La liberazione della donna/XII

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XII. La donna nella famiglia, nella città e nello Stato

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XII. La donna nella famiglia, nella città e nello Stato1
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Nel 1890, la Mozzoni tenne a Bologna una conferenza, da cui è tratto lo scritto seguente, per conto di un «Comitato di propaganda per i diritti della donna», di orientamento radicale. È dedicato soprattutto alla storia del rapporto tra la campagna di emancipazione femminile e le vicende politiche italiane del tempo, viste ovviamente dall’interno dell’opposizione filosocialista alla Sinistra al potere.


Signore e Signori,

Noi tutti ricordiamo che la salita della Sinistra al potere fu salutata come l’alba della riparazione.

Il programma che essa deponeva sul banco dei ministri, se non era l’incarnazione dell’ideale più avanzato, apriva però i cuori alle più larghe speranze - e l’on. Cairoli, specchio incontaminato di probità e di patriottismo, dando al Gabinetto il suo nome onesto e glorioso, era guarentigia agli italiani che le loro speranze sarebbero state colmate.

Nel discorso inaugurale della nuova Amministrazione, Egli aveva detto che i progetti di legge ch’Egli s’impegnava di presentare alla Camera allo scopo di promuovere le larghe riforme che il paese desiderava, dovevano sostituire la realtà laddove non v’era che la cruda presunzione legale.

Le moltitudini accolsero con tali entusiasmi questi sprazzi di luce che il nuovo Governo fu quasi sgomento del proprio successo e sbigottito della sua immensa popolarità, dacché travedeva al disopra di sé il potere irresponsabile che proiettava la sua ombra poderosa sulle liete speranze del popolo.

Questa imbarazzante situazione consigliava anche gli impazienti a starsene cheti nell’aspettazione benevola, anziché incalzare con fretta, inconsulta e poco pietosa il Ministero.

L’aspettazione benevola fu lunganime, e nel 1878 le verdi speranze non erano ancora sfrondate: ma la democrazia cominciava a sentire il bisogno di premurare il Governo con ripetute manifestazioni in tutti i centri della penisola, si riuniva a solenne Comizio in Roma dove affermava al cospetto dei poteri sovrani il diritto dei cittadini, non solo, ma alla distanza di circa un secolo dalla proclamazione dei diritti dell’uomo ne ripeteva la solenne affermazione, e la piú esplicita, piú cosciente, più intera.

Ora, se ricordate la promessa del primo Ministero di sinistra, il quale si impegnava a costituire la realtà laddove non v’era che la nuda presunzione legale, e la ponete a fianco al voto del Comizio dei Comizii, voi constatate che quelle affermazioni della democrazia giunta al potere, per parte del capo del Governo da una parte, e di tutti i suoi rappresentanti dall’altra, le costituivano un solenne impegno d’onore verso la metà della Nazione.

Voi sarete egualmente convinti al par di me che le donne erano in diritto di aspettare il compimento di quelle solenni promesse e che oggi dopo 14 anni dal discorso Cairoli e 12 anni dal voto del Comizio dei Comizii è pur d’uopo ricercare le cause di quel completo oblio a dare opera acché quell’oblio sia riparato.

La condizione delle donne, e non in Italia soltanto, è un fatto isolato nella nostra organizzazione sociale e il disaccordo fra questo fatto e i criterii che informano gli ordinamenti scientifici, politici, giuridici, fra tutto l’insieme della nostra civiltà, va accentuandosi ogni giorno piú fino a divenire, non solo sofistico e irrazionale, ma ben anco violento nella vita pratica.

Quando la servitù femminile si venne affermando nella società primitiva, la superiorità della forza ed il concetto della legittimità del diritto di forza era, non solo accettato, ma per dippiú invocato...


... Ove si discorrano con lo sguardo rapido le grandi modificazioni subite dalle condizioni della donna, transitando la civiltà dall’Oriente all’Occidente, dal paganesimo al cristianesimo e dal feudalismo all’ordine presente, v’è di che stupire come abbiasi potuto ripetere da un principio primo e indiscutibile, un fatto che venne sempre modificandosi e tarpando man mano le ali al principio e lottando con esso, e questa lotta spiegarsi piú energica ed efficace quando e dove l’uomo piega a civiltà, più debole e nulla laddove precipita o giace nella barbarie.

Questo fatto del continuo migliorare delle condizioni della donna prova, meglio che qualsiasi sforzo dialettico, che la cosí detta missione della donna (frase abusata, con la quale s’intende dire che le facoltà generali della natura umana lottano in lei con lo speciale lavoro del quale la natura stessa l’ha incaricata) costituisce un equivoco dal quale è d’uopo uscire, equivoco scientifico e sociale.

La condizione sociale e civile delle donne ormeggia il passo complesso della civiltà, questo lo accordate tutti: dunque ha attinenze con l’indirizzo generale del pensiero, col tramutarsi degli ordinamenti civili, col raffinarsi dei costumi, col concitarsi dell’attività generale, col fugarsi dei pregiudizii, col progressivo accertamento delle cognizioni.

Infatti, la questione della riforma delle condizioni femminili in mezzo alle declamazioni, agli stupori, agli scandali, all’umorismo parlamentare ed extraparlamentare, procede trionfante e, come il vento montano spazza le nubi, cosí, essa disperde mostrandosi le obiezioni che le si parano davanti.

Fu considerata un delirio, essa rispose ragionando. Fu combattuta col dogma religioso, ed essa ha risposto con la teoria del libero esame, e rinfacciando alla scienza la ribellione alla scolastica. Fu assalita con gli a priori scientifici ed essa additò al secolo l’indirizzo sperimentale e gridò con esso, abbasso alle ipotesi. Le fu scagliata addosso tutta la statistica, ed essa si armò del razionalismo. Le fu imposto silenzio in nome della natura, ed essa ha risposto con perfetto buon senso: prendete lezioni dalla natura e non pretendete dargliene; lasciate alla natura la libertà delle sue manifestazioni eppoi studiate queste manifestazioni e concludete. Le furono rinfacciate le liberalità già ricevute; ed essa ha mostrato l’operaio, il negro e il contadino che hanno ottenuto più in un giorno che essa nel corso dei secoli. L’uomo difende contro di essa il suo diritto divino, ed essa gli chiede, sorridendo, che cosa ne abbia fatto del diritto divino dei re. L’avvocato ed il prete armati della doppia tradizione la inseguono senza posa, ed essa si difende consegnando ai musei della dotta antichità i miti dell’uno e facendo vergogna all’altro che, discepolo primogenito della filosofia moderna, oratore instancabile di diritti e di libertà, pubblicista inesauribile, mitingaio ardente, diguazzando come pesce in acqua nel mare magno delle teorie democratiche, vada poi, per conto della donna, a disseppellire le fossili tradizioni pagane e feudali, pretendendo ch’essa s’accontenti dei vivaci colori del ristauro.

