La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo CIX

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Libro primo
Capitolo CIX

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Per tornare al mio letto, quando il Bozza e il Pedignione venivano, mai dicevo loro altro, se non che stessin discosto dal mio letto, acciò che e’ non me lo inbrattassino e non me lo guastassino; dicendo loro, per qualche occasione che pure per ischerno qualche volta che cosí leggermente mi toccavano un poco il letto, per che io dicevo: - Ah i sudici poltroni! io metterò mano a una di coteste vostre spade, e farovvi tal dispiacere, che io vi farò maravigliare. Parv’egli esser degni di toccare il letto d’un mio pari? A questo io non arò rispetto alla vita mia, perché io son certo che io vi torrò la vostra; sí che lasciatemi stare colli mia dispiaceri e colle mia tribulazione, e non mi date piú affanno di quello che io mi abbia; se non che io vi farò vedere che cosa sa fare un disperato -. Queste parole costoro le ridissono al Castellano, il quale comandò loro ispressamente che mai non s’accostassino a quel mio letto, e che, quando e’ venivano da me, venissino sanza spade, e che m’avessino benissimo cura del resto. Essendomi io assicurato del letto, mi parve aver fatto ogni cosa: perché quivi era la importanza di tutta la mia faccenda. Una sera di festa in fra l’altre, sentendosi il Castellano molto mal disposto e quelli sua omori cresciuti, non dicendo mai altro se non che era pipistrello, e che se lor sentissino che Benvenuto fossi volato via, lasciassino andar lui, che mi raggiugnerebbe, poiché e’ volerebbe di notte ancora lui certamente piú forte di me, dicendo: - Benvenuto è un pipistrello contrafatto, e io sono un pipistrello dadovero; e perché e’ m’è stato dato in guardia, lasciate pur fare a me, che io lo giugnerò ben io -. Essendo stato piú notti in questo umore, gli aveva stracco tutti i sua servitori; e io per diverse vie intendevo ogni cosa, massimo da quel Savoino che mi voleva bene. Resolutomi questa sera di festa a fuggirmi a ogni modo, in prima divotissimamente a Dio feci orazione, pregando Sua divina Maestà, che mi dovessi difendere e aiutare in quella tanta pericolosa inpresa; di poi messi mano a tutte le cose che io volevo operare, e lavorai tutta quella notte. Come io fu’ a dua ore innanzi il giorno, io cavai quelle bandelle con grandissima fatica, perché il battente del legno della porta, e anche il chiavistello facevano un contrasto, il perché io non potevo aprire: ebbi a smozzicare il legno; pure alla fine io apersi, e messomi adosso quelle fascie, quale io avevo avvolte a modo di fusi di accia in su dua legnetti, uscito fuora, me ne andai dalli destri del mastio; e scoperto per di drento dua tegoli del tetto, subito facilmente vi saltai sopra. Io mi trovavo in giubbone bianco e un paio di calze bianche e simile un paio di borzachini, inne’ quali avevo misso quel mio pugnalotto già ditto. Di poi presi un capo di quelle mie fascie e l’accomandai a un pezzo di tegola antica ch’era murata innel ditto mastio: a caso questa usciva fuori a pena quattro dita. Era la fascia acconcia a modo d’una staffa. Appiccata che io l’ebbi a quel pezzo della tegola, voltomi a Dio, dissi: - Signore Idio, aiuta la mia ragione, perché io l’ho, come tu sai, e perché io mi aiuto -. Lasciatomi andare pian piano, sostenendomi per forza di braccia, arrivai in sino in terra. Non era lume di luna, ma era un bel chiarore. Quando io fui in terra, guardai la grande altezza che io avevo isceso cosí animosamente, e lieto me ne andai via, pensando d’essere isciolto. Per la qual cosa non fu vero, perché il Castellano da quella banda aveva fatto fare dua muri assai bene alti, e se ne serviva per istalla e per pollaio: questo