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La spiaggia/XI

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X La spiaggia

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XI.

Gli dissi che piú tardi sarei andato coi miei amici e che mi lasciasse tranquillo. Se ne andò con la sua faccia tra seria e seccata, e subito mi dispiacque di averlo cosí malmenato. Ma pazienza, conclusi, impari alle sue spalle. Io ho imparato.

M’incontrai con Guido al bar. Vestiva il solito colletto aperto, i calzoni bianchi; e la falsa virilità dell’abbronzatura mi fece sorridere. Guido mi tese la mano sorridendo, e levò gli occhi ai tetti, tra furbesco e severo. — Che giornata, — disse. Era veramente un cielo e un mattino incantevole. — Prenda un marsala, professore. Stanotte, eh? — Ammiccava, non so perché, e non mi lasciava andare. — E che fa la bella Clelia? — disse.

— Vengo adesso dalla mia stanza.

— Sempre morigerato, professore.

C’incamminammo. Mi chiese se restavo ancora molto al mare. — Comincio ad averne abbastanza, — dissi. — Troppe complicazioni.

Guido non mi ascoltava, o forse non mi capí.

— Lei non ha compagnia, — disse.

— Ho gli amici.

— Non basta. Ho anch’io gli stessi amici, ma non sarei cosí in forma stamattina se avessi dormito in un letto a una piazza.

Siccome tacevo, mi spiegò che anche a lui piaceva la compagnia di Clelia, ma che il fumo non è l’arrosto.

— L’arrosto sarebbe?

Guido si mise a ridere. — Ci sono donne di carne, — disse, — e donne d’aria. Una boccata dopo pranzo fa bene. Ma bisogna prima aver mangiato.

Veramente, gli dissi, io ero al mare per Doro. [p. 323 modifica]

— A proposito, — dissi, — non dipinge piú.

— Sarebbe ora, — ribatté Guido.

Ma né Clelia né Doro vennero alla spiaggia quel mattino. Gisella né gli altri non ne sapevano nulla. A mezzogiorno m’impazientii, e approfittando che parlavano di fare una gita in barca, ritornai a vestirmi, e salii alla villa. Per la strada, nessuno. Stavo accostando il cancello, quando sbucarono sulla ghiaia Doro e un signore anziano con panama e canna, che bel bello veniva verso la strada e ascoltava non so che, rispondendo con cenni del capo. Quando fummo soli. Doro mi guardò con occhi comicamente inquieti. — Che succede? — dissi. — Succede che Clelia è incinta.

Prima di rallegrarmi, aspettai che Doro me ne desse l’avvio. Risalimmo il vialetto verso gli scalini. Doro pareva incredulo e divertito. — Insomma, sei contento, — gli dissi. — Voglio prima vedere come finisce, — brontolò. — È la prima volta che mi succede.

Clelia usciva allora dalla camera, e chiese chi c’era. Mi fece un sorriso, quasi con l’aria di scusarsi, e si portò il fazzoletto alla bocca. — Non le faccio schifo? — disse.

Poi discorremmo di quel dottore, che aveva molto parlato di responsabilità e voleva tornare con non so che strumenti per fare una diagnosi scientifica. — Che matto, — diceva Clelia.

— Macché, — sbottò Doro. — Oggi prendiamo il treno e andiamo a Genova. Ti deve visitare De Luca.

Clelia mi guardò, rassegnata. — Vede, — disse. — Comincia la paternità. Comanda lui.

Dissi che mi dispiaceva che dovesse interrompere il mare, ma che insomma era una bella cosa.

— E crede che a me non dispiaccia? — brontolò Clelia.

Doro contava sulle dita. — Piú o meno sarà...

— Smettila, — disse Clelia.

Invece non presero il treno, ma l’automobile di Guido. Doro che mi accompagnò fino in paese, mi confidò di provare una certa ripugnanza all’idea di parlarne in giro, e che avrebbe preferito una lussazione o una frattura. Cianciava con molta volubilità, facendo scherzi di cose da nulla. — Sei piú agitato di Clelia, — gli dissi. — Oh Clelia è già rassegnata, — ribatté Doro. — Mi fa rabbia, quant’è rassegnata.

— Tu non te l’aspettavi? [p. 324 modifica]

— È come giocare al lotto, — disse Doro. — Uno si è messa la bolletta in tasca e non ci pensa piú.