No, o Signori, non ce ne accontentiamo.

Voi avete fatto una gran corsa in questo secolo, ma noi vi abbiamo ormeggiato davvicino e vi invitiamo a non contenderci il passo.

Né crediate che pari alle antiche amazzoni che si denudavano i petti quando mancava loro la forza del braccio, andiamo a fare appello ad altri elementi fuorché i razionali. Oh no! Se la nostra ragione è adulta, la vostra è senile. Voi siete altri dai vostri padri che ponevano le donne sulle Cattedre e nelle Accademie e facevano loro il posto ovunque con le volute qualità le cercassero. Lo spirito tecnico ha dato un altro indirizzo alle vostre idee ed ai vostri sentimenti, e con le idee mutano le forme e non v’è nulla da rivederci.

Noi dal canto nostro, divezzate dall’essere adulate e costrette anzi a reagire contro le multiformi accuse di codardia, d’inferiorità intellettuale, di mancanza di senso giuridico, di incapacità in una grande quantità di cose, siamo rientrate in noi stesse, abbiamo esaminato i nostri pregi ed i nostri difetti e ci siamo permesse di esaminarvi anche voi, spogli del diritto divino, che è scaduto affatto nella nostra opinione ed abbiamo trovato che la nostra ragione procede al par della vostra con la forma sillogistica; che i problemi che travagliano la vostra coscienza, sono gli stessi che turbano la nostra; che la libertà che voi amate, l’amiamo anche noi; che i mezzi coi quali voi conquistaste la vostra, furono indicati dagli stessi principii che debbono rivendicare la nostra; che se lo sviluppo delle facoltà comuni agli esseri umani aiutano e promuovono tutte le singole missioni speciali degli individui, attesoché tutte si fondano sull’impiego delle facoltà razionali, morali e fisiche, e procedono ad uno scopo egualmente complesso, lo sviluppo di quelle facoltà comuni a tutti gli esseri umani non combattono, non inceppano e non guastano nulla neppure nella missione nostra, non solo in faccia alla società, nella quale non siamo che individui come voi, ma anche in faccia alla specie dove il compito nostro è diverso.

Cosí agguerrite nel campo teoretico noi vi abbiamo presentato battaglia e ci siamo azzuffate di santa ragione e (davanti ai nomi gloriosi della Sand, della d’Héricourt, di Zoè de Gaumond, di Clarissa Badar, di Maria Desraismes, di miss Butler, della Dhom, di Dora d’Istria, di Malvina Frank e di cento altre in tutti i paesi civili), dovete convenirne, con una dottrina, uno slancio ed un valore che non sempre vi aspettavate, sicché, vedendo che i petti delle amazzoni non si denudavano avete rinunciato ad ogni velleità cavalleresca. Gli ingegni mediocri non trovando argomenti ci scagliarono ingiurie e ci rinviarono al fuso, onde dissimularci l’imperizia delle loro penne, la fiacchezza delle loro armi e la inconseguenza delle loro opinioni; ma molti cui la passione del dispotismo non fa velo alla ragione, cominciarono sul serio a mettere in dubbio la nostra inferiorità senza crederla troppo, e le donne ben temprate che una volta si guardavano come fenomeni e mostruosità, sono oggi una imponente minoranza.

Molti di Voi e dei migliori passarono nel nostro campo con armi e bagaglio, sicché il Büchner ad esempio, capoccia di quella scuola materialista che dal peso e dalla misura del cervello inferí la nostra inferiorità intellettuale, dopo qualche tempo di soggiorno in America scrisse che la superiorità intellettuale della donna in quella parte di mondo è incontestabile.

Ottenuta la ricognizione della nostra capacità sul terreno teoretico, ci si contende tuttavia di impiegarla utilmente per noi stesse nel terreno pratico.

Nella famiglia, nella città, nello Stato si pretende persuaderci che l’esercizio del nostro diritto sia in collisione con l’altrui o nuoca alla società ed a noi stesse.

Non posso a meno di riscontrare una analogia fra il nostro caso e quello delle nazioni d’Occidente quando volevano strappare ai poteri dispotici l’abdicazione in favore della sovranità popolare e questi respingevano la domanda, dichiarandola incompatibile coi diritti antichissimi della Corona. Ma fare appello all’antichità nelle cose umane è follia, perché la vecchiaia appunto perché tale è condannata a morire, quindi l’abdicazione fu fatta ed oggi popoli e re hanno trovato un nuovo equilibrio.

Lo Stato era, nell’antichità pagana, una aggregazione di famiglie, e la legge d’armonia volendo la concordanza del tutto e delle parti, erigeva la famiglia sul tipo aristocratico e monarchico. Il volere del capo di famiglia era legge e ragione, freno e motore, principio e fine dell’attività famigliare, tal quale, come il volere del capo dello Stato, era legge inappellabile in quella società che non aveva ancora escogitata l’umana personalità.

Lo Stato moderno invece, basato sulla affermazione di questa personalità, è una aggregazione di individui e perché il concetto dello Stato si discosti viemmeglio dal concetto della famiglia, gli si sono levate parecchie attribuzioni che rilevavano da quel concetto per piegarlo sempre piú a quello di semplice amministrazione.

Lo Stato ha quindi declinato a mo’ d’esempio, ogni responsabilità sulla confessione religiosa dei cittadini ed i loro voti monastici. Poco gli preme che si erigano e si conservino delle dinastie nobiliari, né che le sostanze avite rimangano infeudate nelle rispettive famiglie, com’era una volta statuito per la gelosa conservazione della casta...


