La rivoluzione di Napoli nel 1848/9. Stato della nazione

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9. Stato della nazione

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8. Pio IX 10. Protesta di Calabria

[p. 31 modifica]9. La nazione napolitana era come un corpo in cui il vigore della vita si batte contro gli attacchi di una malattia mortale. La volontà ferma, l’ostinazione di non perire, l’hanno potuta solamente salvare. In un paese in cui tutte le ricchezze sono riposte nella coltura del suolo, l’agricoltura è ignota. Le leggi sulle successioni, quelle sulle ipoteche, sul registro e sul bollo, quelle del compascuo, quelle delle acque e foreste, la mancanza assoluta di strade e di ponti, i dazi, i balzelli, rendono la proprietà territoriale un peso, ed influiscono alla trascuratezza agricola. La mancanza di vendita dei prodotti fa maledire la fecondità della terra. Il commercio pallido e meschino di qualche produzione, esercitato per monopolio e per ogni verso gravato di acciacchi, era venuto a poco a poco a mancare; e già quello delle biade, dell’olio, delle lane, dei formaggi, della rubbia era stato usurpato da altre nazioni che gli facevano concorrenza; già quello dei frutti, delle sete, della liquirizia, della canapa e delle civaie agonizzava. Le industrie erano scarse, e qualcuna favorita da tanti privilegi ed eccezioni da rendere qualunque altra concorrenza impossibile, o mortale; qualche altra vietata di proposito deliberato. L’istruzione pubblica temuta; di modo che sopra sei milioni di cittadini al di qua del Faro, forse non ve n’erano trecentomila che sapessero leggere e scrivere. L’istruzione superiore assolutamente interdetta, o forviata dallo spirito della polizia e dalle adulterazioni teologiche. Aver dell’ingegno era una sventura. La stampa assolutamente vietata; talchè si era trovato anche un certo numero di parole [p. 32 modifica]rivoluzionarie o irriverenti cui bisognava cancellare dal patrimonio della lingua, taluni nomi mettere al bando della civiltà e della memoria della storia. La lingua doveva veramente servire a nascondere le proprie idee come voleva Talleyrand. Il titolo di moralità e di merito consisteva in un certificato del confessore. Chi si sottometteva alla trista e stupida direzione dei preti era solamente buon cittadino, o meglio buon suddito. Le cariche, gli onori appartenevano in retaggio esclusivo a chi aveva prostituito il suo onore, la sua coscienza, e la sua famiglia a qualche ministro o a qualche vescovo e confessore, ovvero aveva molti danari per tutto dominare e comperare. La differenza del prezzo e della bellezza, la facilità della prostituzione, l’eccesso dell’ignoranza, e la bassezza del servire erano il termometro per occupare le funzioni dello Stato, ed assicurarsi un cantone nell’edifizio dello stato discusso. L’insolenza, il dispotismo, l’arbitrio dominavano in tutta la gerarchia degli uffiziali pubblici. Quando il ministro ed il confessore del re chiamavansi contenti, che importava il resto degli uomini? La spoliazione era la legge organica delle finanze: il mistero, la sua sola condizione di vita. Le leggi fiscali, intollerabili ed inique, assorbivano quasi intera la ricchezza nazionale. La produzione ed i suoi istrumenti, colpiti nella sorgente, venivano ricolpiti nella consumazione. Sopra gli oggetti di prima necessità gravitavano fino a sei dazi differenti. La volontà del re era la sola legge nella percezione e nell’uso dei danari pubblici: il budget discutevasi in segreto tra il ministro e il re. La consulta di Stato, corpo parassita e nullo, non avea voto, e contava due uomini solamente tra’ suoi membri nel caso di comprendere ciò [p. 33 modifica]che piacesse al re di sottomettere alla loro approvazione obbligatoria. L’ordine giudiziario, in gran parte ignorante, in grandissima parte corrotto, soggiaceva, nel decidere, ad ogni maniera d’influenze. Bastava una cedola di banco, una lettera di raccomandazione di qualche servitore di corte o di sacrestia, o una semplice lettera d’intimidazione del ministero: sopra tutto del formidabile Delcarretto. L’ordine amministrativo, schiavo perfetto e corrotto, compiva nel rubare la sua missione niente affatto dissimulata. Chi procurava al superiore più grossi guadagni, era il più abile; e dei guadagni partecipava il re, a cui il