La rivoluzione di Napoli nel 1848/50. Gesta di re Ferdinando

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50. Gesta di re Ferdinando

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[p. 186 modifica]50. Re Ferdinando aveva lavorato dieciotto anni a crearsi un esercito. Ogni giorno aveva condotti i soldati [p. 187 modifica]a manovrare; aveva spossato tutto il genio inventivo dei sartori, e tutti i colori dell’arco baleno per aggiustar loro una divisa pittoresca; gli aveva avvezzati ancora a sentire l’odore della polvere, senza il condimento del piombo; e per vero dire la linea, dovunque si è trovata, ha fatto il suo dovere con bravura. I reggimenti però i più prediletti ed i più carezzati dal re guerriero erano stati quelli della guardia reale. Li aveva scelti, li aveva ammaestrati con maggiore perseveranza, li aveva infatuati di ammirazione e di culto per sè: aveva cercato ad ogni costo cavarne una guardia imperiale. Ed egli stesso non aveva temuto nè la pioggia nè il sole per dar animo ai soldati e far dispetto agli uffiziali; ed aveva comandate battaglie finte al Pagliarone ed assedii ed assalti a Capua. Era convenuto già che egli dovesse vincere: che si dovesse far uso solamente della polvere, ed attaccare alla baionetta a cinquanta passi di distanza. Era convenuto che la cavalleria dovesse caricare col suo comodo, affinchè, se fosse caduto da cavallo, non lo avessero calpestato. Insomma era convenuto tutto, e con quella precisione ed aggiustatezza di tempo, che fa tanto piacere nei balli teatrali. Re Ferdinando bruciava dalla voglia di dare una battaglia, tanto più che i suoi generali lo complimentavano del nome di Napoleone. Si era invero offerta l’occasione di Lombardia e della Sicilia, oltre la faccenda del 15 maggio: ma quelli erano negozii troppo triviali; e poi non vi era da guadagnare delle indulgenze plenarie. Ecco che l’affare di Roma si presenta. Avevan tanto detto e scherzato su i soldati del papa che non si trovava piccolo furfantello di sacrestia, il quale non si sarebbe creduto al caso di [p. 188 modifica]metterne a dovere una coppia di battaglioni con la canna da smoccolar le candele. Re Ferdinando ne vide l’occasione bella e trovata. Lo avevano chiamato fino allora Napoleone, lo avrebbero chiamato d’allora in poi Carlomagno. Si tuffa quindi fino al collo nel maneggio della spedizione: e se per giungere ai soldati francesi non fosse stato d’uopo passare di presso a Roma, credo avrebbe rivocato a sè il comando in capo della crociata. Faceva sogni incantati! Mette dunque in piedi quanti reggimenti potette impunemente ritirare dalla superficie dello Stato, militarmente occupato e tenuto in assedio, li dispone a scaglioni lungo la frontiera romana, e da Napoli alla frontiera, onde assicurare la ritirata, e seguìto dalla gendarmeria, perchè il gusto del birro non lo abbandona mai, e da tutti i reggimenti della guardia reale, passa i confini. La guardia reale aveva fatti i prodigi contro le femmine ed i fanciulli di Napoli nel 15 maggio: chi avrebbe dubitato che là non avesse fatto altrettanto e peggio con quei poltroni romani? Assume dunque il comando e tira diritto a Velletri, devastando, giusta il costume, e saccheggiando il paese che traversava. Il triumvirato romano, alle prese con i francesi e gli austriaci, lo lasciava fare; ma firmato l’armistizio con Oudinot, cercò profittarne per attaccarlo. Egli veniva innanzi con dodicimila uomini fiero e gaudioso, sperando giungere a tempo per entrare da trionfatore nella città eterna, giusto un paio di ore dopo che i francesi vi fossero entrati. Ed ecco che la novella dell’armistizio gli arriva. Si crede tradito, ed ordina di ritorcere strada immediatamente e tornare indietro. Mentre gli apparecchi si fanno, Garibaldi sopraggiunge ed attacca. Non ci volle altro. Re [p. 189 modifica]Ferdinando salta sul primo cavallo che trova, e la testa nuda, le vesti in disordine, pallido e sfigurato, delirante di rabbia e di paura, percotendo chiunque gli si para davanti, a briglia sciolta comincia a correre verso i confini di Napoli. La guardia reale che lo vede fuggire, gittati fucili e bagagli per essere più leggera a seguire il re, principia a scappargli dietro. La gendarmeria ed i corpi di linea, scompigliati dall’assalto improvviso, vacillano un istante, ma bentosto si riordinano e prendono a resistere, battendosi in ritirata. Garibaldi che aveva irrotto come una valanga ed era stato ad una spanna per sorprenderli e farli tutti prigionieri, Garibaldi li flagellava sempre e li inseguiva, speranzoso di catturare il re, metter fine alla guerra e decidere i destini di Napoli. Ma questi si era da lungo tempo salvato. Dio aveva diversamente disposto: aspettiamo. I napolitani, facendo sempre fronte, si andarono a chiudere dentro Velletri. Garibaldi li seguì. Sopraggiunta la notte, per far riposare i suoi che non ne potevano più, si arresta e disegna attaccare al domani. Ma i napolitani la notte stessa impagliano i cannoni, sferrano i cavalli, e mogi mogi, lasciando i fuochi nei bivacchi, se la svignarono. All’indomani Garibaldi trovò la città vuota, ed il nemico già prossimo al suo territorio. Quando a Napoli si seppe la fuga oscena del re e dei suoi pretoriani, la gioia fu universale e niuno la celò. Questo inferocì il re guerriero. Il nome di Carlomagno andò in fumo; ma quello di carnefice di Napoli non morrà. Lo spirito di vendetta quindi si unì all’odio, che innanzi lo bruciava, contro il popolo cui è destinato a martirizzare; e le persecuzioni aumentarono: la reazione fu elevata a scienza, la crudeltà ad apostolato. [p. 190 modifica]Che poteva più raffrenarlo? Era quella la campagna vera di un tanto eroe.