... In che cosa dunque risponde a questo Stato una famiglia nella quale il capo investito di poteri dispotici, fa e disfà, vuole e disvuole, autorizza, amministra, dilapida e finalmente si assenta declinando tutti i suoi doveri e conservando tutti i suoi diritti, e riunendo in sé in connubio mostruoso il potere assoluto e la irresponsabilità?

Come mai un codice moderno ha potuto erigere in diritto tanta strapotenza, accostando due termini tanto incompatibili davanti alla ragione, senza che la coscienza del legislatore occidentale gli si rivoltasse nel petto?

Come non ha posto mente che dando così un essere umano in balia di un altro e per tutta la vita, egli bestemmiava tutta la moderna società?

Eppure, o Signori, il legislatore non sembrò avvedersi o per lo meno non fu sgomento dall’affermazione di un diritto cosí enorme. Malgrado l’abuso d’ogni cosa cui l’uomo è fatalmente inchinato, egli confidò nella natura dalla quale soltanto la società coniugale è cementata. Certo reputerebbe impossibile vincolare in simili rapporti due uomini, ma un uomo ed una donna possono andare e, fino ad un certo punto, vanno.

Ebbene questo fatto gli dà torto. Non la legge, non la forza del diritto del quale investe una parte e che deprime nell’altra, conserva la società coniugale, malgrado gli sforzi fatti dal legislatore per renderla odiosa, ma la natura. Tutta la prudenza e previdenza della legge è in pura perdita, è molto chiasso per nulla. Che se le disposizioni del codice (che per fortuna i coniugi non consultano che in tempo di guerra) menassero a conseguenze, la sola logica conseguenza sarebbe questa: l’inasprimento dell’anima nella parte depressa e l’abuso del potere della parte prevalente.

Dove la natura ha posto il cemento, l’edificio si regge, dove non l’ha posto l’edificio crolla e i tribunali si affaccendano a firmare sentenze di separazione.

La natura ha posto nell’organizzare la famiglia tutto lo studio che voi avete posto nell’organizzare lo Stato. Non v’è nulla da metterci; la legge non deve stare che a guardia dell’abuso.

Voi avete immaginato una aristocrazia con alla testa una corona irresponsabile ed una democrazia rappresentata da due elementi, il giovine che promuove, il vecchio che frena, l’elemento che pensa, discute, delibera ed il potere che eseguisce. È un congegno, insomma, composto di differenze e di equivalenze che equilibrandosi costituiscono un insieme più o meno omogeneo. Nella società coniugale la natura non ha adoperato altrimenti, ma il suo lavoro è di tale efficacia che tutte le vostre convenzioni non possono dirla con essa quand’ella si mette a non essere dalla vostra.

Voi dichiarate, ad esempio, che il marito è capo della famiglia perché ha la capacità. Ora la natura alle volte non la intende come Voi e gli ha negato questa capacità, ed il diritto che gli accordaste su una cruda presunzione non può trovare esplicazione nel fatto. Egli è obbligato a capitolare e la moglie, alla quale negate questa capacità, deve esercitarla per lui.

La natura ha visto prima di Voi il bisogno d’equilibrio, di distribuzione, di differenza e di equivalenza ed ha provvisto a tutto. Soltanto essa non ha opinato con Voi sulla opportunità che, moralmente parlando, gli elementi attivi ed espansivi siano sempre da una parte e gli elementi negativi e passivi siano sempre dall’altra. Essa non è imbarazzata che la donna sia talora piú intelligente, piú volontaria e più pratica dell’uomo, e che l’attività interna della famiglia sia determinata dall’uno anziché dall’altro. Questo non le porterà nessun disturbo; i fini ch’essa si propone saranno sempre raggiunti - e la paura ch’essa non ha dell’attività morale, intellettuale e materiale della donna, perché l’avrete voi? Qual maggior diritto di lei avete per aver paura? Avreste sopra di noi delle vedute diverse dalle sue?

Maometto, che destinava le donne all’harem in questo mondo, e non dava loro nessuna speranza per l’altro, non poteva immaginare nulla di meglio per le donne che farne dono completo agli uomini, chiudendo ben bene le loro menti alla piú lontana nozione di diritto, alla libera espansione. Ma Voi che fate appello alla nostra missione naturale, onde persuaderci a star zitte, sapreste Voi dirci per qual ragione la natura ha posto in noi queste facoltà espansive, o sapreste convincerci che ha fatto una contraddizione ed una assurdità? Sareste da tanto da provarci che la donna si snatura quando impiega la sua attività con lo scopo razionale di ogni attività, l’utile, e dimostrarcelo non già con della lirica e dei fervorini, ma col senso pratico e comune?

Non sarebbe dunque la legge piú conseguente all’indirizzo generale del pensiero moderno, se, smettendo la vecchia mania delle presunzioni e degli a priori, non decretasse piú le capacità e le incapacità ma facesse grazia di supporre la razionalità a tutti i cittadini, uomini e donne, fino a prova in contrario?

E non si conformerebbe meglio alla teoria dello Stato il legislatore, laddove considerando che la sola natura è la motrice e conservatrice della società coniugale ed affidandosi agli elementi simpatici ed equivalenti da essa cementati dichiarasse dover essa svolgersi liberamente nel suo interno e rappresentarsi da entrambi i coniugi nella città e nello Stato, o dall’uno dei due indifferentemente purché produca il consenso dell’altro?

Quale pratica impossibilità si vedrebbe nell’esercizio della patria potestà per parte d’entrambi i genitori, dacché la natura ha disposto perché l’autorità loro sia diversamente manifestata da essi e diversamente sentita dai figli, stando qui, come dovunque, la legge a semplice guardia dell’abuso?

E qual tarda ma urgente giustizia farebbe il legislatore se, non dimenticando ad ogni terzo momento che il diritto senza dovere è tirannia, rivedesse un po’ le buccie a quel diritto di assenza del marito, forte del quale, egli abbandona la moglie e i figli alla provvidenza, disertando bravamente tutti i suoi doveri, e torna poi quando gli pare, non sempre coperto di gloria come Ulisse, ma con la pretesa però di trovar sempre una Penelope?!

