La società dello spettacolo/Capitolo VIII

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8. LA NEGAZIONE E IL CONSUMO NELLA CULTURA

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Guy Debord - La società dello spettacolo (1967)
Traduzione dal francese di Pasquale Stanziale (XX secolo)
8. LA NEGAZIONE E IL CONSUMO NELLA CULTURA
Capitolo VII Capitolo IX

"Avremo dunque una rivoluzione politica? Noi, i coetanei di questi tedeschi? Amico mio, Lei crede ciò che desidera... lo giudico la Germania basandomi sulla sua storia passata e su quella contemporanea; non mi vorrà obiettare che quella storia è un falso e che la vita pubblica odierna non rispecchia la vera situazione del popolo. Legga tutti i giornali che vuole; si convincerà che non si smette, e mi vorrà concedere che la censura non impedisce ad alcuno di smettere, di inneggiare alla nostra libertà e felicità nazionale..." A. Ruge, Lettera a Marx, marzo 1843. 1


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La cultura è la sfera generale della conoscenza e delle rappresentazioni del vissuto nella società storica divisa in classi; come dire che essa è il potere di generalizzazione esistente a parte, come divisione del lavoro intellettuale e lavoro intellettuale della divisione. La cultura si è staccata dall'unità della società del mito, «quando il potere di unificazione è scomparso dalla vita dell'uomo e gli opposti hanno perduto la loro relazione e interazione vivente, e acquistano l'autonomia...» (Differenza dei sistemi di Fichte e Schelling). Guadagnandosi la propria indipendenza, la cultura inizia un movimento imperialistico di arricchimento, che è allo stesso tempo il declino della sua indipendenza. La storia che crea l'autonomia relativa della cultura, e le illusioni ideologiche su questa autonomia, si esprime anche come storia della cultura. E tutta la storia conquistatrice della cultura può essere compresa come storia della rivelazione della sua insufficienza, come una marcia verso la sua autosoppressione. La cultura è il luogo della ricerca dell'unità perduta. In questa ricerca dell'unità, la cultura come sfera separata è costretta a negare se stessa.


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La lotta della tradizione e dell'innovazione, che è il principio di sviluppo interno della cultura delle società storiche, non può essere perseguita che attraverso la vittoria permanente dell'innovazione. L'innovazione nella cultura tuttavia non è portata da nient'altro che dal movimento storico totale che, prendendo coscienza della propria totalità, tende al superamento dei propri presupposti culturali, e va verso la soppressione di ogni separazione.


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Lo sviluppo delle conoscenze della società, che contiene la comprensione della storia come il cuore della cultura, acquista di se stesso una conoscenza senza ritorno, che è espressa dalla distruzione di Dio. Ma questa «condizione preliminare d'ogni altra critica» costituisce insieme l'obbligo preliminare di una critica infinita. Là dove nessuna regola di condotta può più mantenersi, ogni risultato della cultura la fa avanzare verso la propria dissoluzione. Come per la filosofia, nel momento in cui ha guadagnato la propria piena autonomia, ogni disciplina divenuta autonoma deve scomparire, prima di tutto in quanto pretesa di spiegazione coerente della totalità sociale, e poi anche come strumentazione parcellare utilizzabile nell'ambito dei suoi limiti. La mancanza di razionalità della cultura separata è l'elemento che la condanna a scomparire, perché in essa la vittoria del razionale è già presente come esigenza.


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La cultura è originata dalla storia che ha dissolto il genere di vita del vecchio mondo, ma in quanto sfera separata essa non è ancora che l'intelligenza e la comunicazione sensibile rimaste parziali in una società parzialmente storica. Essa è il senso di un mondo troppo poco sensato.


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La fine della storia della cultura si manifesta da due opposte parti: il progetto del suo superamento nella storia totale e l'organizzazione del suo mantenimento in quanto oggetto morto nella contemplazione spettacolare. Uno di questi movimenti ha legato la propria sorte alla critica sociale e l'altro alla difesa del potere di classe.


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Ciascuno dei due lati della fine della cultura esiste in modo unitario, sia in tutti gli aspetti delle conoscenze che in tutti gli aspetti delle rappresentazioni sensibili - in ciò che era l'arte nel senso più generale. Nel primo caso si oppongono l'accumulo delle conoscenze frammentarie, che diventano inutilizzabili perché l'approvazione delle condizioni esistenti deve finalmente rinunciare alle proprie conoscenze, e la teoria della prassi, che da sola detiene la verità di tutte detenendo da sola il segreto del loro uso. Nel secondo caso si oppongono l'autodistruzione critica del vecchio linguaggio comune della società e la sua ricomposizione artificiale nello spettacolo mercantile, la rappresentazione illusoria del non-vissuto.