Quel pomeriggio quando Guido fermò la macchina al cancello, io ero con Clelia, che ci salutavamo. La guardavo girare per le stanze e fare pacchi, e la cameriera correva su e giú. Di tanto in tanto Clelia emetteva un sospiro e veniva alla finestra dov’ero appoggiato, come una padrona di casa che fa il giro degli ospiti e ad uno fra gli altri riserva gli sfoghi della stanchezza e della noia.

— Contenta di tornare a Genova? — le dissi.

Con un sorriso distratto fece di sí col capo.

— A Doro piacciono i viaggi improvvisi, — dissi. — Speriamo che sia l’ultimo.

Neanche quest’allusione Clelia non la raccolse. Disse invece che in queste cose non si può giurare di niente; poi divenne rossa e se la cavò protestando: — Oh villano.

Le dissi che avrei lasciato anch’io la spiaggia. Tornavo a casa. — Mi dispiace, — disse Clelia. Anzi, le risposi, ero contento di avere trascorso con lei la sua ultima estate di ragazza. Per un attimo Clelia ridivenne quella dei giorni andati: si fermò col capo levato e disse piano: — È vero. Che sciocca. Si dev’essere molto annoiato, poverino.

Partirono, a metà pomeriggio, con Guido che scherzava, ma siccome Clelia si mostrò subito svogliata, credo che smettesse. Mi dissero di aspettarli perché contavano di tornare entro qualche giorno: io li vidi allontanarsi con una certa tristezza. In fondo, mi spiaceva che Doro non mi avesse chiesto di fargli compagnia.

La mattina dopo, ero con Ginetta sulla spiaggia e, parlato un poco di Clelia, non sapevo piú che cosa dirle, quando certi giovanotti vennero a portarmela via. Gironzolai tra gli ombrelloni. Intravidi la Nina, e voltai al largo. Mi aspettavo Berti, da un momento all’altro.

Invece, mentre tornavo sul viale, incontrai Guido. Aveva portato allora la macchina in rimessa. Mi disse che gli sposi si trattenevano a Genova. Il loro medico era assente e Clelia aveva un poco sofferto del viaggio. — È seccante, — concluse, — quest’anno scappano tutti.

Berti, al solito, si fece vivo in trattoria. Entrò come un’ombra, e seppi di averlo davanti al tavolino prima ancora di levar gli occhi. Mi parve tranquillo. [p. 325 modifica]

Dalla sua faccia svogliata e seccata avrei detto che sapeva della partenza. Invece mi chiese se quel mattino ero andato alla spiaggia. Scambiammo qualche parola, e parlando cercavo che cosa avrei dovuto dirgli. Gli chiesi quando tornava in città.

Fece un gesto di fastidio.

— Tornano tutti, — dissi.

Quando seppe di Clelia, giocherellò con la scatola dei cerini. Non gli avevo svelato il motivo della partenza; poi mi parve mortificato — mi balenò il pensiero che si ritenesse lui la causa, per l’incidente del ballo — e allora gli dissi che secondo i suoi desideri la signora aveva fatto la buona moglie e concepito un bambino. Berti mi guardò senza sorridere; poi sorrise senza motivo, posò la scatoletta e balbettò: — Me l’aspettavo.

— È seccante, — gli dissi, — che succedano di queste cose. Le signore come Clelia non dovrebbero mai cascarci.

Senza che m’accorgessi del passaggio. Berti divenne inconsolabile. Ricordo che tornammo insieme verso casa e io tacevo, e lui taceva e girava intorno gli occhi.

— Tornerai a Torino? — gli dissi.

Ma lui voleva andare a Genova. Mi chiese in prestito i soldi del viaggio. Gli dissi se era folle. Mi rispose che avrebbe potuto mentire e chiedermeli per saldare un debito, ma che con me la sincerità era sprecata. Voleva semplicemente rivedere Clelia e salutarla.

— Cosa credi? — esclamai, — che si ricordi di te?

Allora tacque un’altra volta. Io pensavo alla stranezza della cosa: avevo i soldi del viaggio e non lo facevo. Intanto giungemmo nel viottolo, e la vista dell’ulivo m’irritò. Cominciavo a capire che nulla è piú inabitabile di un luogo dove si è stati felici. Capivo perché Doro un bel giorno aveva preso il treno per tornare fra le colline, e la mattina dopo era tornato al suo destino.

La stessa sera ci trovammo al caffè — c’erano tutti, anche Guido, anche la Nina al suo tavolino — e decisi Berti a tornare con me a Torino. Guido voleva portarci a ballare, era disposto a portare anche lui. Ma noi partimmo quella notte.