Le condizioni della donna nella città non abbisognano meno di revisione. La responsabilità stà al diritto come lo spirito alla materia, e dal difetto di corrispondenza fra la responsabilità ed il diritto, uscirono tutte le violenze che hanno funestato la storia umana. E la storia del dispotismo e della schiavitú, è quella del privilegio e delle esclusioni, della tirannia e delle oppressioni. Noi, uscite dalla rivoluzione filosofica, abbiamo talmente respirato con l’aria questa dottrina, che la disproporzione fra questi due termini stimiamo sofisma in dottrina e barbarie nel fatto.

Se alla luce di questi principii guardo alle condizioni della donna nella famiglia, nella città e nello Stato non so piú se l’89 è fatto, o se è da fare. Il Codice Penale non vede nessuna logica necessità di convenire le incapacità presunte dal Codice Civile. Sono due parallele che corrono in perfetta indipendenza l’una dall’altra. Anzi, nell’adulterio la responsabilità della parte debole, incapace, passiva, pupilla ed imbecille, è gravissima e maggiore.

Come! la responsabilità e l’imbecillità possono incontrarsi nello stesso soggetto? l’applicazione della penalità potrà farsi senza un’assurda barbarie sopra un pupillo perpetuo ed incapace?

Ma, risponde la legge con una innocenza invidiabile, l’adulterio della donna minaccia d’introdurre un elemento straniero nelle famiglie. Ma e l’adulterio dell’uomo, o Signori, minaccia esso tutt’altra cosa?

La legge dichiara la donna incapace di tutela in genere - la stima però incriminabile per la spinta alla corruzione.

La considera inetta ad assumere una procura, ma imputabile per abuso di fiducia.

La reputa incapace di esercitare la patria potestà vivente il marito e nella famiglia composta nella normale careggiata, ma la incarica dell’esercizio esclusivo della patria potestà nella figliazione naturale, dove questo esercizio è intralciato. Che piú? Vieta la ricerca della paternità per sollevare la madre della responsabilità che il padre deve dividere con lei: l’ammette quando si tratta di privare il figlio e la madre adulterina del concorso del suo corresponsabile al peso comune. Sicché l’uomo, investito di tutte le capacità e di tutti i diritti, non ha doveri se non in quanto ha l’onestà di riconoscersene, dacché marito e padre legittimo li può declinare tutti con l’assenza: padre naturale e seduttore col divieto della ricerca della paternità.

L’antica Roma gridava «guai ai vinti!», oggi si deve ancora ripetere «guai ai deboli!»...


... Se poi aggiungete che, delinquente, la si avviluppa in una veste giuridica lunga e larga quanto quella degli altri cittadini e le si scatena contro l’uggiosa eloquenza del procuratore della legge, accanito a provare la sua capacità come il Codice Civile a decretare la sua incapacità, ed in questa forma impossibile la si pone davanti ad un tribunale composto di esseri diversi da lei e che però non esito a dichiarare incompetenti, avete quasi completato il quadro delle condizioni nelle quali versano le cittadine della libera Italia.

E ho detto, quasi, e non a caso, poiché se rivolgo lo sguardo a quella moltitudine di donne che, vittime di incomparabili sofismi sociali e di oltraggiose ed ingiuste esclusioni, è ridotta a vivere di vizii che non avrebbe e di passioni che non divide, allora poi il cuore si solleva e l’ironia muore sul labbro. La vergogna di un simile organamento, che diffonde il vizio alle spalle della miseria, è ributtante.

Taglio corto su molti altri punti sui quali ci è d’uopo invocare l’attenzione del legislatore onde non dilungarmi troppo dalla meta e perché quanto ho detto di volo convincerà i piú sonnolenti ottimisti che le donne hanno bisogni, soffrono ingiustizie, sono lese negli interessi piú vitali, e che nessuno le rappresenta davanti alla legge per speciale mandato, e questa dorme fra due guanciali credendo che, poiché non si parla, tutto cammini pel meglio.

No, vogliamo che ci si dia retta e siamo divenute esigenti.

I vostri inni e le vostre odi non ci divagano piú. Avete finito di menare il can per l’aia chiamandoci «angioli del focolare e regine della famiglia». Tutta questa lirica da scuola romantica che per conto vostro avete buttato nei ferravecchi e che venite ripulendo per conto nostro, si risolve a fatti in un vero musulmanismo con frasario cristiano. Voi non siete piú poeti generalmente, ed i pochi che rimangono drappeggiati nella toga senatoria dando la destra al collega banchiere e la sinistra al collega industriale, cantano all’unisono con questi:

«La sventura non è bella
E glorioso il duol non è.»

Non troverete dunque irragionevole che anche noi, facendo tesoro delle lezioni che ci date in versi ed in prosa, domandiamo quelle guarentigie che avete creduto necessarie per voi medesimi.

Voi trovate intollerabile di non poter essere Sindaci a 25 anni, noi troviamo insopportabile di essere pupille a 90.

Voi volete pagar meno, noi vogliamo sapere almeno perché paghiamo tanto.

Voi volete che ogni cittadino non imbecille sia elettore, e noi vogliamo si riconosca che vi sono delle donne non imbecilli.

Voi avete protestato contro la pena di morte e noi vi ci associammo di gran cuore, ma vorremmo prendeste in considerazione il termine correlativo e si provvedesse la famiglia ed il pane a tutti gli uomini che nascono.

Si è voluto che la moglie mantenga il marito quando non ha nulla, ma noi vogliamo controllare un po’ le sue spese quando ha qualche cosa.

Ci bisogna allevare i figli con dispendio di tempo, cure, voglie e salute? Ben volentieri. Ma vogliamo anche che la legge ci faccia rispettare da questi uomini dei quali siamo le prime benefattrici, e che la legge non venga loro a dire ad ogni pagina «vostra madre è imbecille».

Voi vagheggiate la riforma dello Statuto, il decentramento, le autonomie locali, la massima libertà individuale, il minor governo possibile in ogni cosa, noi ci accontentiamo di uscire dal governo dispotico.