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Perdendo il senso della comunità della società del mito, la società deve perdere tutti i riferimenti di un linguaggio realmente comune, fino al momento in cui la scissione della comunità inattiva può venire superata dall'accesso alla reale comunità storica. L'arte, che fu questo linguaggio comune dell'inazione sociale, dal momento in cui si costituisce come arte indipendente in senso moderno, emergendo dal proprio originario universo religioso e divenendo produzione individuale di opere separate, conosce, come caso particolare, il movimento che domina la storia dell'insieme della cultura separata. La sua affermazione indipendente è l'inizio della sua dissoluzione.


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Il fatto che il linguaggio della comunicazione si è perduto, ecco ciò che esprime positivamente il movimento moderno di decomposizione di ogni arte, il suo annientamento formale. Ciò che questo movimento esprime negativamente è che un linguaggio comune deve venire ritrovato, non più nella conclusione unilaterale che, per l'arte della società storica, arrivava sempre troppo tardi, parlando ad altri di ciò che era stato vissuto senza dialogo reale, e ammettendo questa deficienza della vita, ma deve essere ritrovato nella prassi, che riunisce in essa l'attività diretta e il suo linguaggio. Si tratta di possedere effettivamente la comunità del dialogo e il gioco con il tempo che sono stati rappresentati dall'opera poetico-artistica.


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Quando l'arte divenuta indipendente rappresenta il proprio mondo con dei colori brillanti, un momento della vita è invecchiato e non si lascia ringiovanire con dei colori brillanti. Si lascia soltanto evocare nel ricordo. La grandezza dell'arte non comincia ad apparire che al venir meno della vita.


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Il tempo storico che pervade l'arte si è espresso prima di tutto nella sfera stessa dell' arte, a partire dal barocco. Il barocco è l'arte di un mondo che ha perduto il proprio centro: l'ultimo ordine mitico riconosciuto dal Medioevo, nel cosmo e ne! governo terreno - l'unità della Cristianità e il fantasma di un Impero - è caduto. L' arte del cambiamento deve portare in sé il principio effimero che si scopre nel mondo. Essa ha scelto, dice Eugenio d'Ors, «la vita contro l'eternità». Il teatro e la festa, la festa teatrale, sono i momenti dominanti della realizzazione barocca, nella quale ogni espressione artistica particolare non acquista il proprio senso se non nel riferimento allo scenario di un luogo costruito, ad una costruzione che dev'essere per se stessa il centro dell'unificazione: e questo centro è il passaggio, che è iscritto come un equilibrio minacciato nel disordine dinamico del tutto. L'importanza, talvolta eccessiva, acquisita dal concetto di barocco nella discussione estetica contemporanea, traduce la presa di coscienza dell'impossibilità di un classicismo artistico: gli sforzi in favore di un classicismo o neoclassicismo normativo, dopo tre secoli, non sono stati che delle brevi costruzioni artificiali parlanti il linguaggio esteriore dello Stato, quello della monarchia assoluta o della borghesia rivoluzionaria vestita alla romana. Dal romanticismo al cubismo, si ha alla fine un'arte della negazione sempre più individualizzata, rinnovantesi perpetuamente fino alla dispersione e alla negazione completa della sfera artistica, quella che ha seguìto il corso generale del barocco. La scomparsa dell'arte storica, che era legata alla comunicazione interna di un'élite, che aveva la propria base sociale semindipendente nelle condizioni parzialmente ludiche ancora vissute dalle ultime aristocrazie, traduce anche il fatto che il capitalismo conosce ii primo potere di classe che si mostra spogliato di ogni qualità ontologica: e la cui radice del potere, posta nella semplice gestione dell' economia, è ugualmente la perdita di ogni padronanza umana. L'insieme barocco, che per la creazione artistica è esso stesso una unità da lungo tempo perduta, si ritrova in qualche modo nel consumo attuale della totalità del passato artistico. La conoscenza e il riconoscimento storico di tutta l'arte del passato, retrospettivamente costituita in arte mondiale, la relativizzano in un disordine globale, che costituisce a sua volta un edificio barocco a un livello più elevato, edificio nel quale devono fondersi la produzione stessa di un'arte barocca e tutte le sue risorgenze. Le arti di tutte le civiltà e di tutte le epoche, per la prima volta, possono essere tutte conosciute e ammesse insieme. E' un «repertorio di ricordi» della storia dell'arte che, divenendo possibile, è anche la fine del mondo dell'arte. E' in quest'epoca di musei, quando nessuna comunicazione artistica può più esistere, che tutti i trascorsi momenti dell'arte possono essere ugualmente ammessi, perché nessuno di essi patisce più della perdita delle proprie condizioni particolari di comunicazione, nella perdita presente delle condizioni di comunicazione in generale.


