La giraffa bianca/12. Sulle orme della giraffa bianca

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12. Sulle orme della giraffa bianca

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12. Sulle orme della giraffa bianca
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12.

SULLE ORME DELLA GIRAFFA BIANCA


Terminato il pasto assai delizioso, soprattutto pel dottore che non aveva mai assaggiato simile vivanda, la conversazione si riannodò fra William e l'olandese. Questi aveva domandato al tedesco per quale motivo si trovava, col suo carro, così lontano dalla frontiera del Capo e William non aveva indugiato ad informarlo sullo scopo della spedizione.

— È sempre la giraffa bianca, — aveva risposto — quell'animale che ho cercato per due mesi interi senza esser mai riuscito a raggiungerlo. Avete qualche notizia da darmi in proposito, amico?

— Sì — disse l'olandese. — La vostra famosa giraffa è stata veduta, non più tardi di tre settimane fa, nella foresta di Bloom. Conoscete quella boscaglia?

— Certo — rispose William. — Vi ho ammazzato parecchi leoni l'anno scorso.

— Ebbene è stata veduta là.

— Da chi?

— Da alcuni negri che sono venuti nella mia fattoria a vendermi delle pelli in cambio di un po' di polvere da sparo.

— Avete fiducia in quei negri?

— Completa, William.

— Che il re negro ci abbia ingannato? — chiese il dottore.

— No — rispose William. — La foresta in questione si trova proprio nella direzione indicataci da quel monarca scimmia.

— Allora tutte le informazioni di questi negri sono concordi.

— Sì, dottore.

— Dunque, potremo trovarla!

— Ordinariamente le giraffe si fermano a lungo nei pascoli che scelgono — disse l'olandese.

— È vero — confermò William. — Finché trovano acacie non si allontanano e la foresta di Bloom ne ha moltissime.

— Non indugiamo a partire, William.

— Questa notte sarete costretti a fermarvi nella mia fattoria — disse l'olandese. — Si trova sulla vostra strada.

— Ed è lontana da qui almeno cinque ore — disse William. — Non vi potremo giungere prima del tramonto.

— In viaggio, amici — disse il dottore. — Abbiamo discorso abbastanza.

Appena i negri furono ritornati coi denti dell'elefante, il drappello si rimise in cammino, tagliando l'estremità settentrionale della foresta.

La traversata fu molto faticosa a causa degli ostacoli formati dagli ammassi di liane e di tronchi d'albero cadenti per decrepitezza. Però i viaggiatori non fecero alcun cattivo incontro, e poterono giungere finalmente in una pianura scoperta e sgombra d'alberi.

Procedendo lentamente, verso il tramonto il carro monumentale guadava un fiume, non molto largo e poco profondo, e si fermava alla fattoria dell'olandese. Quella fattoria era una casa di aspetto piacevole, formata da un fabbricato che serviva d'abitazione e da parecchie tettoie che si spingevano fino sulle rive del fiume.

All'intorno erano molti campi già coperti di maiz, di granaglie e di canape, più oltre dei recinti, o kraal, ripieni di montoni e di buoi molto grossi e armati di corna immense.

Van Husk fece ai suoi amici un'accoglienza da vero olandese. Dai suoi negri fece uccidere il montone più grosso, che fu messo ad arrostire intero, dopo avergli levato la pelle e le interiora; lo fece poi servire su di un immenso tagliere.

Mangiarono anche dell'eccellente formaggio fatto col latte di quella fattoria e vuotarono non poche bottiglie di vino vecchio. Quello però che i due tedeschi apprezzarono molto fu il pane fresco, che non avevano mangiato da due mesi, avendo con loro soltanto gallette.

Il giorno dopo il carro riprendeva il cammino verso settentrione. Van Husk accompagnò i suoi amici per un lungo tratto di strada, regalando loro dell'ottimo tabacco ed una capra affinchè potessero avere del latte ogni giorno.

— Un cuor d'oro — disse il dottore, mentre l'olandese tornava alla sua fattoria.

— Sono tutti così questi vecchi coloni olandesi — rispose William. — Quando si vede una fattoria si può entrare liberamente e sedersi alla mensa senza chiedere il permesso. Se domandaste anche della polvere e delle palle ve ne darebbero senza nessun compenso. Non parliamo poi dei viveri.

— È molto ricco Van Husk?

