La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo CIV

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Libro primo
Capitolo CIV

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In questo poco de l’agitazion del tempo il re Francesco aveva di già inteso minutamente come il Papa mi teneva prigione e a cosí gran torto: avendo mandato per imbasciadore al Papa un certo suo gentiluomo, il quale si domandava monsignor di Morluc, iscrisse a questo che mi domandasse al Papa, come uomo di Sua Maestà. Il Papa, che era valentissimo e maraviglioso uomo, ma in questa cosa mia si portò come da poco e sciocco, e’ rispose al ditto nunzio del Re, che Sua Maestà non si curasse di me, perché io ero uomo molto fastidioso con l’arme, e per questo faceva avvertito Sua Maestà che mi lasciassi stare, perché lui mi teneva prigione per omicidii e per altre mie diavolerie cosí fatte. Il Re di nuovo rispose, che innel suo regno si teneva bonissima iustizia; e sí come Sua Maestà premiava e favoriva maravigliosamente gli uomini virtuosi, cosí per il contrario gastigava i fastidiosi; e perché Sua Santità mi avea lasciato andare, non si curando del servizio di detto Benvenuto, e vedendolo innel suo regno volentieri l’aveva preso al suo servizio; e come uomo suo lo domandava. Queste cose mi furno di grandissima noia e danno, con tutto che e’ fussino e’ piú onorati favori che si possa desiderare per un mio pari. Il Papa era venuto in tanto furore per la gelosia che gli aveva che io non andassi a dire quella iscellerata ribalderia usatami, che e’ pensava tutti e’ modi che poteva con suo onore di farmi morire. Il Castellano di Castel Sant’Agnolo si era un nostro fiorentino, il quale si domandava messer Giorgio cavaliere, degli Ugolini. Questo uomo da bene mi usò le maggior cortesie che si possa usare al mondo, lasciandomi andare libero per il Castello a fede mia sola; e perché gl’intendeva il gran torto che m’era fatto, volendogli io dare sicurtà per andarmi a spasso per il Castello, lui mi disse che non la poteva pigliare, avvenga che il Papa istimava troppo questa cosa mia; ma che si fiderebbe liberamente della fede mia, perché da ugniuno intendeva quanto io ero uomo da bene: e io gli detti la fede mia, e cosí lui mi dette comodità che io potessi lavoracchiare qualche cosa. A questo, pensando che questa indegnazione del Papa, sí per la mia innocenzia, ancora per i favori del Re, si dovessi terminare, tenendo pure la mia bottega aperta, veniva Ascanio mio garzone in Castello, e portavami alcune cose da lavorare. Benché poco io potessi lavorare, vedendomi a quel modo carcerato a cosí gran torto; pure facevo della necessità virtú: lietamente il meglio che io potevo mi comportavo questa mia perversa fortuna. Avevomi fatto amicissimi tutte quelle guardie e molti soldati del Castello. E perché il Papa veniva qualche volta a cena in Castello, e in questo tempo che c’era il Papa il Castello non teneva guardie, ma stava liberamente aperto come un palazzo ordinario; e perché in questo tempo che il Papa stava cosí, tutti e’ prigioni si usavono con maggior diligenza riserrare; onde a me non era fatto nessuna di queste cotal cose, ma liberamente in tutti questi tempi io me ne andavo per il Castello; e piú volte alcuni di quei soldati mi consigliavano che io mi dovessi fuggire, e che loro mi arieno fatte spalle, conosciuto il gran torto che m’era fatto: ai quali io rispondevo che io avevo dato la fede mia al Castellano, il quale era uomo tanto dabbene, e che mi aveva fatto cosí gran piaceri. Eraci un soldato molto bravo e molto ingegnoso; e’ mi diceva: - Benvenuto mio, sappi che chi è prigione non è ubrigato né si può ubrigare a osservar fede, sí come nessuna altra cosa; fa’ quel che io ti dico; fúggiti da questo ribaldo di questo Papa e da questo bastardo suo figliuolo, i quali ti torranno la vita a ogni modo -. Io che m’ero proposto piú volentieri perder la vita, che mancare a quello uomo da bene del Castellano della mia promessa fede, mi comportavo questo inistimabil dispiacere, insieme con un frate di casa Palavisina grandissimo predicatore.