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L'arte nell'epoca della sua dissoluzione, in quanto movimento negativo teso al superamento dell'arte in una società storica in cui la storia non è ancora vissuta, è allo stesso tempo un'arte del cambiamento e l'espressione pura del cambiamento impossibile. Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua vera realizzazione è al di là di essa. Quest'arte è necessariamente d'avanguardia, e non lo è. La sua avanguardia è la sua scomparsa.


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Il dadaismo e il surrealismo sono le due correnti che hanno segnato la fine dell'arte moderna. Essi sono contemporanei, anche se in modo relativamente cosciente, dell'ultimo grande assalto del movimento rivoluzionario proletario; e la sconfitta di questo movimento, che li ha lasciati rinchiusi nello stesso campo artistico di cui avevano proclamato la caducità, è la ragione fondamentale della loro immobilizzazione. Il dadaismo e il surrealismo sono allo stesso tempo storicamente legati e in opposizione. In questa opposizione, che costituisce anche ciascuno di loro la parte più conseguente e radicale del loro apporto, appare l'insufficienza interna della loro critica, sviluppata unilateralmente dall'uno come dall'altro. Il dadaismo ha voluto sopprimere l'arte senza realizzarla; e il surrealismo ha voluto realizzare l'arte senza sopprimerla. La posizione critica elaborata in seguito dai situazionisti ha mostrato che la soppressione e la realizzazione dell'arte sono gli aspetti inseparabili di un unico superamento dell'arte.


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Il consumo spettacolare che conserva la vecchia cultura congelata, compresa la ripetizione recuperata delle sue manifestazioni negative, diviene apertamente nel suo settore culturale ciò che è implicitamente nella sua totalità: la comunicazione dell'incomunicabile. La distruzione estrema del linguaggio vi si può trovare piattamente riconosciuta come un valore positivo ufficiale, perché si tratta di esibire una riconciliazione con lo stato dominante delle cose, nel quale ogni comunicazione è proclamata allegramente assente. La verità critica di questa distrazione, in quanto vita reale della poesia e dell'arte moderne, è evidentemente nascosta, perché lo spettacolo, che ha la funzione di far dimenticare la storia nella cultura, applica nella pseudonovità dei suoi mezzi modernisti la strategia stessa che lo costituisce in profondità. Può così accadere che venga a spacciarsi per nuova una scuola di neoletteratura che ammette semplicemente di contemplare lo scritto per se stesso. Oppure, a fianco della semplice proclamazione della sufficiente bellezza del dissolvimento del comunicabile, la tendenza più moderna della cultura spettacolare - e la più legata alla pratica repressiva dell'organizzazione generale della società - cerca di ricomporre, con dei «lavori collettivi», un ambiente neoartistico complesso a partire da elementi decomposti; in particolare nelle ricerche di integrazione dei frammenti artistici o degli ibridi estetico-tecnici nell'urbanismo. Questa è la traduzione sul piano della pseudocultura spettacolare, del progetto generale del capitalismo sviluppato, che mira a riprendere il lavoratore parcellare «come personalità ben integrata nel gruppo»: tendenza descritta dai recenti sociologi americani (Riesman, Whyte ecc.). Dappertutto è lo stesso progetto di una ristrutturazione senza continuità.


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La cultura diventata integralmente merce deve anche divenire la merce-vedette della società spettacolare. Clark Kerr, uno degli ideologi più avanzati di questa tendenza, ha calcolato che il complesso processo di produzione, distribuzione e consumo delle conoscenze, accaparra negli Stati Uniti già annualmente il 29% del prodotto nazionale: e prevede che la cultura debba tenere nella seconda metà di questo secolo il ruolo motore nello sviluppo dell'economia, ruolo che fu quello dell'automobile nella prima metà, e delle ferrovie nella seconda metà del secolo scorso.


