La giraffa bianca/2. La morte del ladro

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2. La morte del ladro

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2.

LA MORTE DEL LADRO


Il paese dei Granchi Namachi assieme al Damara forma un territorio vastissimo rinchiuso al sud dal fiume Orange, che serve di frontiera alla Colonia del Capo di Buona Speranza, all'ovest dall'Oceano Atlantico, all'est dai Bechuana, oggi soggetti all'Inghilterra, ed al nord tocca i possedimenti portoghesi del Benguela.

Nell'epoca in cui comincia il nostro racconto, il paese dei Granchi Namachi era ancora indipendente; oggi invece è una colonia germanica. Anche allora però era poco abitato, avendo soltanto piccoli villaggi disseminati su estensioni immense. Era invece ricchissimo di selvaggina e numerosi cacciatori lo percorrevano uccidendo gran numero di leoni, di elefanti, di zebre, di giraffe, di bufali, di antilopi, di rinoceronti ecc.; là William aveva fatto le prime armi con molta fortuna, facendosi subito distinguere fra tutti. La carovana, lasciate le rive del fiume, s'era posta in cammino verso il settentrione per giungere al più presto nella pianura indicata dal capo negro. Il terreno era cattivissimo, tutto spaccato ed in parte franato; tuttavia il carro procedeva ugualmente, tirato dalle numerose coppie di buoi e guidato dai due negri, abilissimi conduttori allevati dai boeri.

La vegetazione era scarsa, non vedendosi che poche acacie giraffe, qualche niavna e dei gruppetti di cespugli. In lontananza si vedevano delinearsi delle boscaglie, che dovevano essere molto fitte, ed alcune colline coperte da una vegetazione assai verdeggiante.

Mentre i due negri si affaticavano per far avanzare il pesante veicolo, che ad ogni momento minacciava di rovesciarsi a causa delle franature del suolo, il dottore e William, a cavallo, discorrevano fra di loro intorno al paese, ai suoi abitanti ed alle grandi cacce.

— Avete ucciso molti animali in questi luoghi? — chiedeva il vecchio scienziato.

— Parecchi leoni — rispondeva il cacciatore. — Una volta qui abbondavano straordinariamente e facevano strage del bestiame dei negri. Ora si vedono di rado.

— Vorrei portare in Europa alcune pelli da regalare al museo zoologico di Dresda.

— Le occasioni non mancheranno. Presto attraverseremo un territorio dove se ne trovano ancora molti.

— Che questa sera vengano a disturbarci?

— Non ne sarei sorpreso.

— Staremo attenti. Sono bestie molto temibili.

— Pericolose, dottore — rispose William. — Ho passato dei brutti momenti con loro.

— Mi racconterete alcune delle vostre avventure.

— Sì. A sera, attorno ai fuochi dell'accampamento. Passeremo meglio il tempo.

Così discorrendo continuavano il faticoso cammino verso il settentrione, seguendo il carro che si avanzava lentamente.

Quell'enorme veicolo faceva faticare molto i buoi sprofondando sovente le ruote nel terreno, che in certi luoghi era umido.

Tutto il giorno la piccola carovana continuò a camminare, attraversando parecchi torrenti, e la sera si fermava a breve distanza dalla foresta che aveva scorto la mattina.

Era una boscaglia molto fitta, formata da baobab enormi, da palme selvatiche e da cespugli altissimi e per lo più spinosi. Inoltrarvisi col carro sarebbe stato impossibile; quindi alla carovana non rimaneva altro che passarvi attorno, per poter raggiungere e attraversare le colline che si trovavano più al nord. I buoi furono staccati e lasciati pascolare in piena libertà e fu acceso il fuoco per preparare la cena. La tenda non venne rizzata perché i due tedeschi avevano l'abitudine di dormire nel carro, per non esporsi agli assalti delle fiere. Avendo ucciso il giorno innanzi un'antilope, misero ad arrostire una dozzina di costolette, alle quali aggiunsero delle focacce di frumento, fritte nel lardo, e delle frutta secche acquistate al Capo. Dopo il pasto i due tedeschi si sdraiarono in mezzo alle erbe, sorseggiando una buona tazza di caffè.

Stavano per accendere le pipe, quando uno dei due negri, colui che si chiamava Kambusi, si avvicinò ai suoi padroni col viso sconvolto.

— Che hai, amico? — chiese il cacciatore, indovinando che doveva essere avvenuto qualche cosa di grave.

— Padrone — disse il negro. — Ho radunato i buoi per legarli attorno al carro e mi sono accorto che ne manca uno.

— Sarà entrato nel bosco.

