La piccola Kelidonio/V

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V. Klinios a Philonides

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IV VI


Questa volta ti sbagli, amico mio; me la godo oziando ed al fresco come un sibarita. Passo la notte nell’aule ampie della casa paterna che dà sul porto, ventilate dalle brezze, e nei ritrovi dell’Akropoli; lungo il giorno mi ritiro alla Casina.

Mi vedessi vestito di una tonachetta leggera e corta, calzato da sandaletti di Sikione azzurri ed alti sul collo del piede, colle dita che mostrano tutta la giojelleria della famiglia, il cappelluccio di paglia sulle chiome unguentate, il sorriso di moda sulle labra!

Prima di mezzogiorno scutrèttolo all’ombra esigua dei muricciuoli e delle case, facendomi vento colla cocca floscia della stola; passo via ratto, son fuori di città al trivio del Corno Fesso; in vista del mare piego a sinistra; discerno una villa sopra di un poggio più in qua del castelluccio della marina vecchia, scorro un viottolo disegnato da due fila di cipressi bassi, trovo una siepe, una chiudenda, l’apro, attraverso un orto, spalanco una postierla e sono nelle mie delizie. Faccio qui colui che essendo ricco ozia con buon gusto.

A qualche cosa mi dovevano servire quelle delicatezze e l’erudizione che il buon uomo di mio padre mi ha fatto imparare a suon di monete dai falsi pedagoghi di Elea. E com’egli che già fu al seguito di Hermes psicopompo ed ha già pagato l’obolo all’ispido Kharon mi vedrebbe volontieri tutta grazia pretenderla ad eupatride! Il casato di mia madre del resto, figlia di Ermolaos, donna greca ricca di molte terre nell’interno e nell’isole, la parentela e la vecchia stirpe egizia di mio padre Erenajos, discendenza di mercatanti e di magistrati per cui s’invidiano ancora i bei tempi dei privilegi ptolemaici, mi potrebbero far insuperbire se tutto questo non fosse che vano fiato di fortuna, e se la rabbia di Poseidon e di Demeter un bel giorno non mi potesse spogliare di ogni facoltà. Ma poi che i rustici s’inorgogliscono oggi di quelle ricchezze che, trescando ed intrugliando a Roma e ad Alessandria vengono poi a mostrarci, come se fosse del tutto morto il ricordo di loro pitocchi e laceri, presti a qualunque ufficio sul posto, da quello del facchino all’altro del proxeneta; non potrei io stimare questi avvantaggi per qualche cosa? Fatto sta che oggi compiaccio al maggiore dei desideri di mio padre: ed egli si rallegrerebbe nel vedermi non più innamorato del mare, delle sue avventure, delle compagnie de’ politi, de’ piaceri grossolani, della pesca e delle bettole, ma frequentatore di festini e di brigate eleganti. Dice il filosofo: l’una cosa vale l’altra; ma per confessar ciò di scienza propria bisogna esperimentarlo.

Mi do quindi buon tempo e dell’arie. Spesso, sul vespero vado ad appoggiarmi colle spalle ad una colonna dell’atrio della mia casa sulla gettata e vi faccio da padrone. La folla poi è spessa e toglie la vista del mare. Pastori siriaci, mezzo nudi, vi guidano greggia sucida e male odorosa: con un ramoscello di gelsomino in mano conciliano alle loro nari la puzza del bestiame. Le donne che vendono frittelle di olio e di miele incomodano colla loro tegghia bassa e ripiena i passanti. La gente del popolino, in azzurri calasiris, vociano e si promettono per l’opera del domani. Poi la moltitudine che lavora sfolla verso i sobborghi e le alture, e le belle e li azzimati vengono a mostrare i loro abiti e fanno rete e ragna d’occhiate e di sorrisi a fior di labra e di sbieco invischiandosi a vicenda. Le etere cianciano, si fermano a torno a chi vende frutta, ne comperano; quelle del paese hanno una lunga exomis attillata e leggiera ed una cuffietta di metallo alata o rostrata che pesa sulla spessa capigliatura; quelle dell’Isole e le Greche, portano ampii cappelli di paglia e tuniche variopinte, che, se le impacciano, si tolgono e si ripiegano sul braccio come mantelletti, rimanendo nude, fuor che le coppelle di legno leggiero ed istoriato che racchiudono i seni e che si affibbiano colle correggie sul dorso. Io le guardo e le lascio passare.

Quando mi si fanno vicino le conoscenze e li amici, li adulatori e li invidiosi, con loro vado sul limite della gettata; addito questa o quella nave che mi appartiene e che portano tutte sulla prora alta la faccia d’Euro dorata e scolpita tra quattro stelle raggianti: e, discorrendo, li invito ad ammirare la snellezza dello scafo, il bell’ordine delle sartie e delle vele, la robusta lunghezza dei remi; e numero quanto mi hanno reso lo scorso mese e per le spugne e pei coralli e per i pesci e per i viaggi, e mi pavoneggio. Colla cocca della stola mi sventolo sul viso, gesto or mai che mi distingue; così dimenando la mano, ne faccio rispecchiare li anelli che fiammeggiano come altrettante lucerne sull’ara votiva di Adonis.