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L'insieme delle conoscenze che continua attualmente a svilupparsi come pensiero dello spettacolo deve giustificare una società senza giustificazioni e costituirsi come scienza generale della falsa coscienza. Essa è interamente condizionata dal fatto che essa non può e non vuole pensare la propria base materiale nel sistema spettacolare.


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Il pensiero dell'organizzazione sociale dell'apparenza è esso stesso oscurato dalla sottocomunicazione generalizzata che esso difende. Non sa che il conflitto è all'origine di tutte le cose del suo mondo. Gli specialisti del potere dello spettacolo, potere assoluto all'interno del suo sistema di linguaggio senza risposta, sono assolutamente corrotti dalla loro esperienza del disprezzo e del successo del disprezzo; perché essi trovano il loro disprezzo confermato dalla conoscenza dell'uomo disprezzabile che è veramente lo spettatore.


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Nel pensiero specializzato del sistema spettacolare si opera una nuova divisione dei compiti, man mano che il perfezionamento stesso di questo sistema pone dei nuovi problemi: da una parte la critica spettacolare dello spettacolo è intrapresa dalla moderna sociologia, la quale studia la separazione con l'ausilio dei soli strumenti concettuali e materiali della separazione; dall'altra l'apologia dello spettacolo si costituisce come pensiero del non-pensiero, in oblio titolato della pratica storica, nelle diverse discipline in cui si radica io strutturalismo. Tuttavia, la falsa disperazione della critica non-dialettica e il falso ottimismo della pura pubblicità del sistema sono identici in quanto pensiero sottomesso.


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La sociologia che ha incominciato a mettere in discussione, prima di tutto negli Stati Uniti, le condizioni di esistenza originate dallo sviluppo attuale, malgrado abbia potuto apportare molti dati empirici, non conosce affatto la verità del proprio oggetto, perché non trova in esso la critica che gli è immanente. Di modo che la tendenza sinceramente riformista di questa sociologia non poggia se non sulla morale, sul buon senso, su richiami aleatori quanto totalmente inadeguati al fine ecc. Un tale modo di criticare, dal momento che non conosce il negativo insediato al centro del suo mondo, non fa che insistere sulla descrizione di una sorta di eccedenza negativa che gli sembra deplorabilmente ingombrarlo alla superficie, come una proliferazione parassitaria irrazionale. Questa buona volontà indignata, che anche in quanto tale non riesce a biasimare se non le conseguenze esteriori del sistema, si crede critica dimenticando il carattere essenzialmente apologetico dei suoi presupposti e del suo metodo.


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Coloro che denunciano l'assurdità o i pericoli dell'incitamento allo spreco nella società dell'abbondanza economica, non sanno a che cosa serva lo spreco. Essi condannano con ingratitudine, in nome della razionalità economica, i buoni guardiani irrazionali senza i quali il potere di questa razionalità economica crollerebbe. E Boorstin, per esempio, che descrive in L'immagine il consumo mercantile dello spettacolo americano, non raggiunge mai il concetto di spettacolo, perché egli crede di poter lasciare al di fuori di questa disastrosa esagerazione la vita privata o la nozione di «onesta merce». Egli non comprende che la merce stessa ha fatto le leggi la cui applicazione «onesta» deve condurre sia alla realtà distinta della vita privata, che alla sua ulteriore riconquista attraverso il consumo sociale delle immagini.


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Boorstin descrive gli eccessi di un mondo che ci è diventato estraneo, come eccessi estranei al nostro mondo. Ma la base «normale» della vita sociale alla quale egli si riferisce implicitamente, quando qualifica il regno superficiale delle immagini in termini di giudizio psicologico e morale come il prodotto delle «nostre stravaganti pretese», non ha nessuna realtà, né nel suo libro, né nel suo tempo. E' per il fatto che la vita umana reale di cui parla Boorstin è per lui nel passato, compreso il passato della rassegnazione religiosa, che egli non può comprendere tutta la profondità di una società dell'immagine. La verità di questa società non è altro che la negazione di questa società.


