La rivoluzione di Napoli nel 1848/19. Lo statuto del 10 febbraio

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19. Lo statuto del 10 febbraio

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[p. 66 modifica]19. Al 10 febbraio comparve infine lo statuto. Bozzelli era stato creato ministro: e, come colui che godeva di maggior fama di pubblicista, a lui si era affidata la compilazione del patto famoso. La vita di costui era stata una lunga mascherata. Tartufo letterario, tartufo politico, in fondo a tutte le sue idee, in fondo a tutte le sue azioni non trovavasi che una convinzione vera, oro e potere. Gli era d’uopo arrivare onde appagare queste due fatalità della sua esistenza, e non importa per qual via. Aveva tardato anche troppo. Quando si trovò faccia a faccia col re, egli che il giorno prima, vedendo il prospero aspetto che le cose assumevano, aveva parlato financo del pugnale di Bruto, s’intenerì, e come Filippo Argenti di Dante non seppe dire altro che vedi! io son un che piango. Rappresentava la sua parte. Il Borbone che, per consiglio di Pignatelli-Strongoli, lo aveva chiamato al potere di malavoglia e quasi per dare un pegno di lealtà al partito liberale, il Borbone si rammentò incontanente con chi avesse a trattare, e le nuvole della sua fronte si dissiparono. Immediatamente gli furono pagati ducati diecimila per la compilazione dello Statuto. Poi gli furono saldati alcuni debiti: poi gli furono date altre [p. 67 modifica]somme per fabbricarsi la livrea ministeriale. Le confidenze principiarono: Ferdinando penetrò negli angoli più riposti della cospirazione. Se i Sovrani d’Italia fossero stati meno solleciti in seguire il suo esempio, forse egli, assicurato già della protezione del sire di Francia, avrebbe in quell’ora stessa ritirata la sua parola ed abolito l’atto del 29 gennaio: ma in quelle condizioni non potevasi più indietreggiare. E poi chi sa pure s’e’ prestasse fede intera al traditore? Timeo Danaos et dona ferentes! L’entusiasmo universale, la soddisfazione unanime con cui era stata accolta la parola libertà erano troppo potenti per considerarli come opera di un partito debole e scomposto, quale il Bozzelli diceva, e non sospettare sotto quello strato un popolo intero che si sarebbe levato in massa contro la violazione dell’atto. Sia comunque, la ragione fondamentale della rivolta, la quale aveva costretto il re ad accettare i patti del popolo, fu dimenticata, e lungi dal lasciare al vincitore la redazione dei capitoli delle condizioni di pace, la Carta francese del 1830 fu tradotta ed offerta alla disamina del Consiglio di Stato. Essa fu dibattuta con passione; ma Bozzelli, che l’aveva antecedentemente concertata col re, seppe farla passare. — Quando il popolo la conobbe lo scontento si manifestò. La maschera cadeva: gli uomini che sapevano pensare avevano tutto compreso: avevano compreso segnatamente che, fra non guari, sarebbe stato d’uopo cominciare da capo. — La Francia, dal 1815, aveva gustato le dolcezze di quel regime, e sperimentata l’efficacia di un patto così eteroclito. Una rivoluzione non era bastata per far cadere le cataratte e correggere il principio: di proposito deliberato si [p. 68 modifica]volle gittare anche noi in quella via di finzioni e di anormalità. Per certi uomini un’idea non muore mai; ed anche quando essa porta le tracce della sua caducità, anche quando avvelena e si circonda di ruine, bisogna vagheggiarla mai sempre e metterla in movimento. Che importava che la verità della Carta del 1830 non si fosse mai fatta sentire? che importava se essa avesse scavato l’abisso in cui pochi giorni di poi doveva seppellirsi la dinastia di luglio? Si voleva forse agire davvero, riconoscere davvero i diritti del popolo calpestati lungamente? Siéyés aveva detto: les philosophes et le publicistes n’on su lire l’avenir que dans le passé; et lorsqu’une nouvelle cause de perfectibilitè jetèe sur la terre leur présageait des changements prodigieux parmi les hommes, ce n’est jamais que dans ce qui a été qu’ils ont voulu regarder ce qui pouvait être, ce qui devait être. E Siéyés aveva ragione. Inoltre si era omai transatto con i pretesi capi, profondendo loro cariche e scudi: col popolo e con i radicali si sarebbe pensato aggiustar la partita o con le lusinghe o con la mitraglia. E fin d’allora il colpo di Stato del 15 maggio si patteggiava. Il re non aveva perduto un bruscolo di potere, ed aveva acquistata la facoltà della corruzione uffiziale di più. Si era solamente complicata di un tantino la macchina del governo, ed ecco tutto. — Sia comunque, novelle feste si ordinarono, e furono sontuose. Ma mentre Napoli s’inebbriava nella gioia, gli accordi della Sicilia dimenticavansi, e Messina soffriva un orribile bombardamento, solo per assopire una vendetta privata del generale Cardamone. Quest’uomo dimandava ragione alla città di una ferita quivi riportata nel famoso 1° settembre 1847!