— La sua fattoria è prospera. Quindici anni or sono, quando venne a stabilirsi qui per sottrarsi alle vessazioni crudeli degli inglesi, non aveva né un soldo, né un negro. Ora ha più di quattrocento capi di bestiame, sei servi, dei campi e nel suo cassettone deve avere un bel gruzzolo di sterline. Questi coloni sono sobri, tenaci e finiscono sempre ricchi possidenti.

— A dispetto degli inglesi che vorrebbero invece vederli morir di fame.

— Precisamente così, dottore.

Mentre discorrevano, il carro si avanzava scricchiolando per la vasta pianura, sprofondando sovente le pesanti ruote, tagliate tutte d'un pezzo e senza raggi, nel terreno molto umido.

Si vedevano apparire, di quando in quando, gruppi di piante che formavano dei bellissimi boschetti, rifugi della selvaggina.

Infatti, quando il carro s'appressava a quelle macchie, si vedevano fuggire a corsa disperata numerose antilopi di varie specie ed anche qualche grosso gnu. Scappavano però così presto da non permettere a William di prenderli di mira. Una però, avendo indugiato un po' più delle altre, cadde sotto i colpi del cacciatore.

Era una di quelle antilopi che i coloni olandesi chiamano ourebi. Questi animali sono alti circa due piedi ed hanno il mantello di un colore fulvo pallido, che diventa bianco sotto il ventre e sotto la gola. I maschi hanno le corna nere, molto aguzze; le femmine ne sono sprovviste. Questi graziosi corridori sono eccessivamente curiosi; basta che il cacciatore si corichi al suolo e si metta ad agitare le gambe per vederli avvicinare. Quel povero animale, così opportunamente ucciso, fece le spese della cena e anche della colazione del giorno dopo.

Per altri quattro giorni il pesante carro continuò ad avanzarsi fra quelle pianure immense; poi tornò ad inoltrarsi in folti boschi.

— La giraffa bianca si aggira da queste parti? — chiese il dottore.

— Sì — rispose William.

— Questa foresta deve essere estesissima.

— Immensa, dottore. Ci vogliono almeno sei giorni di marcia per poterla attraversare.

— Ci accamperemo qui, o sotto gli alberi?

— Ci fermeremo presso questa sorgente — rispose William. — Il luogo è opportuno e non ne potremmo trovare uno migliore. Abbiamo acqua limpida e fresca, foraggio pei nostri animali; che volete di più? Aggiungo che la foresta è abitata da un gran numero di belve feroci, le quali non risparmierebbero di certo i nostri buoi.

— Purché non abbiano divorato anche la nostra giraffa bianca!

— Le giraffe sono troppo leste di gambe per farsi raggiungere dai leoni o dai leopardi. Sfidano nella corsa anche i rinoceronti.

— Ve ne sono qui di questi animali?

— Molti, dottore. Ho anzi assistito ad una caccia emozionante in questa foresta.

— Fatta da chi?

— Da alcuni negri.

— Me la racconterete, William.

— Sì, dopo cena. Intanto prepariamo il nostro accampamento.

Fu fatto fermare il carro presso la sorgente e furono staccati i buoi, affinchè pascolassero liberamente per la prateria; poi tutti si misero al lavoro per costruire un kraal, onde mettere al sicuro gli animali.

I negri, aiutati anche dai loro padroni, tagliarono parecchi giovani alberi ed una grande quantità di spine e costruirono un recinto così vasto da contenere tutti gli animali, sufficientemente alto per impedire alle belve di penetrarvi con un salto.

Ciò fatto, raccolsero molta legna secca per mantenere sempre, durante la notte, i fuochi in mezzo al campo.

Calata la sera, fecero entrare i buoi ed i cavalli nel recinto; poi si misero a cenare. L'appetito non mancava, sicché in un attimo fu divorata una coscia dell'antilope uccisa la mattina. Avevano acceso le pipe, quando il dottore disse a William:

— Pare che vi siate dimenticato la vostra caccia emozionante.

— Quella dei rinoceronti?

— Sì.

— Ora ve la racconterò, dottore.

Ricaricò la pipa, poi riprese:

— Come vi avevo detto, questa immensa foresta è frequentata da un numero straordinario di rinoceronti. Voi già conoscete questi animalacci e sapete anche quanto siano pericolosi. L'anno scorso io mi trovavo in questi dintorni inseguendo una banda di antilopi, quando incontrai una dozzina di negri armati di lance e montati su cavalli di buona razza. Comandava la banda un bel giovane alto quasi due metri e robusto come un èrcole. Chiesto loro dove si recassero, mi risposero che andavano a cacciare i rinoceronti. Quella risposta mi stupì non poco, perché non avevo mai veduto i negri affrontare quegli animali soltanto con le lance. Curioso di assistere a quella strana caccia, mi unii ad essi, deciso però di non far uso della mia carabina che in caso di pericolo. I negri, contenti di farsi ammirare da un uomo bianco, non opposero alcuna difficoltà alla mia domanda, sicché li seguii ad una certa distanza.

