rispettabile, e capo della colonia greca, andò a stare in casa del Beppino, abitante allora in un quarterino al 2° p. di proprietà tuttavia del cav. Ruggiero de Leone. Io nel 1853 avevo 19 anni; ed insieme ad altri amici, tra i quali i giovani greci Attanasio e Nicola Briccos, figlio e nipote dello Zaccaria, di fresco venuti da Trieste, dove aveano dimorato qualche anno per perfezionarsi negli studi commerciali, il sacerdote Ruggiero Casardi, educatore allora di Carmine de Martino, il giovane avvocato Gaetano Passaro ed altri, ogni giorno si andava a passare qualche ora a casa; e Gaetano che parlava declamando, istruito e versatile ingegno, manteneva viva la conversazione. Ricordo fra le tante belle cose, che vi si leggeva nella piccola società, alla barba del sottointendente, una poesia del 1848, intitolata se, mal non ricordo, Il tripode di Marte, del professore Celesia, genovese. Allora la sapevo tutta: ora non ricordo che gli ultimi due versi:

Fuoco egli è che inspira i carmi
di Petrarca e di Alighier!

Ricordo, come se fosse oggi: in quelle ore geniali e paurose, si facevano le più matte risate sugli amori del Gaetano, con una signorina, una Giunone, mentre Gaetauo era piuttosto mingherlino. La chiamava Gnesina: amori che ebbero il loro epilogo in un buon matrimonio, male assortito, onde Gaetano, dopo cinque o sei anni, se ne morì e fu una perdita pel paese!

La Barletta di allora era quella che io ho descritta nel mio opuscolo pubblicato del 1899, dal titolo: Barletta prima e dopo il 1860. Qui aggiungerò, che in quell’anno 1853 era sindaco don Vincenzo Cafiero, zio del padre del sindaco presente comm. Arcangelo; ed era capo urbano don Ruggiero Straniero, persona dabbene, ma che per contentare il famigerato sottointendente, vero terrore di tutti, lasciava briglia sciolta a un sottocapo, che studiava ogni mezzo per rendersi esoso e temuto più del suo protettore. I militi urbani erano quasi tutti contadini, i quali, per esimersi dal servizio notturno, pagavano un cambio. Per dimostrare l’animo prepotente del sottocapo, ora morto e... parce sepulto, ecco un aneddoto che fece chiasso. Un giovanotto di buona famiglia, Filomeno Caraociolo, un giorno incontrò un urbano, che andava al posto di guardia con la giberna a tracollo; e siccome era suo conoscente, [p. 113 modifica]scherzando gli disse: cumpà, hai messa sta scudascine! La Scudascine è chiamata nel nostro dialetto il sottopancia dell’asino. Lo seppe il sottocapo, e subito ordinò l’arresto del Caracciolo; e poichè questi aveva i baffi, lo condusse da un barbiere, e glieli fece radere. Il sindaco era persona perbene, un po’ altezzosa secondo l’andazzo dei tempi; e fu sostituito, forse perchè non abbastanza pieghevole ai capricci del Santoro, dal negoziante Galante, uomo leggiero, venduto al sottointendente. La città nè per polizia, nè per importanza commerciale ed economica, potevasi paragonare alla presente. Era sporchissima, e contava appena la metà della popolazione di oggi, e chiusa nella sua vecchia cerchia. Ella deve ricordarla. Può dunque bene immaginarsi quanto fosse noiosa la vita per suo zio, e per i suoi compagni di domicilio coatto, guardati a vista, e che la sera dovevano tornare a casa prima dell’avemmaria, e subire non poche prepotenze e piccoli ricatti dagli agenti di polizia.

Finalmente giunse il momento della liberazione dei poveri coatti; e suo zio, pria di andarsene, ci lasciò un Addio, 1853, ai miei amici Barlettani. Erano 44 ottave che io conservai e conservo, e nelle quali fa cenno delle nostre glorie avite, e fa anche il nome di parecchi amici, fra i quali ci è quello della mia famiglia Vista.

Questo “Addio„ l’ha trovato fra le carte di suo zio? Se non, sarei ben contento mandargliene copia, e così aggiungere un documento sulla vita dell’illustre uomo nei tempi terribili del Santoro.1



Note

  1. Delle quarantaquattro ottave pubblico la prima e l’ultima:

    ADDIO!

    Ai miei amici di Barletta

    (1853).


    Addio! fra l’ire dell’età nemica
    D’una briga civil già fatto segno,
    Su questa sponda dolcemente amica
    Trassi per odio di malvagio sdegno:
    Ma in questa Terra, che per fama antica
    Suole pregiar lo sventurato ingegno,
    Al fulminato esiglio e alla vendetta
    Seguia d’amici una corona eletta!

    . . . . . . . . . . . . . . . .


    Siccome ignoto viator piumato
    Che nuove terre col passar saluta;
    Come fiocco di neve in mar calato,
    Che orma non lascia della sua caduta:
    Non so’ s’’io lascio aloan ricordo grato
    In questa terra, che non è poi muta...
    Ben so che porto dentro il potto mio
    La ricordanza «l’un dolente addio!...