— Sì, ma poi non l'ho più veduto uscire.

— Hai seguito le sue orme?

— Sì, padrone.

— E non l'hai trovato?

— Ho veduto invece le erbe lorde di sangue.

— È stato ucciso da qualche grosso animale — disse il cacciatore balzando in piedi colla carabina.

— Una jena non potrebbe ammazzare e portarsi via un bue — osservò il dottore.

— Non può essere stato che un leone — affermò William.

— Che si sia avvicinato tanto senza farsi udire! Ordinariamente quando vedono la preda emettono cupi ruggiti.

— Non sempre.

— E gli lasceremo divorare in pace il nostro povero bue? Lo avrà trascinato molto lontano?

— Forse nel suo covo.

— Sembra impossibile che un leone possa avere tanta forza da portarsi via una bestia così pesante.

— Hanno una forza prodigiosa.

— Che fare ora?

— Mi avete detto che vi piacerebbe avere delle pelli di leone da regalare al museo di Dresda.

— È vero, William.

— Vi regalerò quella del ladro che ci ha preso il bue.

— Volete dargli la caccia con questa oscurità?

— No, domani all'alba.

— Saremo sicuri dai suoi assalti questa notte?

— Ha la nostra bestia da divorare e perciò non verrà ad importunarci. I leoni non assaltano che quando sono affamati.

— Andiamo a dormire, William. Sono già le dieci.

Fecero accendere quattro fuochi attorno al campo per difendere i buoi, poi salirono sul carro, mentre uno dei negri si metteva in sentinella, onde i falò non si spegnessero.

Si erano appena coricati sotto la tenda bianca che copriva il carro, quando in lontananza udirono un ruggito terribile.

— È il ladro — disse William con voce calma, mentre il dottore, non abituato a quella voce formidabile, impallidiva.

— Sembra che ci sfidi — disse questi rabbrividendo.

— Vedremo domani chi avrà ragione — replicò il giovane cacciatore. — Dottore, dormiamo e lasciamolo ruggire.

William, abituato da molti anni ai clamori assordanti delle foreste africane, non tardò molto ad addormentarsi; il suo compagno non fu capace d'imitarlo. Il leone continuava a farsi udire, ora allontanandosi ed ora avvicinandosi all'accampamento. Ad ogni ruggito il dottore trasaliva, poi si alzava per accertarsi che i negri vegliassero accanto al fuoco. Aveva una gran paura che il leone abbandonasse la foresta e balzasse dentro il carro per procurarsi anche una vittima umana.

I negri, al pari del cacciatore, poco impressionati dai ruggiti della fiera, discorrevano tranquillamente presso i fuochi, tenendo in mano le grosse carabine da caccia, che sapevano adoperare con molta abilità.

Quando le tenebre cominciarono a diradarsi, William, che aveva dormito saporitamente come in un ottimo letto d'albergo, si alzò dicendo:

— Ora andremo a trovare il leone. Dottore, siete pronto?

— Se volete — rispose lo scienziato con esitazione. — Saremo almeno sicuri di ritornare?

— Le mie palle non falliscono mai — disse William. — Fra un paio d'ore possederete la pelle della belva.

— Voi parlate con tale sicurezza come se la pelle fosse già sulle vostre spalle.

— L'avrò, ve lo prometto. Se preferite rimanere nel campo, restate. Io andrò a cacciare la belva con Kambusi, che è molto valente. Voi d'altronde siete vecchio e non potreste seguirmi fra le macchie spinose, in cui bisogna avanzare strisciando.

— Allora rimango qui. Non ho premura di far conoscenza con simili animali. Se si trattasse della giraffa!...

— Quella la prenderemo un'altra volta.

— Non esponetevi troppo, mio giovane amico.

— Sarò astuto e prudente.

William tracannò un bicchiere di acquavite; poi chiamò Kambusi, dicendogli:

— Andiamo a punire il ladro.

— Subito — si limitò a rispondere il negro.

— Amico, arrivederci presto.

— Buona fortuna, William.

Il cacciatore caricò con cura la sua grossa carabina, si accertò che il grilletto funzionasse perfettamente, quindi fece segno al negro di seguirlo. La distanza che correva fra l'accampamento e la foresta non era che di duecento passi. Superatala in pochi momenti, i due cacciatori entrarono nella foresta, dove trovarono una specie di sentiero aperto fra i cespugli fittissimi, che crescevano sotto i baobab e le palme selvatiche. William pensò subito che il leone avesse dovuto seguire quella via, forse tracciata dalla belva stessa nel trascinare il bue.

— Cosa dici, Kambusi? — chiese.