Voi, Signori, fate le leggi per noi, e noi non siamo consultate: ci confezionate in ogni maniera di salse e non ci domandate nemmeno per forma se non ce ne stiamo a disagio. Molti di voi tranquillamente desiderosi del bene e disposti a farlo senza troppo calore, dicono che le donne oggi stanno come santi nella nicchia, che hanno ottenuto molto, che di piú veramente non si poteva e non si saprebbe fare per loro, e molte altre frasi da gente contenta e che vorrebbe che altri s’accontentasse.

Mi duole davvero gettare delle nubi su quei rosei cuori, ma non siamo contente affatto e per non obbligare i nostri futuri legislatori a fare un lungo studio intorno ai nostri bisogni nell’ordine famigliare, e sociale, chiediamo loro che una sola cosa venga da loro accettata come sacro impegno d’onore, di propugnare non solo, ma insistere fino alla fine pel nostro voto politico e amministrativo.

Ottenuto questo, verranno essi medesimi ad informarsi dei nostri bisogni e non crederanno di perdere il loro tempo.

Ma qui mi vedo assalita da un nembo di ma, di se, di forse, ai quali tutti darò udienza e risposta.

Il diritto politico e amministrativo fu, in tesi astratta, riconosciuto alla donna in tutti i paesi civili. Cittadina e contribuente nella città, nella provincia, nello Stato, investita di una condizione giuridica, sottoposta alla sanzione penale, non v’è giurista cosí musulmano da non capire come ad un tal ente giuridico era impossibile negare teoricamente il diritto. Ma quando poi si tenne all’esplicazione pratica di questo diritto, quegli stessi uomini che seguendo il nesso logico delle idee avevano tutto concesso, bloccati in massa dal pregiudizio, tutto negarono. Né pensarono a distinguere fra essi, e ad esaminare se quelle forme nelle quali si presentava la donna investita del diritto ripugnassero veramente alla natura intima delle cose, o se li smarrissero semplicemente perché nuove.

Poiché è pur forza convenirne, o Signori, mentre la civiltà importa una assidua trasformazione delle idee e delle cose, ogni novità ci si affaccia sempre come un’assurdità, e non è che il successivo lavoro di riflessione e di esperimento che ne liscia ai nostri occhi i contorni e ce la fa apparire successivamente possibile, ragionevole, naturale, e piú tardi necessaria, indiscutibile.

Cosí è accaduto delle istituzioni che volta a volta la scienza, l’arte, l’industria, la filosofia, la politica, la varia vicenda delle cose, ha introdotto nel mondo e cosí è accaduto del voto della donna in altri paesi a quest’ora stessa, e cosí fra noi. Non è che per affrettare l’affermazione del principio, nel quale ho fede inconcussa, che io vi invito a fare con me questo lavoro di riflessione che vi dimestichi con una novità che non ha altro torto che d’essere tale, restando in pace profonda con la natura.

Le obbiezioni che si sollevano contro il voto delle donne sono queste:

  • 1. Le cure della famiglia.
  • 2. La loro ripugnanza agli affari e a tutto quello che sa di pubblicità.
  • 3. La loro poca intelligenza politica.
  • 4. La loro ignoranza delle questioni sociali.
  • 5. La influenza dei padri, dei mariti, dei figli e degli amanti, per cui verrebbero oziosamente moltiplicati i voti senza aumento nella somma delle intelligenze e delle volontà.
  • 6. L’influenza clericale, donde la possibilità di una reazione.
  • 7. La inopportunità di questa innovazione.
  • 8. Quando a tutto questo avrò aggiunto che le donne se ne stanno chete in Italia, e che, degeneri della prima madre non appetiscono ancora il frutto della scienza del bene e del male, io crederò di aver passato in leale rassegna tutto quello che si può dire contro la mia tesi, ricordandovi in pari tempo che in queste obbiezioni che vi ho numerate si comprendono tutti gli argomenti coi quali l’attuale Ministro di Grazia e Giustizia nella sua relazione motivata della presente legge elettorale non giustifica certo, ma spiega l’ostracismo incoerente che il Governo di sinistra ha inflitto alla donna.

Incomincio dunque dalla prima. La donna è fatta per la famiglia, e la sua natura l’allontana dagli affari e dalla pubblicità.

Se un turco mi dicesse: «le donne sono fatte per l’harem e per questo le teniamo rinchiuse», capirei che quello che domando è incompatibile col loro stato sociale, e che troppe cose sono da sconvolgere prima di arrivare fin là. Ma in Occidente, Signori miei, le donne ingombrano le vie e le piazze, affollano gli alberghi e i luoghi di ristoro e di ritrovo, si stipano nei convogli ferroviari, s’incontrano viaggiatrici a tutti i gradi accessibili di latitudine come touristes, per affari commerciali, sotto la varia divisa degli ordini religiosi, pubblicano libri e giornali, esercitano in pubblico industrie e commerci, adornano con le nude bellezze e le trasparenti eleganze tutti i convegni, studiano nei ginnasi, licei ed università, primeggiano sulla scena in tutto il mondo; e quindi mi è lecito concludere che se cotali usi e costumi, che nessuno stima sconvenir loro, non sono accusati distrarle dalle famiglie, l’esercizio del voto elettorale le distrarrà infinitamente meno; e me ne appello ai piú affaccendati affaristi, se la loro qualità di elettori fu mai un sovraccarico intollerabile di occupazione ed un dispendio cosí oneroso di tempo per cui il minimo dei loro affari ne abbia sofferto.

È questa dunque una delle obbiezioni la cui imponenza sta tutta nella sonorità della frase non avendo in concreto nessuna entità...


... Ma io voglio essere larghissima coi miei avversari perché so che gl’istinti autoritari sono cosí fatti, che esigono tanto di piú da coloro che piú hanno in dispregio.

Qual grado di intelligenza si esigerà per essere elettore? Saper leggere e scrivere? Esigete dippiú, o signori, perché io conosco bene le nostre campagne e potrebbe darsi che gli elettori risultassero infinitamente piú scarsi delle elettrici.

Bisognerà saper far di conto? Ma l’ultima fruttivendola sbaglia molto meno i suoi conti che certi Ministri di Finanza.