«A misura che ci avanzavamo nella foresta molto fitta ed interrotta da burroni e da piccole alture, udivo i negri eccitarsi fra loro con altissime grida, come se tutti i loro istinti selvaggi si fossero risvegliati in quella pericolosa caccia.

«Avendo trovato una collinetta molto erta che dominava la foresta, mi ci arrampicai e mi sedetti sopra una roccia, col fucile fra le gambe.

«I negri si erano allontanati, però li vedevo galoppare attraverso agli alberi, girando intorno all'altura.

«Le loro grida andavano facendosi sempre più deboli, quando improvvisamente le udii avvicinarsi miste a muggiti stridenti ed interrotti, i quali indicavano che i rinoceronti tenevano testa ai cacciatori o fuggivano dinanzi a loro.

«La distanza che mi separava dal campo della lotta era troppo considerevole perché io potessi distinguere quale di quelle due ipotesi potesse essere la vera.

«Ben presto però il dubbio non fu più possibile: il galoppo dei cavalli faceva risuonare il suolo, che era sassoso in quella parte della foresta, e le grida dei cavalieri mi fecero comprendere che il rinoceronte od i rinoceronti avevano oltrepassato la linea di investimento e si avvicinavano alla mia collina.

«Mi sono dimenticato di dirvi che avevo con me Kambusi. Dietro consiglio del mio bravo servo, discesi la collina per non perdere nulla di quella caccia interessante.

«Ero appena giunto a metà discesa, quando vidi due enormi rinoceronti, col naso al vento, la testa allungata ed il corno quasi parallelo alla linea della schiena, avvicinarsi al galoppo verso l'altura, seguiti dai dodici cacciatori guidati dal giovane capo.

«“Ecco una cosa strana” dissi a Kambusi. “Avevo sempre creduto che i rinoceronti si scagliassero ciecamente addosso ai nemici invece di sfuggirli.”

«“Hai ragione, padrone” mi rispose Kambusi. “Questa manovra mi stupirebbe al pari di te, ma questi animali devono avere i piccini per agire così. Tutta la loro tattica consiste nell'allontanare i cacciatori dal luogo in cui sono i figli, ancora troppo deboli per potersi difendere. Aspetta un momento e li vedrai cambiare sistema quando riterranno i loro nati fuori di pericolo.”

«La predizione di Kambusi non doveva tardare a verificarsi. Giunti presso la collina, i due rinoceronti si rivolsero di comune accordo e si scagliarono addosso ai cacciatori.

«Il giovane capo, che si trovava a soli trenta passi, giungeva al galoppo, seguito da tre o quattro negri, le cui cavalcature erano superiori a quelle degli altri. La situazione era delle più commoventi.

«Il giovane capo, colla lancia appoggiata ad una rotella di legno, fissata alla spalla mediante una correggia, non esitò un istante alla vista del cambiamento operatosi nella tattica dei pericolosi animali.

«Invece di fermarsi si precipitò su di loro, eccitando il cavallo col gesto e colla voce.

«“È perduto!” esclamai nel momento in cui stavano per incontrarsi.

«Armai la carabina e mi tenni pronto a far fuoco.

«Avevo fatto i conti senza l'abilità del giovane e l'abitudine che avevano i suoi compagni in quel genere di caccia.

«Infatti quasi subito si udirono urla spaventevoli, unite alle grida di trionfo dei negri. I due rinoceronti erano caduti sulle ginocchia e dopo pochi istanti di resistenza suprema erano piombati al suolo fulminati.

«La lancia del giovane capo e quella del cavaliere che lo seguiva erano penetrate ciascuna nell'occhio sinistro dei rinoceronti, avevano attraversato il cervello ed erano uscite dall'altra parte vicino al collo... Le orribili bestie non avevano gettato che un grido: la morte era stata, per così dire, istantanea.

«Bisognò spaccare la testa degli animali per levare le lance, le cui punte si erano spezzate contro la scatola ossea delle bestie.»

— Una bella caccia in fede mia — disse il dottore. — Ed il giovane capo non era impressionato?

— Per niente. Pareva che avesse compita l'impresa più facile di questo mondo.