— Che il leone è passato per di qua.

— Tale è anche la mia opinione.

Non dovevano ingannarsi. Percorsi cinquanta metri, trovarono un terreno pantanoso su cui videro le impronte delle zampe della fiera e della massa del bue. Il terreno intorno era inzuppato di sangue e si scorgevano anche dei peli del povero bue.

— È qui che lo ha assalito — disse William.

— Sì, padrone — confermò Kambusi.

— Andiamo avanti.

Centocinquanta metri più innanzi videro che il leone s'era fermato e che aveva deposto al suolo la preda, probabilmente per metterla in una posizione più comoda e anche per riposarsi dell'immane fatica.

Una larga macchia di sangue già disseccata si estendeva fra le erbe ed uno sciame di mosche grosse e bruttissime ronzava sopra quel sinistro vestigio. William ed il negro si fermarono un momento, guardando i cespugli che li circondavano; poi proseguirono il cammino, seguendo quella specie di sentiero, finché giunsero sulle rive di un torrente, il cui letto era asciutto. Al di là di quel piccolo corso d'acqua, la configurazione del suolo era improvvisamente cambiata. Il ruscello faceva capo ad una palude pure asciutta, sulla quale si svolgeva, con tutta l'esuberanza della flora africana, mercé l'umidità del sottosuolo, una immensa quantità di vegetali grandi e piccoli. I due cacciatori si videro costretti ad avanzare l'uno dietro l'altro, attraverso quella foresta selvaggia.

William, tenendo la carabina colla mano destra, rimuoveva colla sinistra i rami, le cui spine lo punzecchiavano crudelmente, senza che gli fosse possibile far uso del lungo coltello da caccia, i cui colpi avrebbero potuto allontanare la belva, la quale forse stava digerendo tranquillamente un pezzo del povero bue.

— Non dobbiamo esser lontani dal rifugio del leone — disse il cacciatore. — Cosa ne pensi, Kambusi?

— Si sente già odor di carne corrotta — rispose questi, dopo aver fiutato l'aria.

— Guarda i peli del bue.

— E la traccia si dirige nel folto della foresta, padrone.

— Non andremo lontani.

Ad un tratto un rumore insolito colpì gli orecchi di William.

— Fermati! — disse al negro.

Si volse lentamente, ordinando, con un cenno, a Kambusi di mettersi dietro al tronco di un albero. Il servo obbedì prontamente, quantunque cominciasse a perdere un po' di sicurezza e fosse diventato grigiastro. È questo il modo d'impallidire dei negri. Entrambi rimasero immobili, guardando i cespugli che li attorniavano; poi, non vedendo nulla, William fece alcuni passi innanzi.

Un odore acuto, disaggradevole, come di carne corrotta, reso anche più orribile dal caldo umido che regnava sotto le boscaglie, giunse fino al naso del cacciatore. Questi si fermò un momento per prendere fiato, poi riprese il cammino fino all'orlo d'una macchia formata da alberi altissimi e cosi folti da impedire al sole di penetrare.

Ad onta del suo sangue freddo e del suo coraggio, il cacciatore non potè trattenere una esclamazione di orrore.

Sul suolo umido si vedevano sparse non poche ossa umane, alle quali aderivano ancora dei pezzi di carne, e più innanzi il cadavere del bue atrocemente mutilato e sanguinante. Aveva il ventre aperto e dalla ferita perdeva le interiora.

— È il covo del leone — mormorò William.

Si volse e guardò Kambusi.

— Padrone, — disse questi — ci siamo.

— Sta' attento.

William guardò in mezzo alle piante e non vide nessuno. Eppure il suo orecchio esercitato non lo aveva ingannato di certo.

Quel rumore, notato poco prima, nell'istante in cui aveva ordinato a Kambusi di fermarsi, era stato prodotto dallo scricchiolìo secco di ossa stritolate da mascelle potenti.

Eppure il leone non si vedeva. William, incapace di resistere più a lungo a quell'odore nauseante che lo soffocava, stava per ritirarsi per cercare un'aria più respirabile, quando udì nuovamente, in mezzo alla macchia, uno scricchiolìo di ossa stritolate.

— Kambusi — mormorò.

— Che vuoi, padrone?

— Prepara il fucile.

— Sono pronto.

In quel momento un ruggito soffocato si fece udire.

William alzò la testa stringendo fortemente la grossa carabina e fece qualche passo innanzi dicendo:

— Non sbagliamo il colpo od il leone ci ucciderà.

Prima però di penetrare nel covo della belva, William, avendo udito lo scricchiolìo delle formidabili mascelle, si era fermato credendo ad un assalto subitaneo.