Bisognerà saper fare degli sproloqui in politica? saper dimostrare, che siamo una grande potenza militare, benché andiamo sempre piú diventando una grande impotenza economica? Saper persuadere coloro che hanno fame ch’essi hanno pranzato mirabilmente? Ma codeste raffinatezze dialettiche sono riservate a tutta quella gente che ha delle ragioni sue proprie per cavare i suoi ragionamenti non dalla testa ma dalle tasche.

Bisognerà aver amato la patria? Signori, io vi rinuncio tutta l’antichità classica e feudale. Ricordate la storia d’Italia contemporanea. Oh, rileggetela, repubblicani antichi e nuovi, rileggetela dal 1848 al 1870.

Qual grado d’intelligenza sarà dunque necessario per l’esercizio del voto?

Ecco migliaia e migliaia di donne alle quali è affidata l’istruzione del popolo. Eccone una miriade che, nubili o vedove, maggiori secondo la legge, fanno i loro affari e vivono nella perfetta indipendenza, godendo senza scialacquo, amministrando senza errori, speculando senza storditaggine, facendo onore ai loro impegni, non dovendo nulla a nessuno.

Eccone migliaia che col lavoro, l’oculatezza, lo spirito pratico, si sono fatte un patrimonio.

Eccone altrettante che hanno salvato i mariti ed i figli da catastrofi economiche e hanno ripiantato la casa ed i commerci una e piú volte rovinati.

Ecco madri che, investite della patria potestà, nell’assenza, e nell’interdizione, nella soppressione dei diritti civili del loro marito, o nella vedovanza, con le sapienti economie, con gli affari ben fatti riporranno a loro tempo nelle mani dei figli il retaggio paterno in ordine ed in aumento.

Ecco mogli, e molte, che legalmente separate dai consorti, ebbero dai tribunali un voto di fiducia ben meritato nella consegna della prole, verso la quale hanno presentato maggiori guarentigie di moralità, di buon ordine, di savio indirizzo educativo.

Ecco una quantità di commerci e di industrie nelle cui vele soffia la fortuna incatenata dalla intelligenza pratica delle donne...


... Quello che dell’ignoranza vuol essere detto dell’inesperienza. Trasportatevi in ispirito al 1859. Ricordate le incertezze, le confusioni, le diffidenze, le velleità, le indeterminatezze che portaste nel primo esercizio del voto. Le antiche divisioni dell’Italia facevano ignoti alle masse uomini e nomi. I candidati che si presentavano a chiedervi i voti erano tutti liberali gli uni piú degli altri e viceversa. Erano tutti patrioti provati, gloriosi avanzi delle cospirazioni, tutta roba sfuggita ai bagni, alle fortezze e ai patiboli dei cessati governi. Di tempo in tempo la voce di un popolano arginava la tumultuosa eloquenza degli avvocati e dei giornalisti, e tentava di veder chiaro fra quella tempesta di argomenti, di affermazioni, di smentite, di protesta, di programmi, di mozioni.

Il popolo se ne tornava da quelle tumultuose adunanze con la testa grossa e con la persuasione che quegli avvocati e quei giornalisti erano tanti Cristi e tanti profeti piovutigli dal cielo ad annunciargli la buona novella ed il regno di Dio sulla terra; salvo poi a mutarglisi tutti i quadri il giorno appresso, passando da un Circolo democratico ad un Circolo liberale, dal liberale al progressista, dal progressista al patriottico, dal patriottico all’unitario e cosí via, con una sinonimia di concetto per cosí dire, tanto sottile e briccona da confondere, non che la testa di un popolano, anche quella dell’Autore del dizionario dei sinonimi.

Arrivava intanto il giorno delle elezioni, Pubblici funzionari alti e bassi, giornalisti ed avvocati, apostoli e candidati, tutti sotto le armi, tutti affaccendati a predicare al popolo, ad illuminarlo, a guidarlo, ad imbeccarlo; i muri parlanti da cento affissi, tappezzati di nomi, di programmi di promesse, di allarmi; dovunque una confusione nervosa, concitata, convulsa, epilettica.

Il popolo ignorava i nomi, non conosceva le persone, non sapeva la portata del suo diritto, ignorava di quali interessi e di quante speranze fosse gravido il suo voto per coloro che glielo cercavano lisciandolo col pelo in giú; e dava il suo voto ad un puntello dei governi cessati credendo darlo ad un vecchio patriota, o spediva al parlamento un affarista, credendo porre il suo mandato nelle sacre mani di un apostolo.

Tutto questo significa che non si impara a nuotare se non gettandosi in acqua, o se preferite, secondo la frase del nostro popolo, che il mestiere insegna. Noi dunque saremmo piú giovani di Voi nell’esercizio del voto, ma in compenso da molti anni vi vediamo all’opera e non sempre con molta edificazione; abbiamo sempre pagato le imposte, abbiamo letto con le stesse vostre trepidazioni il resoconto dei bilanci preventivi e consuntivi, abbiamo le tasche vuote al par di voi, vediamo che vi agitate tutti per qualche cosa che non è soltanto idea e spirito, ma è forma e corpo, ed abbiamo per soprappiù capito anche questo che i nostri interessi saranno sempre per voi delle tesi accademiche, finché l’esercizio del voto politico non si porrà in grado di farvene delle tesi pratiche.

Ora è tempo ch’io affronti il terribile capitolo delle influenze. Le donne, secondo l’antico adagio umoristico, non sono gente. Esse non sanno nulla di nulla e non hanno opinione determinata sopra nessuna cosa: - Se le donne voteranno, lo faranno col padre, col marito, coll’amante, con un uomo insomma, con quello che avrà saputo entrar meglio nell’animo loro.

E voi, Signori, che cosa fate? Voi votate la lista del giornale al quale siete abbonati, voi votate con quel capo partito che si è imposto alla vostra venerazione, ai vostri entusiasmi; gl’impiegati votano col capo ufficio, gli ufficiali col generale, i sottoprefetti coi prefetti, i sindaci coi sottoprefetti, i comunisti coi sindaci.

Vi sono poi i voti dei cittadini illuminati non preparati dall’apostolato dei giornali e dei circoli, voti che arieggiano gl’indipendenti, ma ahimé, sono forse sacerdoti del dio nascosto nelle casse delle spese segrete.

