La piccola Kelidonio/IX

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IX. Geron ad Akkis

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Ascoltami. Io sono e sarò un vecchio usurajo rozzo e screanzato che non sa le belle maniere, ma non mi piaccio d’ingannare nessuno. Né meno quando tratto di affari metto nel contratto parole ambigue e doppie: tu mi devi perché ti ho dato; e basta. Non uso come il giovanotto che si unge di profumi e sta sul parlar attico, speculare sull’amore delle fanciulle, derubarle ed abbandonarle poi quando loro ha roso il corpo alla carcassa.

Seso mi ha fatto villania; non mi curo di vendicarmi perché egli stesso mi si è tratto d’impaccio col fuggire. Tu hai riso con lui, di me e mi respingi ancora sperando ch’egli torni, per suo amore patisci ogni privazione. La tua sciocchezza ti castiga per me.

Il tuo briccone fra tanto col pretesto di fiera e di cavalli da vendere volge verso Cyrene colla bardassa Egle ch’egli si ha scelto a compagna e spera di allogarsi in coppia, lui e lei presso qualche vecchiardo di quelle parti che intramezzò bambino e bambina secondo il capriccio, l’ora, la forza dei nervi, ed ami averseli ambo sotto mano.

E bene guarda ciò ch’io faccio per te. Lo schiavetto ti viene da parte mia carico di roba non perché tu scelga, ma perché tutto prenda. So di quanto tu necèssiti e vi ho supplito. Tra l’altro troverai una coppa d’argento sul cui fondo l’arte del maestro cesellatore ha rappresentato due delfini in amore, augurio di prossime nozze rinnovate: tu poserai le labra sull’orlo, ed in quel posto dove l’avrai messe ricongiungerò le mie. Ora questa è ripiena di grani di quelle due collane che Seso ti ha preso e ch’io ti rendo. Che il cristallo azzurro e dorato dei piccoli globi preziosi ti aggiunga bellezza.

E se ti basta il rozzo vasellino d’unguento fenicio, non vorresti cambiare in meglio con questo profumo che viene dall’India distillato da erbe miracolose? Profumo, chiama profumo ed io vorrei ripeterti ogni momento alla piccola orecchia questo dolce bisticcio d’amore.

Poi appendi questa corona che le più abili mani di stephanoplaste abbiano intrecciato sotto al mio consiglio: numera un gilio, un botton di rosa, un anemone umido ancora di rugiada, il tiepido narciso e la violetta bruna, incensiere nascosto e perenne. Appendila al capezzale che t’infiori i sogni propizii.

In fine continua pure a ciarlar male di me: «Oh il vecchio Geron; oh il disgustoso vecchio usurajo di Geron!». Lo so tu fuggi la canizie molesta e se qualcuno d’età appassita ti offrisse i tesori di Tantalo per giacer con lui non ne faresti conto. Ma ti dico io di darmi un bacio, un bacio solo? No, tu verrai in breve a concedermiti intiera. Loda sempre a mio sfavore il naso adunco di Seso e chiamalo regio, i suoi occhi lionati ed infidi e credi che trascolorino così per tuo amore. Sei come colui preso d’affezione per una botte perché un giorno socchiuse vin generoso; ora che spilla acqua, trangugiandola e facendo boccaccie s’immagina di bevere sempre umor di vite genuino.

Ma lasciamo andare: questo ti susurra il rozzo e goffo vecchio usurajo di Geron, ma te lo fa scrivere dallo scriba che ha trespolo sotto la terza colonna del portico: perché s’egli non sa che segnar numeri sulle tavolette della sua banca, sa pure pensare e dettare come un poeta quando ti si rivolge pregandoti.