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La sociologia che crede di poter isolare dall'insieme della vita sociale una razionalità industriale funzionante a parte, può anche arrivare ad isolare dal movimento industriale globale le tecniche di riproduzione e trasmissione. E' così che Boorstin individua la causa dei risultati che egli dipinge nell'infelice incontro, quasi fortuito, tra un eccessivo apparato tecnico di diffusione e un'eccessiva attrazione degli uomini della nostra epoca per lo pseudosensazionale. Così lo spettacolo sarebbe dovuto al fatto che l'uomo moderno è troppo spettatore. Boorstin non comprende che la proliferazione degli «pseudoeventi» prefabbricati che denuncia, è originato semplicemente dal fatto che gli uomini, nella massificata realtà dell' attuale vita sociale, non vivono gli avvenimenti in modo autonomo. E' per il fatto che la storia stessa ossessiona la società moderna come uno spettro, che si ritrova della pseudostoria costruita a tutti i livelli del consumo della vita per preservare l'equilibrio minacciato dell'attuale tempo congelato.


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L'affermazione della stabilità definitiva di un breve periodo di congelamento del tempo storico costituisce la base innegabile, inconsciamente e consciamente proclamata, dell'attuale tendenza ad una sistematizzazione strutturalistica. Il punto di vista da cui si pone il pensiero antistorico dello strutturalismo è quello dell'eterna presenza di un sistema che non è mai stato creato e che non finirà mai. Il sogno della dittatura di una struttura preliminare inconscia su ogni prassi sociale ha potuto essere abusivamente ricavato dai modelli di struttura elaborati dalla linguistica e dall'etnologia (ovvero dall'analisi del funzionamento del capitalismo), modelli già abusivamente compresi in queste circostanze, semplicemente perché un pensiero universitario di quadri medi, presto soddisfatti, pensiero interamente preso nell'elogio meravigliato del sistema esistente, riporta piattamente ogni realtà all'esistenza del sistema.


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Come in ogni scienza sociale storica, bisogna sempre tenere d'occhio, per la comprensione delle categorie «strutturalistiche», che le categorie esprimono forme e condizioni di esistenza. Come non si può valutare il valore di un uomo, secondo la concezione che egli ha di se stesso, non si può valutare - e ammirare - neanche questa determinata società accettando come indiscutibilmente veridico il linguaggio che essa parla a se stessa. «Non si possono giudicare tali epoche di trasformazione secondo la coscienza che se ne ha al momento: al contrario, si devono spiegare queste forme di coscienza con le contraddizioni della vita materiale...». La struttura è figlia del potere presente. Lo strutturalismo è il pensiero garantito dallo Stato, che pensa le presenti condizioni della «comunicazione» spettacolare come un assoluto. Il suo modo di studiare il codice dei messaggi in sé non è che il prodotto e il riconoscimento di una società in cui la comunicazione esiste sotto forma di una cascata di segnali gerarchici. Non è lo strutturalismo quindi che serve a provare la validità metastorica della società dello spettacolo: è invece al contrario la società dello spettacolo, nel momento in cui s'impone come realtà di massa, che serve a provare il sogno freddo dello strutturalismo.


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Senza dubbio, il concetto critico di spettacolo può anche venire volgarizzato in una qualsiasi forma vuota della retorica sociologico-politica per spiegare e denunciare astrattamente tutto, e servire così alla difesa del sistema spettacolare. Perché è evidente che nessuna idea può portare al di là dello spettacolo esistente, ma soltanto al di là delle idee esistenti sullo spettacolo. Per distruggere effettivamente la società dello spettacolo, ci vogliono degli uomini che mettano in azione una forza pratica. La teoria critica dello spettacolo non è vera se non unificandosi con la corrente pratica della negazione nella società, e questa negazione, la ripresa della lotta di classe rivoluzionaria, diventerà cosciente di se stessa sviluppando la critica dello spettacolo, che è la teoria delle sue reali condizioni, delle condizioni pratiche dell'oppressione attuale, e che inversamente svela il segreto di ciò che essa può essere. Questa teoria non attende miracoli dalla classe operaia. Essa affronta la nuova formulazione e la realizzazione delle esigenze proletarie come un compito di lungo respiro. Per distinguere artificialmente lotta teorica e lotta pratica - dato che, sulla base qui definita, la costituzione stessa e la comunicazione di una teoria del genere non possono concepirsi senza una pratica rigorosa - è certo che il cammino oscuro e difficile della teoria critica dovrà avere lo stesso destino del movimento pratico agente sul piano della società.


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La teoria critica deve comunicarsi nel proprio linguaggio. E' il linguaggio della contraddizione, che dev'essere dialettico nella forma come lo è nel contenuto. Esso è critica della totalità e critica storica. Non è un «grado zero della scrittura», ma il suo rovesciamento. Non è una negazione dello stile, ma lo stile della negazione.