Il prudente animale, già sazio, non aveva questa intenzione. Sapeva di non aver nulla da guadagnare in una lotta col cacciatore, quindi si teneva nascosto. Carne ne aveva in abbondanza, dunque la fame non lo spingeva alla battaglia.

Disturbato dalla improvvisa comparsa del suo nemico, si era ritirato trascinando sotto la macchia il pezzo che stava divorando, poi aveva ripreso il pasto interrotto.

Quella ritirata non piaceva a William, il quale s'era inoltrato colla ferma idea di prendersi la pelle della fiera.

— Lo seguirò — disse.

Fece per avanzarsi e si trovò nell'impossibilità di procedere più oltre, a causa dell'inestricabile agglomeramento di liane, di rami, di radici e di spine. Un animale poteva strisciare sotto quei diversi ostacoli accumulati dalla natura, ma l'uomo, impacciato dalle armi e dalle vesti, avrebbe potuto facilmente rimanere impigliato nei cespugli che gli avrebbero impedito la libertà d'azione.

— Che fare? — si domandò.

— Provochiamolo! — disse Kambusi.

— In che modo?

— Gettando qualche cosa.

— Non vi è nemmeno un sasso.

— Vi sono ossa.

— Prova, Kambusi.

Il negro raccolse una tibia umana e la gettò in mezzo ai cespugli, mentre William si metteva in posizione di far fuoco onde non essere preso alla sprovvista. Il leone, vedendo cadere quell'osso, mandò un ruggito terribile; poi si udì un crepitìo di foglie smosse.

— Ci assale? — domandò William.

— Non mi sembra.

— Allora si è ritirato.

— Sì, pare.

— Non sono mica venuto qui per far scappare il leone! Ho promesso la pelle al dottore.

— Giriamo attorno alla macchia.

— Hai coraggio?

— Non dubitare.

— Tu resta qui mentre io vado a esplorarla.

— E se la fiera mi assalisse?

— Farai fuoco, poi fuggirai verso di me. Ti senti sicuro di colpirla?

— Sì, padrone.

— Non far fuoco che a bruciapelo.

— Ti ubbidirò.

Mentre il negro si appoggiava al tronco d'un albero in posizione di sparare, William si mise a strisciare intorno alla macchia, sicuro di mettere la belva fuori di combattimento.

Aveva fatto alcuni passi, colla canna della carabina bene appoggiata alla mano sinistra e colla destra stretta al calcio, quando vide ondeggiare le cime dei cespugli.

— È il leone — mormorò fermandosi. — Cercava di fuggire da questa parte. Sono proprio fortunato.

Obbedendo nell'istesso momento ad una mossa puramente istintiva, indietreggiò tenendo gli sguardi fissi sulle piante.

Quella ritirata probabilmente lo salvò da certa morte, giacché aveva appena eseguito tale manovra quando vide balzare fuori un grosso leone dalla criniera nera. La fiera, sorpresa di trovarsi dinanzi al cacciatore, mentre credeva di averlo evitato ritirandosi attraverso la macchia, rimase un momento ferma, mostrando i denti.

L'occasione era propizia e William si guardò bene dal lasciarla sfuggire.

In un batter d'occhio puntò l'arma e fece fuoco. Si udì una enorme detonazione e la fiera, mentre stava per scagliarsi, fece un capitombolo cadendo su di un fianco.

— Fulminata! — esclamò William, con voce allegra. — Non mi aspettavo una tale fortuna.

Quella morte istantanea aveva realmente del prodigioso ed il bravo cacciatore aveva avuto abilità al pari di fortuna, uccidendo un animale che parecchie palle non sempre arrestano nel suo slancio. Allo sparo era accorso Kambusi col fucile armato.

— Morta, padrone? — gridò.

— Credo; tuttavia non avvicinarti, perché potrebbe di nuovo balzare in piedi; queste bestie hanno molta vitalità!

— Le darò il colpo di grazia.

Si avvicinò alla belva e le sparò in un orecchio, fracassandole il cranio.

— Non si è mossa — disse.

— Allora possiamo scuoiarla per portarne la pelle al dottore.

Caricarono prima le carabine, non sapendo se il leone era solo, le appoggiarono al tronco d'un albero poi presero i coltelli.

L'operazione non fu facile e mise a dura prova la pazienza dei due cacciatori, che finalmente riuscirono ad avere la spoglia dell'animale.

— Ritorniamo all'accampamento — disse William, mentre il negro si metteva sulle spalle la pelle ancora grondante sangue.

Uscirono dalla macchia e si misero in cammino per raggiungere il carro.