La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione quinta/Capitolo settimo

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Sezione quinta - Capitolo settimo - Corollari d'intorno alle cose romane antiche

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Sezione quinta - Capitolo settimo - Corollari d'intorno alle cose romane antiche
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[CAPITOLO SETTIMO]

corollari d’intorno alle cose romane antiche, e particolarmente del sognato regno romano monarchico e della sognata libertá popolare ordinata da giunio bruto.

662Queste tante convenienze di cose umane civili tra romani e greci, onde la storia romana antica a tante pruove si è qui truovata esser una perpetua mitologia istorica di tante, sí varie e diverse favole greche, chiunque ha intendimento (che non è né memoria né fantasia) pongono in necessitá di risolutamente affermare che, da’ tempi degli re infino a’ connubi comunicati alla plebe, il popolo romano (il popolo di Marte) si compose di soli nobili; e ch’a tal popolo di nobili il re Tulio, incominciando dall’accusa d’Orazio, permise a’ rei condennati o da’ duumviri o da’ questori l’appellagione a tutto l’ordine, quando i soli ordini eran i popoli eroici, e le plebi erano accessioni di tali popoli (quali poi le provincie restarono accessioni delle nazioni conquistatrici, come l’avverti ben il Grozio); ch’appunto è l’«altro popolo» che chiamava Telemaco i suoi plebei nell’adunanza che noi qui sopra notammo. Onde, con forza d’un’invitta critica metafisica sopra essi autori delle nazioni, si dee scuotere quell’errore: che tal caterva di vilissimi giornalieri, tenuti da schiavi, fin dalla morte di Romolo avessero l’elezione degli re, la qual poi fusse appruovata da’ padri. Il qual dee esser un anacronismo de’ tempi ne’ quali la plebe aveva giá parte nella cittá e concorreva a criare i consoli (lo che fu dopo comunicati ad essolei i connubi da’ padri), tirato da trecento anni indietro fin all’interregno di Romolo.

663Questa voce «popolo», presa de’ tempi primi del mondo delle cittá nella significazione de’ tempi ultimi (perché non poterono né filosofi né filologi immaginare tali spezie di [p. 319 modifica] severissime aristocrazie), portò di séguito due altri errori in queste due altre voci: «re» e «libertá»; onde tutti han creduto il regno romano essere stato monarchico e la ordinata da Giunio Bruto essere stata libertá popolare. Ma Gian Bodino, quantunque entrato nel volgare comun errore, nel qual eran entrati innanzi tutti gli altri politici, che prima furono le monarchie, appresso le tirannidi, quindi le repubbliche popolari e alfine l’aristocrazie (e qui vedasi, ove mancano i veri principi, che contorcimenti si possono fare, e fansi di fatto, d’umane idee!), pure, osservando nella sognata libertá popolare romana antica che gli effetti erano di repubblica aristocratica, puntella il suo sistema con quella distinzione: che ne’ tempi antichi Roma era popolare di Stato, ma che aristocraticamente fussesi governata. Con tutto ciò, pur riuscendogli contrari gli effetti e che, anco con tal puntello, la sua macchina politica pur crollava, costretto finalmente dalla forza del vero, con brutta incostanza confessa ne’ tempi antichi la repubblica romana essere stata di Stato, nonché governo, aristocratica.

664Tutto ciò vien confermato da Tito Livio, il quale, in narrando l’ordinamento fatto da Giunio Bruto de’ due consoli annali, dice apertamente e professa non essersi di nulla affatto mutato lo Stato (come dovette da sappiente far Bruto, di richiamare da tal corrottella a’ suoi principi lo Stato!), e coi due consoli annali «nihil quicquam de regia potestate deminutum»: tanto che vennero i consoli ad essere due re aristocratici annali, quali Cicerone nelle Leggi gli appella «reges annuos» (com’eran a vita quelli di Sparta, repubblica senza dubbio aristocratica); i quali consoli, com’ognun sa, erano soggetti all’appellagione durante esso loro regno (siccome gli re spartani erano soggetti all’emenda degli efori), e, finito il regno annale, erano soggetti all’accuse (conforme gli re spartani erano fatti morire dagli efori). Per lo qual luogo di Livio ad un colpo si dimostra e che ’l regno romano fu aristocratico e che la ordinata da Bruto ella fu libertá, non giá popolare, cioè del popolo da’ signori, ma signorile, cioè de’ signori da’ tiranni Tarquini. Lo che certamente Bruto non arebbe potuto fare, se non gli [p. 320 modifica] si offeriva il fatto di Lugrezia romana, ch’esso saggiamente afferrò; la qual occasione era vestita di tutte le circostanze sublimi per commuovere la plebe contro il tiranno Tarquinio, il qual aveva fatto tanto mal governo della nobiltá, ch’a Bruto fu d’uopo di riempir il senato, giá esausto per tanti senatori fatti morir dal Superbo. Nello che consegui, con saggio consiglio, due pubbliche utilitá: e rinforzò l’ordine de’ nobili giá cadente, e si conservò il favor della plebe; perché del corpo di quella dovette scegliere moltissimi, e forse gli piú feroci, ch’arebbon ostato a riordinarsi la signoria, e gli fece entrare nell’ordine de’ nobili, e cosí compose la cittá, la qual era a que’ tempi tutta divisa «inter patres et piebem».

665Se ’l precorso di tante, sí varie e diverse cagioni, quante si sono qui meditate fin dall’etá di Saturno; se ’l séguito di tanti, sí vari e diversi effetti della repubblica romana antica, i quali osserva il Bodino; e se la perpetuitá o continuazione con cui quelle cagioni influiscono in questi effetti, la quale considera Livio, non sono valevoli a stabilire che ’l regno romano fu aristocratico e che la ordinata da Bruto fu la libertá de’ signori (e ciò per attenersi alla sola autoritá), bisogna dire ch’i romani, gente barbara e rozza, avesser avuto il privilegio da Dio, che non poteron aver essi greci, gente acuta, umanissima, i quali, al narrar di Tucidide, non seppero nulla dell’antichitá loro propie fin alla guerra peloponnesiaca, che fu il tempo piú luminoso di Grecia, come osservammo sopra nella Tavola cronologica: ove dimostrammo il medesimo de’ romani fin dentro alla seconda guerra cartaginese, dalla quale Livio professa scrivere la romana storia con piú certezza, e pur apertamente confessa di non saperne tre circostanze, che sono le piú considerabili nella storia, le qual ivi si sono ancor osservate. Ma, con tutto che si conceda tal privilegio a’ romani, pure resterá di ciò un’oscura memoria, una confusa fantasia; e pertanto la mente non potrá rinniegare i raziocini che si son fatti sopra tai cose romane antiche.