La sera, come ti ho detto, salgo all’Akropoli: Mnester ha fatto maraviglie nel suo giardino. Le terrazze scalano, e l’una dopo l’altra, la collina pampinosa che si terge dall’umido notturno alla brezza salata e secca del mare: la città bassa apparisce confusa, inquieta e ronza come un grande alveare di pecchie affaccendate: delle lanterne vagellano qua e là come più grosse lucciole volitanti; Poseidon sonnacchioso in fondo si sdraia e si scorge più chiaro e quasi luminoso verso la spiaggia disegnata dalla sua spuma d’argento colla quale la circonda. Nel giardino vi sono fontane che giuocano capricciosamente, che sposano lo zampillo e la cascata dell’acque al chiarore delle fiaccole di resina; trovi nei boschetti sedili di pietra per i dialoghi di dopo cena e nelle forre più secrete dei lettucci soffici di mirto e di rose per le canzoni d’amore. Mnester, tu sai, fu corega e bardassa; una malattia l’ha ora fatto eunuco e vecchio finanzi tempo; ma di buon gusto ed ardito, ci ha copiato in patria i giardini amatorii di Korintho e di Roma ch’egli viaggiando ha conosciuto, e con poco ci apprestò il suo traendolo da quel vigneto che redò dal suo primo amante, il vecchio Hippotes. Il quale molti anni fa avendolo scorto bambino dormire al sole sulla spiaggia nudo e bocconi, tutto dorato dalla salsedine e dall’estate, colli altri monelli suoi pari, lo trascelse; e quasi fosse una rarità, condottoselo in casa, gli diede maestri e bell’abiti, nutrendogli l’ingegnaccio naturale ed accrescendogli l’agilità del corpo colli esercizi della palestra. Onde un contrafattore di pesci, di uccelli e di serpi, passando di qui, dopo, se lo prese con lui e gli fece incominciar la fortuna imparandogli i suoi secreti. A farla breve, da Mnester tu puoi trovare tutto quanto desideri.

Già alle prime stelle vi incontri ubriachi, e sul tardi devi badare dove metti i piedi per non sturbare le coppie: sempre il concorso della gente è molto. Sotto i cedri ed i cipressi, delle tende stirate segnano brevi arene ai giuochi a cui polestiti di professione si disfidano; sulla vittoria dell’uno e dell’altro tu puoi scommettere, secondo ti è simpatia. Più in là, dai trespoli, declamano farse dove li argomenti priapeschi la contendono col bastone delli schiavi, il vecchio è imbertonato e tradito e qualche astuta puttanella fa un babbeo padre di un fantolino di cui al vero non saprebbe dirne il nome tanti furono i varii galli per quella covata. Ha fatto stupire testé una invenzione di Mnester che fece sorgere per servire alle cene, (e coloro che vogliono, pagando, vi possono prender parte) dalle vasche capaci, ragazze Oceanine, che, nuotando verso i commensali, portano le vivande cotte al punto fumanti e non bagnate, per quanto emerse dal fondo delle grotte equoree. Poi ha apprestato delli Eros piccolini e nudi, così minutini ed aggraziati colle alucce e la faretra sonante o le corone in mano, o li spiedi venatorii, o qualche inocua spatola di legno dorato a mo’ di spada, da sembrare que’ buoni genietti che i pittori coloravano di fianco alli Eroi o volanti, a significare le loro virtù. Ma questi vidi, egregiamente addestrati, fanno l’ufficio di valletti alle mense ed intramezzano le coppiere: sì che, sulla fine del festino tu, tra li uni e le altre, puoi scegliere.

Intanto tutto il meglio della città vi concorre. Qualche volta anche il proconsole, stanco ed annojato, che si appoggia al bastone colla destra e colla sinistra al pugno di un cavaliere: e guarda a torno colli occhi mezzo ricoperti dalle palpebre, si ferma, semina qua e là parola d’arguzia o saggezza riverentemente accolta come responso d’oracolo, mentre a me quelle inette sciocchezze muovono la bile. Penso alla alterigia di questi forastieri che la fanno da padroni e quanto la mia casa e i miei ne hanno soferto e mi arrovello così sfiorandolo quasi col gomito non posso trattenermi di consacrarlo all’asino, mormorandogli appresso: «Mangia fave sciape!» e squadrogli di sotto al mantelletto, le fiche.