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Nel suo stesso stile, l'esposizione della teoria dialettica è uno scandalo e un abominio per le regole del linguaggio dominante e per il gusto che esse hanno educato, perché nell'impiego positivo dei concetti esistenti esso include contemporaneamente l'intelligenza della loro fluidità ritrovata, della loro necessaria distruzione.


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Questo stile che contiene in sé la propria critica deve esprimere il dominio della critica presente su tutto il suo passato. Attraverso di esso, le modalità di esposizione della teoria dialettica testimoniano dello spirito negativo che è in essa. «La verità non è come il prodotto in cui non si trovano più tracce dell'utensile» (Hegel). Questa coscienza teorica del movimento, nella quale la traccia stessa del movimento dev'essere presente, si manifesta attraverso il rovesciamento delle relazioni stabilite fra i concetti e con il détournement di tutte le acquisizioni della precedente critica. Il rovesciamento del genitivo è l'espressione delle rivoluzioni storiche, registrata nella forma del pensiero, che è stata considerata come lo stile epigrammatico di Hegel. Il giovane Marx, preconizzando, secondo l'uso sistematico che ne aveva fatto Feuerbach, la sostituzione del soggetto col predicato, è giunto all'impiego più conseguente di questo stile insurrezionale che, dalla filosofia della miseria, ricava la miseria della filosofia. Il détournement riporta alla sovversione le conclusioni critiche passate che sono state stereotipizzate in verità rispettabili, cioè trasformate in menzogne. Già Kierkegaard ne ha fatto un uso deliberato e quindi anche la denuncia: «Ma nonostante il rimestare, la marmellata va a finire sempre in dispensa, finisci sempre per far scivolare una parolina che non è tua e che turba con il ricordo che risveglia» (Briciole filosofiche). E' l'obbligo della distanza, verso ciò che è stato falsificato in verità ufficiale che determina quest'impiego del détournement, così delineato da Kierkegaard nello stesso libro: «Una sola osservazione ancora a proposito delle tue numerose allusioni, miranti tutte al fatto che io mescolo ai miei discorsi espressioni prese a prestito altrove, lo non lo nego qui, e non nasconderò neanche il fatto che era voluto, e che in un nuovo seguito a questa brochure, se mai lo scriverò, ho intenzione di nominare l'oggetto con il suo vero nome e di rivestire il problema di un costume storico».


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Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe da presso la frase di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella una falsa idea, la sostituisce con l'idea giusta.


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Il détournement è il contrario della citazione, dell'autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto che è divenuta citazione; frammento strappato dal suo contesto, dal suo movimento e infine dalla sua epoca, come riferimento globale, e dall'opzione precisa che essa era all'interno di tale riferimento, esattamente riconosciuto o erroneo. Il détournement è il linguaggio fluido dell'antideologia. Esso appare nella comunicazione che sa di non poter pretendere di detenere nessuna garanzia in se stessa e definitivamente. E', nel suo punto più alto, il linguaggio che nessun riferimento antico e sovracritico può confermare. Al contrario, è proprio la sua coerenza, in se stesso e con i fatti praticabili, che può confermare il vecchio nucleo di verità che vi riporta. Il détournement non ha fondato la propria causa su nulla di esterno alla propria verità come critica presente.


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Ciò che nella formulazione teorica si presenta apertamente come détourné, smentendo ogni autonomia durevole della sfera della teoria espressa, e facendovi intervenire mediante questa violenza l'azione che sconvolge e ribalta ogni ordine esistente, ricorda che questa esistenza della teoria non è nulla in se stessa, e non può riconoscersi che nell'azione storica e con la correzione storica che è la sua vera fedeltà.


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La negazione reale della cultura è la sola che ne conserva il senso. Essa non può più essere culturale. Pertanto, essa è ciò che resta, in qualche modo, al livello della cultura, anche se in un'accezione molto diversa.


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Nel linguaggio della contraddizione, la critica della cultura si presenta unificata: in quanto essa domina l'insieme della cultura - la conoscenza come la poesia - e in quanto non si separa più dalla critica della totalità sociale. E questa critica teorica unificata la sola che va incontro alla pratica sociale unificata.

Note

  1. In A. Ruge-K. Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di G.M. Bravo, Massari editore, Bolsena 2001, pp. 49 e 52 [n.d.r.].