luogo era chiuso con grossi chiavistelli per di fuora. Veduto che io non potevo uscir di quivi, mi dava grandissimo dispiacere. In mentre che io andavo innanzi e indietro pensando ai fatti mia, detti dei piedi in una gran pertica, la quale era coperta dalla paglia. Questa con gran difficultà dirizzai a quel muro; di poi a forza di braccia la salsi insino in cima del muro. E perché quel muro era tagliente, io non potevo aver forza da tirar sú la ditta pertica; però mi risolsi a ’piccare un pezzo di quelle fascie, che era l’altro fuso, perché uno de’ dua fusi io l’avevo lasciato attaccato al mastio del Castello: cosí presi un pezzo di quest’altra fascia, come ho detto, e legatala a quel corrente, iscesi questo muro, il qual mi dette grandissima fatica e mi aveva molto istracco, e di piú avevo iscorticato le mane per di drento, che sanguinavano; per la qual cosa io m’ero messo a riposare, e mi avevo bagnato le mane con la mia orina medesima. Stando cosí, quando e’ mi parve che le mie forze fussino ritornate, salsi all’ultimo procinto delle mura, che guarda in verso Prati; e avendo posato quel mio fuso di fascie, col quale io volevo abbracciare un merlo, e in quel modo che io avevo fatto innella maggior altezza, fare in questa minore; avendo, come io dico, posato la mia fascia, mi si scoperse adosso una di quelle sentinelle che facevano la guardia. Veduto impedito il mio disegno, e vedutomi in pericolo della vita, mi disposi di affrontare quella guardia; la quale, veduto l’animo mio diliberato e che andavo alla volta sua con armata mano, sollecitava il passo, mostrando di scansarmi. Alquanto iscostatomi dalle mie fascie, prestissimo mi rivolsi indietro; e se bene io viddi un’altra guardia, tal volta quella non volse veder me. Giunto alle mie fascie, legatole al merlo, mi lasciai andare; per la qual cosa, o sí veramente parendomi essere presso a terra, avendo aperto le mane per saltare, o pure erano le mane istracche, non possendo resistere a quella fatica, io caddi, e in questo cader mio percossi la memoria e stetti isvenuto piú d’un’ora e mezzo, per quanto io posso giudicare. Di poi, volendosi far chiaro il giorno, quel poco del fresco che viene un’ora innanzi al sole, quello mi fece risentire; ma sí bene stavo ancora fuor della memoria, perché mi pareva che mi fussi stato tagliato il capo, e mi pareva d’essere innel purgatorio. Stando cosí, a poco a poco mi ritornorno le virtú innell’esser loro, e m’avviddi che io ero fuora del Castello, e subito mi ricordai di tutto quello che io avevo fatto. E perché la percossa della memoria io la senti’ prima che io m’avvedessi della rottura della gamba, mettendomi le mane al capo ne le levai tutte sanguinose: di poi cercatomi bene, cognobbi e giudicai di non aver male che d’importanza fussi; però, volendomi rizzare di terra, mi trovai tronca la mia gamba ritta sopra il tallone tre dita. Né anche questo mi sbigottí: cavai il mio pugnalotto insieme con la guaina; che per avere questo un puntale con una pallottola assai grossa in cima del puntale, questo era stato la causa dell’avermi rotto la gamba; perché contrastando l’ossa con quella grossezza di quella pallottola, non possendo l’ossa piegarsi, fu causa che in quel luogo si roppe: di modo che io gittai via il fodero del pugnale, e con il pugnale tagliai un pezzo di quella fascia che m’era avanzata, e il meglio che io possetti rimissi la gamba insieme, di poi carpone con il detto pugnale in mano andavo inverso la porta. Per la qual cosa giunto alla porta, io la trovai chiusa; e veduto una certa pietra sotto la porta a punto, la quale, giudicando che la non fussi molto forte, mi provai a scalzarla; di poi vi messi le mane, e sentendola dimenare, quella facilmente mi ubbidí, e trassila fuora; e per quivi entrai.