La guerra dei topi e delle rane/Canto primo

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Canto primo

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Omero - La guerra dei topi e delle rane (Antichità)
Traduzione dal greco di Giacomo Leopardi (1815)
Canto primo
La guerra dei topi e delle rane Canto secondo


Grande impresa disegno, arduo lavoro:
O Muse, voi dall’Eliconie cime
A me scendete, il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia dei topi e delle rane.



2Sulle ginocchia ho le mie carte, or fate
Che nota a ogni mortal sia l’opra mia,
Che alla più lenta, alla più tarda etate
Salva pur giunga, e che di quanto fia
Che sulle carte a voi sacrate io scriva,
La fama sempre e la memoria viva.



3I nati già dal suol vasti giganti,
Di que’ topi imitò la razza audace,
Da nobil fuoco accesi, ira spiranti
Vennero al campo, e se non è mendace
Il grido che tuttor va per la terra,
Questa l’origin fu di quella guerra.



4Un topo un dì, fra’ topi il più ben fatto,
Venne d’un lago alla fangosa sponda:
Scampato egli era allor da un tristo gatto,
E calmava il timor colla fresc’onda:
Mentre beveva, un garrulo ranocchio
Dalla palude a lui rivolse l’occhio.



5Se gli fece dappresso, e a dirgli prese:
A che venisti? donde qua? straniero,
Di qual nazione sei, di qual paese?
Qual è l’origin tua? narrami il vero;
Che se dabben ritroverotti e umano,
Valicar ti farò questo pantano.



6Io guida ti sarò, meco verrai
Alle mie terre ed al palazzo mio;
Quivi ospitali e ricchi doni avrai,
Che Gonfiagote, il gran Signor son io;
Ho sullo stagno autorità sovrana,
E mi rispetta e venera ogni rana.



7La Donna già mi partorì dell’acque,
Che, per amor, dell’Eridano in riva
Con Fango il mio gran padre un dì si giacque:
Ma bel corpo hai tu pur, faccia giuliva,
Sembri possente Re, prode guerriero;
Su via dimmi chi sei, parla sincero.



8Rispose il topo: Amico, e che mai brami?
Non v’ha Dio che m’ignori, augello, o uomo,
E pur tu vuoi saper come mi chiami?
Or bene, Rubabriciole io mi nomo;
Il mio buon padre Rodipan si appella,
Topo di raro cor, d’anima bella.



9Mia madre è Leccamacine, la figlia
Del rinomato Re Mangiaprosciutti.
Con gioia universal della famiglia
Mi partorì dentro una buca, e tutti
I più squisiti cibi, e noci, e fichi
Furo il mio pasto in que’ bei giorni antichi.



10Ma come vuoi che amico tuo diventi,
Se di noi sì diversa è la natura?
Tu di vagar per l’acqua ti contenti;
D’ogni vivanda io fo mia nutritura,
Di quanto mangia l’uom gustare ho in uso,
Luogo non avvi, ove non ficchi il muso.



11Rodo il più bianco pane e il più ben cotto,
Che dal suo cesto la mia fame invita,
Buoni bocconi di focaccia inghiotto
Di granelli di sesamo condita,
E fette di prosciutto e fegatelli
Con bianca veste ingrassanmi i budelli.



12Appena fu compresso il dolce latte,
Assaggio il cacio fabbricato appena;
Frugo cucine e visito pignatte,
E quanto all’uomo apprestasi per cena.
È mio qualunque cibo inzuccherato,
Che Giove stesso invidia al mio palato.



13Non temo delle pugne il fiero aspetto,
Ma mi fo innanzi, e al ferro mi presento.
Spesso dell’uomo insinuomi nel letto:
Benché sì grande, ei non mi dà spavento.
Del piè rodergli un dito ho fin l’ardire,
Ed ei nol sente, e seguita a dormire.



14Due cose io temo, lo sparvier maligno,
E il gatto, ch’è per noi sempre in agguato.
Misero è ben chi cade in quell’ordigno,
Che trappola si chiama; egli è spacciato:
Ma il gatto più che mai mi fa paura,
Da cui buca non v’ha che sia sicura.



15Non mangio ravanelli, o zucche, o biete;
Questi cibi non son per il mio dente:
E pur nell’acqua voi null’altro avete:
Ben volentieri ve ne fo presente.
Rise la rana, e disse: Hai molta boria,
Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.



16Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose
E negli stagni loro e fuor dell’onde.
Ciascun di noi sopra le sponde erbose
Scherza a sua posta, o nel pantan s’asconde,
Ch’alle ranocchie mie dal ciel fu dato
Viver nell’acqua e saltellar nel prato.



17Se vuoi vedere or quanto il nuoto piaccia,
Montami sulla schiena, abbi giudizio,
Sta saldo, e al collo gettami le braccia,
Onde a cader non abbi a precipizio;
Così senz’alcun rischio a casa mia
Meco verrai per quest’ignota via.



18Sì disse, e tosto gli omeri gli porse;
Saltovvi il topo, e colle mani il collo
Del ranocchio abbracciò, che via sen corse,
E sulle spalle seco trasportollo.
Ridea dapprima il sorcio malaccorto,
Che si vedeva ancor vicino al porto.



19Ma poi che in mezzo del pantan trovossi,
E che la riva omai vide lontana,
Conobbe il rischio, si pentì, turbossi.
Forte co’ piè stringevasi alla rana,
Col pianto si dolea, svelleva i crini,
Il suo fallo accusava ed i destini.



20Pregava i Numi, e in suo soccorso il cielo
Chiamava, e già credevasi all’estremo,
Tremava tutto, ed avea molle il pelo;
Stese la coda in acqua, e come un remo
Dietro se la traea, girando l’occhio
Ora alla riva opposta, ora al ranocchio.



21Pallido disse alfin: Che reo cammino,
Che strada è questa mai! quando alla meta,
Deh quando arriverem! quel bue divino
No così non condusse Europa in Creta,
Portandola per mar sopra la schiena,
Come ora a casa sua questi mi mena.



22Dicea: quand’ecco fuor della sua tana
Con alto collo un serpe uscir sull’onda.
Il topo inorridì, gelò la rana;
Ma questa giù nell’acque si profonda,
Fugge il periglio, e il topo sventurato
Vittima lascia al suo funesto fato.



23Cade sull’acqua, e vòlto sottosopra
Il miserel teneramente stride,
Col corpo e colle zampe invan s’adopra
Per sostenersi a galla; or poi che vide
Ch’era già molle, e che il suo proprio pondo
Del lago già lo strascinava al fondo:



24Co’ calci la fatale onda spingendo,
Disse con fioca voce: alfin sei pago,
Barbaro Gonfiagote, intendo, intendo
I tradimenti tuoi; su questo lago
Mi traesti per vincermi sui flutti,
Che vano era affrontarmi a piedi asciutti.



25Tu mi cedevi in lotta e al corso, e m’hai
Qua condotto a morir per nera invidia,
Ma dagli Dei giusta mercede avrai,
I topi puniran la tua perfidia;
Veggo le schiere, veggo l’armi e l’ira,
Vendicato sarò. Sì dice, e spira.