La piccola Kelidonio/Autobiografia

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Autobiografia

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XX


Sono nato il 30 Settembre 1867 a Milano, nella stessa casa e camera, Via San Simone, in cui pur nacque Cesare Correnti. Quella casa è oggi distrutta dal piccone del rettifilo, e la Via San Simone si chiama da quell’illustre a sangue freddo.

Continuo e conchiuderò una famiglia che non fu mai né muta né reticente nella storia lariana. Per le azioni delle arti, della guerra, della chiesa e del foro, svolse, per lunga serie di secoli, le proprie prerogative. Né meno l’episcopio ha saputo coprire in noi le determinazioni ghibelline, come nell’Arcivescovo di Magonza. Como è ripiena delle nostre memorie, che sono sempre di carattere liberamente solista ed espansivo.

Mi laureai in leggi il ’92, col massimo profitto di avermi fatto comprendere la inutile menzogna delle medesime, che contrastano dal Codice alla Vita; sì che imparai a maneggiare le armi anche fisiche per distruggerle. Mi compiacqui di medicina e di matematica.

Ma se è vero che l’Arte è rifugio e consolazione delli ammalati inquieti, in cui la salute del cuore e dell’intelligenza contrasta colla morbosità degli altri organi, all’Arte mi affidai come alla sposa ed alla madre, che non tradiscono.

Ho avuto ragione. Il mio atto di Vita d’allora in poi si è sempre confuso colla mia espressione d’Arte; la mia Azione è la mia Letteratura. Ogni anno vissuto da me dopo il ventesimo, è postillato da un nuovo successivo volume, e là dove tu riscontrerai miglior sofferenza, l’Arte sarà maggiore.

La revisione delli Uomini e dei Libri avvenne tra i Libri dal letto e dal lettuccio. Non sono tanto desto se non quando mi sorprendono in dormiveglia. Contrasto spesso con tutti: in questa antitesi si aumenta giornalmente il mio orizzonte. Le mie avventure cerebrali furono enormi e sconosciute: un’eco sola ne vibra, a chi sa intenderla, dalle mie pagine.

Ma ciò che più mi soddisfa è d’essere in pace e contento con Me stesso, perché fui severissimo con Me ed indulgente ad altrui: il mio maggior titolo è di essermi sorpassato; li altri vaglieranno quelli tangibili del mio lavoro.

Eppure non prosperai, né prospero: mi avvisò Carlo Dossi che mi mancava l’arte del Ciarlatano. Non me ne dolgo. Il mio pensiero rosso, la mia candida onestà sono virtù negative in un mondo dove il grigio è pregiato sui colori pieni e non equivoci. Oggi, non uomo finito, posso anche riposare, perché so di aver compiuto il mio dovere, cioè sono sicuro di non essermi tradito, ed ora non desidero che di morir presto.

Milano il I di Giugno 1914

G. P. LUCINI


Questa autobiografia fu scritta pochi giorni prima di morire e per l’antologia a cura di Mario Puccini (Lanciano, Carabba, 1917). La sua unica gamba, ingessata dal chirurgo, morsa ormai dalla cancrena, gli dava spasimi atroci. Ma i suoi occhi ridevano, ancora. Si lamentava dei medici, delle cure, di tutto; poi, d’un tratto, apriva il viso ad una luce di sorriso. E diceva: «bene venga, la morte!».