E temete le influenze per le donne? Ma ne appello ai padri che fanno allevare le loro figlie in conventi per poi vederle brillare in ambienti profani - me ne appello ai non pochi mariti per l’emancipazione dei quali, dal dispotismo delle rispettive metà, scriverei volentieri un volume - ne appello al signor Proudhon scandolezzato della ribellione che circola fra le file delle donne intelligenti contro tutte le pressioni consacrate dai secoli, ne faccio appello a quelle donne coraggiose, che in tutti i paesi hanno preso nobilissime e non infeconde iniziative, lasciando che intorno a loro si declamasse, si ridesse, si calunniasse con anima d’apostoli ed abnegazione di martiri. Che piú? ne faccio appello al fatto che vi stà dinnanzi, o Signori; su questa donna che vi parla è passato il tempo e l’esperienza; ma le idee e la coscienza sono incrollabili.

Ma Voi non vi date per vinti. Queste influenze determinate dal sentimento sono mutevoli e fortunose - ma v’è una influenza terribile, antica, che soggioga molti uomini e gran numero di donne, non nelle opinioni soltanto che subiscono il controllo della ragione, non negli affetti che vi si sposano, ma le afferra nell’intima coscienza, impone la fede e vieta l’esame, le conquide coi terrori dell’avvenire, paralizza in germe ogni forza vitale, comanda, regna e governa in nome di Dio, l’influenza del prete.

Per non sottrarmi a nessuna delle difficoltà inerenti al mio compito, aggiungerò per conto vostro, che la propaggine sacerdotale deve gran parte della sua forza a questo appoggio che trova nelle donne; che duttile, elastica, cosmopolita, essa accarezza la repubblica in America, l’imperialismo in Francia, il legittimismo in Ispagna, l’autonomia in Ungheria, il dispotismo in Turchia, dapertutto l’elemento che lusinga i suoi interessi e promuove la sua prosperità.

Rigida nel principio, versatile nelle forme, assoluta nell’ordine ideale, estremamente relativa nell’ordine pratico, essa ha capito essere la donna una specie di rete coperta che mantiene le sue relazioni nel mondo laico, tanto piú comodamente in quanto sfugge all’apparato delle relazioni ufficiali, e tanto piú profittevolmente in quanto si toglie alla coercizione delle forme sociali, non lasciando documenti che aiutino ad apprezzarne l’attività.

Egli è perciò che ovunque si chiesero larghezze per la donna, la parte illuminata del partito clericale ben lungi dal dar di piglio alle furibonde diatribe dei vecchi padri del cristianesimo, l’aiutò galantemente a rialzarsi, uní la sua voce a quella dei liberali, vantò con lei tutto quello che la Chiesa avea fatto per sottrarla all’abuso pagano della forza e chiese libertà per lei come per tutti.

Come vedete, o Signori, io spingo la lealtà fin dove potete desiderarla e non fuggo la battaglia sopra nessun terreno.

Voi sapete meglio di me perché la Chiesa fece con la donna un’amicizia cosí salda e cosí antica.

I titoli di benemerenza ch’essa vanta verso la donna datano dal suo stesso avvenimento nel mondo, sono reali, son grandissimi, e i legislatori lo sanno senza avere la sagacia di scongiurare quella influenza acquistando verso la donna titoli maggiori...


... È ben vero che vi sono qua e là oratori che dalle sacre bigoncie scagliano in capo alla donna le vecchie invettive di S. Basilio, di Sant’Epifania, di S. Giovanni Crisostomo e di tutti quei vecchi padri del cristianesimo, che, orientali, innanzi tutto, ripugnavano dallo spirito democratico del cristianesimo e non potevano inghiottire le larghezze ch’esso portava alla donna. Ma quando sento dei sacerdoti disseppellire quei santi rancori e batterceli in faccia con una stizza che non è, né dei tempi avvezzi a discutere ogni cosa, né dei paesi dove la libertà e la personalità sono rispettate, né del cristianesimo che abborre da ogni oppressione e repressione, non ne rilevo che la poca accortezza dell’oratore che si stacca dalla parte illuminata del suo partito.

Tuttociò vi prova, o Signori, che noi siamo fatte come voi. Amiamo ciò che ci giova.

Democratici o conservatori, non siete guidati da un diverso criterio. Voi amate quegli ordinamenti che rispondono ai vostri bisogni, al vostro amor proprio, ai vostri interessi nel miglior modo possibile.

Ora questi ordinamenti, cosí come stanno, soddisfano essi egualmente ai nostri bisogni, ai nostri interessi, alla nostra dignità di persone e di cittadine, che contribuiamo al par di Voi alle spese dello Stato, al decoro del paese, alla prosperità della patria? Che cosa gli ordinamenti democratici hanno fatto per noi? Ci hanno tolto il voto amministrativo, sicché abbiamo pagato finora le imposte comunali e provinciali senza che siamo onorate di vederne il perché.

Ci hanno tolto, maritate, la libera amministrazione dei nostri beni, hanno riconfermato la irresponsabilità ai seduttori fedifraghi, ai mariti il diritto di assenza, ai padri l’esercizio esclusivo della patria potestà, hanno ricopiato tutte le nostre pretese incapacità, ci hanno escluse dalla parte piú onorevole e lucrativa del lavoro sociale, ci hanno private di voto e di rappresentanza e, come incoronamento dell’edificio, ci hanno messe a fascio nella integrità delle nostre facoltà intellettuali e morali coi malfattori, coi deliranti e coi mentecatti.

Per me, non esito a dirlo, o Signori, sono convinta che la mente del legislatore quando escogitava la personalità giuridica delle donne era per lo meno afflitta da un subdelirio.

E vi lagnate dell’influenza clericale? Perché dunque ridete, o Onorevoli, quando vi si parla delle nostre condizioni impossibili come gente che ha orecchie e non intende?

Perché dunque, o avvocati, vi fregate le mani e dite che il nostro codice ha segnato un gran progresso e che non si poteva fare dippiú?

Non vedete che la morale cristiana, che molti di Voi chiamano incadaverita e mummificata vi precede ancora di secoli?

Pertanto volete Voi sinceramente smagare l’influenza clericale? Riconoscete il nostro diritto al voto amministrativo e politico. Non avete tempo, non avete gusto ad occuparvi di noi - fatene a meno. Riconosceteci il nostro diritto al voto e basta.