Epimachos il dicajodotes affabilmente discorre con tutti; Seso, scioperato che tenta raggiungere la ricchezza di Mnester col copiargli le arti, sciorina da per tutto la sua bella Akkis che si strugge d’amore per lui e ch’egli volontieri metterebbe all’incanto; Geron pieno di monete e melenso s’aggira in cerca di primizie; Philiscos che è ridotto a fare il filosofo dall’avarizia di suo zio, fa mostra di non far conto dei piaceri e di battere lo stoicismo, ma se gli incappa qualche buona avventura se la gode in segreto: colla gravità maggiore che non comporti la loro giovanezza, delli imberbi romani seguiti dal pedagogo, un grigio furbacchione che fa di solito il peripatetico, colla scusa di girare il mondo, per istruirsi, come dicono, non tralasciano di bagasciare secondo il costume del paese che scorrono, e si recano volontieri al giardino. Le donnine più ricche e più istruite che vedi al vespero sulla gettata tornano da Mnester la notte come ad un sopraffino proxeneta. La decana di tutte, che conserva qualche resto di bellezza, Melissarion, di solito si siede in fondo ad un emiciclo di pini bassi ed è circondata da numerose clienti: tiene dispute d’amore e pratica di furberie feminili; è colei che dà il prezzo di ciascuna ed a cui, senza pena, tutte pagano una tassa per le sue informazioni; è sorella, madre e mammana e sentenzia come un giudice. Ha con lei spesso qualche novella che vezzeggia con intenzione per distinguerla dalle altre e per meglio mostrarla alla curiosa golosità delli amatori. Imagini facilmente chi altro può essere al seguito di etere, di auletridi, di mimi, e di bardassa: e sono i cocchieri ed i saltatori sul dorso dei cavalli Sciti ed Armeni, li psilli che incantano e giuocolano coi serpenti indiani, i funamboli, li aedi di piazza che bestemiano Omèros e storpiano le favole milesie e le vecchiette fattucchiere; tutti i compagni insomma di una volta di Mnester che vengono a lui per intrigo, per lucro e per ufficio e popolano di notte la collinetta: la quale, fiammeggiante sino all’alba, appare dal porto erta come il promontorio, dell’isola di Circe segnacolo e faro dei piaceri e delle mollezze della città.

Mi dirai: «Scegli tu qualcuna in tanta abbondanza?» Io? Mi riposo ed osservo. I giovinottini baldanzosi per fare il singolare si fan vedere a ritirarsi colle etiopi che annodano i capelli corti e ricciuti con fili di rame onde s’ergono rigidi sul capo e col corpo unto di grasso profumato strepitano come coribanti e riflettono sulle anche tonde le fiamme delle lucerne di corno appese alli alberi quando vi passano presso. Altri si accontentano di chi già conosce; al navigante la prima imbattuta compiace; la mia scelta è difficile invece e sto ancora dubioso. Badano meno i magistrati ed i centurioni che si nascondono sotto le pergole in lunghi tavolati con tibicine e saltatrici, e giovanette del porto, gozzovigliando ed eccitandole alle danze più libere. Ed a dirti il vero, io per un istante aveva fermato lo sguardo ed il desiderio sopra una di quelle donne che escono dall’acque, dapifere: e vistola madida risplendere di perle liquide rapprese ai capelli ed ai seni, portando la mensa, ben fatta in tutto e di pelle bianchissima e dignitosa nel gesto, mi sarei deciso per lei se mi avesse mostrato il volto che tien sempre mascherato conforme al corpo. Mi han fatto sapere ch’ella è moglie di un magistrato in disgrazia, e che si presta così, corifea notturnamente nel giardino di Mnester, perché il marito ha tutto dilapidato sui dadi ingannatori come il sorriso di Paphia. Ed ho rispettato la sua sciagura, il suo mistero e la sua castità forse più per rispetto a me stesso che per l’onta di lei, certo del resto di piacerle e d’essere aggradito.

Intanto i miei garzonetti ed i navalestri fanno per loro opera di ragno, per me d’api sapienti e parsimoniose. Si affannano tutto il dì a scorrere il mare e la notte a correre lungo la spiaggia colle fiaccole, fiocinando; altri ne attendo da lontano colle mercatanzie più preziose. Tutti fanno come le Danaidi colle botti che dovevano inutilmente riempire coll’anfore; perché io li smungo da padrone, ma con parsimonia: e concedendo loro ora questo ora quello, che è poco per me, li accontento e traggo a me l’utile. Si satollino il ventre con ostriche di mare ed ostriche peloridi, non me ne importa, anche di qualche rombo grosso; io voglio spugne, coralli e denaro per i noli delle barche, i miei castaldi mi procurano il resto.

Lontano è adunque il tempo della tavernaccia dell’ebreo; e non mi troverei bene. Sta sicuro che la tua polputa Mammea non teme assalto da me. Tu puoi con tutta pace far l’antiquario e scifrare a lume di naso ed a raggio di lucciola i geroglifici de’ tuoi idoletti, come puoi sudare sulle tavolette di argilla che qualche ciurmatore (ve ne sono mille) ti ha portato gabellandoti, da la magnifica Hamonn-raibi, l’astemia che condannava bettole e bettoliere, mentre tu bevi in fresco vinello di collina e non sarai certo digiuno d’amore.