La leggenda di Tristano/V

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V. — E a tanto lascia lo conto ora di parlar di questa aventura, perché non appartiene a nostra materia, e ritorna a parlare di T., di cui vole divisare la storia verace. Ma la reina, la quale non pensa se non come possa distruggere T., e fece fare uno grande mangiare e convitoe Governale e T., e altri baroni assai del suo reame. E Governale disse a T.: «Dappoi che la reina ci hae convitati a mangiare, voglio che noi si v’andiamo, perché parrebe villania dala nostra parte, se noi non v’andassimo. Ma cotanto si ti comando che tu non debie mangiare né bere di neuna vivanda che vegna in tavola, se non di quella ch’io ti farò dare». E allora disse Tristano: «Maestro, questo farò io bene». All’altra mattina vennero in sul mangiare e le vivande vennero in tavola a ciascheduno. E la reina presenta a T. istarne e fagiani e due paoni arrostiti, ma T. di neuno non mangiava, infino a tanto che Governale non fece recare la sua vivanda. Allora comincia a mangiare T., ma di neuna vivanda che la reina li mandasse non mangia; onde la reina n’è molto dolente. E dappoi che si furono partiti da tavola e Governale disse a T.: «A me pare che questa tua matrigna ti voglia troppo grande male e non si procaccia se non com’ella ti possa uccidere. E imperciò mi pare che noi ne dobiamo partire delo reame de Leonois, dappoi che lo re è morto, e anderenne alo re Ferramonte in Gaules e quivi potrai apparare tutto e ciò che a cavaliere abisogna. E perciò t’ho dette queste parole, imperciò ch’io vorrei che tu divenissi buono cavaliere». Allora disse T.: «Maestro, io sono per fare tutto quello che voi mi comanderete». E allora si si procaccia Governale e si prende cavagli ed oro e argento e scudieri e fa loro giurare di tenere credenzia tutto e ciò che sarà loro comendato. Al matino si si parte Governale e T. e montano a cavallo, si privatamente che neuno di suo reame non ne seppe neuna cosa. E a tanto cavalcano per loro giornate, si che pervenero ala corte del re Ferramonte di Gaules. E quando furono venuti nela sua terra, e T. si si rapresenta alo re e profersegli suo servigio, e lo re lo ricevette cortesemente. E allora rimane T. nela sua corte e [p. 14 modifica]incomincia a servire davante alo re, tanto bello e tanto avenente di tutte cose, si che tutti li cavalieri lo guardavano per maraviglia, e dice l’uno inverso l’altro, che Dio non fece unque piú bello damigello di lui, e molto ne parla lo re e tutta la sua corte. Ma T. inconincia a cavalcare ed a rompere bigordi ed a schermire coli cavalieri e coli damigelli. In tutta la corte non hae né cavaliere né damigello che di caccia sappia quanto lui: e T. potea avere anni XI. Ma la figliuola delo re Ferramonte, vedendo T. cosí bello damigello, innamorossi di lui e dicea infra se istessa che «per ciò ch’avenire potesse, io non lascierei ch’io non abbia T. al mio volere». E uno giorno, uscendo la damigella dela camera, e venne nela sala delo palagio e vide Governale e chiamollo a sé e disse: «Governale, io ti voglio manifestare lo mio coraggio e voglio che tu debie dire a T. che sia mio damigello di mio amore fino, perch’io non amo tanto né me nè altrui quanto io faccio lui». E Governale disse che questo messaggio ed ambasciata fará egli bene. Ma ’ppresso a queste parole, venne l’Amoroldo d’Irlanda con grande compagnia di cavalieri delo reame di Longres e venne ala corte delo re Ferramonte di Gaules. E quando seppe lo re Ferramonte la venuta del’Amoroldo d’Irlanda, andolli incontro con grande compagnia di cavalieri e miselo nela cittade con grande allegrezza. E incontanente fece mettere bando per tutto lo suo reame che tutti li cavalieri vegnano a corte e comandoe che fosse fatto uno grande mangiare; e fue fatto cosí ciò che lo re comandoe. E la sera furono messe le tavole e fue assettato lo re a mangiare con tutti li cavalieri, e T. servia davanti alo re Ferramonte e al’Amoroldo d’Irlanda. E l’Amoroldo, vedendo T. cosí bella criatura, disse alo re Ferramonte: «Chi è questo damigello?». E lo re rispuose: «Io non so chi si sia se non che venne in mia corte a servire». Disse l’Amoroldo: «Dio lo faccia produomo, ché a bellezza non ha egli fallito».