Alla domane del giorno nel quale questa cosí elementare giustizia sarà fatta, si troverà come per incanto che voi tutti fate gran caso della nostra intelligenza politica e ne siete tutti cosí persuasi che venite voi stessi a dimostrarci di essere tutti migliori gli uni degli altri.

La iniziativa parlamentare, cosa ormai dimenticata in Italia, risorge. Avete finalmente capito che le nostre condizioni abbisognano di riforme, sentite finalmente vergogna di questa barbarie che vegeta a fianco alla vostra civiltà e la deturpa; i progetti di legge in nostro favore non vi fanno piú ridere; queste madri che comandano il vostro rispetto, queste mogli che rivendicano la loro personalità e vogliono essere nelle vostre case non piú gli angeli e le regine, ma in perfetta prosa, creature umane colla giusta equazione fra i doveri e i diritti; queste contribuenti che pagano anch’esse del proprio i pubblici servizi e vogliono fruirne i vantaggi nella città, nella provincia e nello Stato; non vi sembrano piú ridicole dacché avete avuto bisogno del loro voto, le trovate semplicemente ragionevoli; non le qualificate piú fenomeni morbosi, ma piuttosto stupite che non si siano ribellate molto tempo prima, quando serve esaltate od incoscienti, o vegetavano in una stupida apatia, o combattevano e si sacrificavano per la vostra libertà senza capire e senza volere la propria.

Restami ora a dire un’ultima parola intorno all’inopportunità di questa innovazione ed è questa la parte piú incresciosa del mio assunto, poiché se, discutendo le altre obiezioni, ho dovuto rivolgermi alle diverse gradazioni dei partiti nazionali pei quali è piú o meno discutibile il principio medesimo, per combattere questa mi è d’uopo guardare alla democrazia, perché da lei sola, che per necessità di coerenza ammette il principio, parte questa paurosa, illogica e vaga obiezione.

Che cosa è l’opportunità?

Per me l’opportunità è un concorso di circostanze omogenee e compatibili con l’affermazione dell’oggetto che si considera. Le circostanze omogenee in questo caso sono il trovarsi in esse i requisiti che si esigono dagli elettori, la possibilità di seguire nella scarsa misura convenevole gli avvenimenti politici, interessi e bisogni da guarentire, la possibilità materiale di compiere l’atto del voto. Ora quale di queste condizioni manca alla donna?

Io temo piuttosto che l’inopportunità sia tutta nelle disposizioni dell’animo vostro, o nel non esservi abbastanza convinti della identità dei principii che reggono le sorti umane in ambo i termini della specie.

So che i re non hanno mai creduto alla opportunità delle repubbliche, e i papi non hanno mai creduto un momento alla opportunità del libero esame. Ma re e papi tengono le radici nella tradizione ed in un ordine di idee assoluto, immutabile come il passato. Il loro non possumus è la resistenza della logica. Ma Voi, con quale diritto e con quale logica respingete le conseguenze pratiche di idee che sono le ragioni dell’esser vostro?

Voi sapete tanto bene queste cose che nel Febbraio del 1881 al Comizio dei Comizii votaste unanimi questo ordine del giorno:

«Il Comizio dei Comizii riconoscendo nel diritto del voto il diritto umano:

«Considerando che l’umanità è costituita e rappresentata dall’uomo e dalla donna;

«Riconoscendo impossibile la soluzione della questione sociale se non cessino per la metà del genere umano le attuali condizioni di esclusione, di minorità e di assenza;

«Coerente ai suoi principii e sollecito della giustizia che è l’utile di tutti;

«Riconosce, afferma e proclama cosí nell’uomo come nella donna il diritto alla integrità del voto.»

Ora che cosa ha fatto essa la democrazia per sciogliere l’impegno d’onore contratto verso i propri principii, nel 1876 per mezzo del Ministro Cairoli e nel 1881 votando nel suo solenne parlamento quell’ordine del giorno?

Nulla. Io vidi la democrazia combattere per sé, individui e partito, non l’ho veduta lottare pei principii sicché ha accreditato nell’animo di chi osserva spassionatamente l’idea che un governo di sinistra non differisca da un governo di destra che per mutamento d’uomini e di nomi, non già per un indirizzo diverso, quand’anche un uomo fra le piú spiccate sue personalità non si fosse a quest’ora incaricato di trapiantare in Italia un dispotismo africano.

Io faccio voti perché la democrazia si desti dal suo torpore, faccia il suo esame di coscienza, e riconosca che se piú che di spingere i suoi uomini al potere, le mordesse il cuore la sollecitudine dei suoi ideali, ben altre sarebbero oggi le condizioni degli italiani.

Noi non vedremmo in ogni atto del potere legislativo una genuflessione, ed in ogni legge votata una umiliazione od un balzello; non vedremmo l’apoteosi non interrotta degli interessi dinastici; e la sconfitta incessante degli interessi popolari - non vedremmo gl’interessi dei forti prevalere, prevalere sempre a scapito degli interessi dei deboli, e il fasto politico passeggiare tronfio e chiassoso come un sovrano orientale fra moltitudini impoverite ed affamate; e non vedremmo correre alle urne una turba rurale, strumento incosciente di chiunque la spadroneggia e la paga, mentre le vostre madri, le vostre spose e le vostre figlie, colte ed intelligenti, vivono in condizione di paria e di iloti, senza voce e senza rappresentanza, senza altra funzione nella famiglia, nella città e nello Stato che quella di contribuire di persona e di borsa ed obbedire.

Faccio perciò formale invito alla democrazia ed ai socialisti, e per primi ai sodalizii che mi hanno onorata della loro chiamata di voler assumere l’impegno d’onore di imporre ai loro candidati politici il mandato categorico e imperativo di presentare un progetto di legge per il voto delle donne, e di patrocinarlo col maggiore impegno alla Camera legislativa.

E convinta che lo farete, io mi licenzio da voi, ringraziandovi dell’onore fattomi e sperando potere in un giorno non lontano ringraziarvi a nome del mio sesso.

Note

  1. La donna nella famiglia, nella città e nello Stato, a cura del Comitato di propaganda per i diritti della donna, Bologna, 1890.