ministro delle finanze ciascun mese portava in dono una poliza vistosa col nome di risparmi. Le cariche, che si lasciavan vuote a disegno, erano devolute a benefizio del re, il quale ne toccava il salario. Qualunque lamento era punito del carcere misterioso della polizia. Le leggi non aveano vigore e significato, fuori quello che al principe ed ai suoi valletti fosse piaciuto dar loro. La rutina, la burocrazia, il dispendio, la fiscalità, la centralizzazione la più ottusa ed infeconda, l’annullamento di tutti i diritti individuali formavano la base dell’organizzazione dello Stato. La nazione era come interdetta e nello stato di alienazione, il paese tutto una prigione inviolabile. Il cittadino non aveva per sè che doveri da compiere: il trono e l’altare pompavano i dritti di tutti. Alle provincie, ai municipii non si accordava altra forma di esistenza che quella del pagare: ogni voto di mutar condizione, di migliorare, addimandavasi ribellione. La giustizia era un’utopia sovversiva dei vecchi carbonari e de’ nuovi settarii della Giovane Italia: la giustizia era la volontà e la forza del padrone. La mise[p. 34 modifica]ria e l’ignoranza, assegnate come stato normale alla nazione, era la condizione prospera aggradevole al governo. La fame senza misura sulla scala delle sventure di quel popolo assorbiva qualunque altra forma dello spirito. Che mangiare domani? ecco il pensiero fisso ed inesorabile di otto decimi della nazione. Perciò uno scoraggiamento universale, un abbattimento disperato. Perciò lo squallore dei campi, la demoralizzazione, il languore, l’odio delle parti, il sospetto, l’ignoranza per sottrarsi a qualunque animadversione del potere, la rassegnazione violenta, la mestizia, l’incertezza terribile dell’avvenire, l’egoismo, la crudeltà, l’ateismo o la superstizione, l’aridità del cuore su tutte le sciagure, l’ipocrisia, l’avidità febbrile dei guadagni, l’assenza di ogni moralità sociale, l’aborrimento incommensurabile a qualunque manifestazione di governo, l’ansietà di cangiare, lo scetticismo di tutti i principii, quello stato mortale infine di una società che posa sulla negazione ed è vicina a dissolversi, quel periodo violento di un popolo che si sente avvelenato, si sente morire e non lo vorrebbe, si sente trascinato dalla vertigine e vorrebbe resistere, si sente attratto da una voragine e si afferra ai lembi dell’abisso, vede il suo corpo cadere a brani a brani ed ha l’anima forte, viva, direi quasi vergine nell’orgia satannica che l’attornia e la contamina, che quasi suo malgrado ha l’istinto dell’avvenire, della civiltà, della vita, della libertà, che malgrado le rovine d’onde è circondato sente il principio della resurrezione sociale vicino, sente spirare un soffio animatore attivo, potente, consolatore, che si sente schiavo, ma schiavo come Spartaco, si sente corrotto, ma corrotto come Seneca. In una parola, come [p. 35 modifica]l’eunuco del serraglio, in cui la profanazione del padrone nulla ha tolto alle eccitazioni dell’istinto solleticato dalla vista di tante bellezze, la nazione napolitana aveva subita l’azione dissolvente del governo, ma non n’era stata trasformata. La parte giovane di essa palpitava di forte vita. Questo cuore della nazione si abbandonava alla contemplazione della prosperità dei popoli transatlantici, studiava la profondità del male che la disorganizzava, malgrado tutti gl’impacci e le persecuzioni che le opponeva il governo, anelava a rompere i lacci che l’avviluppavano, cospirava, e protestava. Cospirava senza nascondersi, protestava senza temere. — Infatti nell’inverno del 1847 si pubblicava il mio Ildebrando, che rivelando l’impura origine del potere temporale del papa, severi consigli volgeva a Pio IX, e l’incapacità e l’impossibilità del principato nel XIX secolo proclamava. Nella state veniva fuori la Protesta famosa, la quale era il manifesto all’Europa della rivoluzione cui andavamo a metter mano. Libello stupendo, forte, vero, scritto dal più bravo e dal più disinteressato dei cittadini napolitani, ora col vigore ironico di Tacito, ora con lo sdegno di Giovenale, cartello di sfida mortale lanciato da un uomo di carattere veramente antico, di cui son dolente non poter segnare qui il nome, ma che pure è nella bocca e nel cuore di tutti i più nobili miei compatriotti. Alle proteste successero i fatti.