La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXVII

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Libro primo
Capitolo LXVII

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In mentre che il detto era ancora in terra, e che alcuni si davano da fare per portarlo via, passava quel Pompeo gioielliere già ditto di sopra. Questo il Papa aveva mandato per lui per alcune sue faccende di gioie. Vedendo quell’uomo mal condotto, domandò chi gli aveva dato. Di che gli fu detto: - Benvenuto gli ha dato, perché questa bestia se l’ha cerche -. Il detto Pompeo, prestamente giunto che fu al Papa, gli disse: - Beatissimo padre, Benvenuto adesso adesso ha ammazzato Tubbia; che io l’ho veduto con li mia occhi -. A questo il Papa infuriato comesse al Governatore, che era quivi alla presenza, che mi pigliassi, e che m’impiccassi subito innel luogo dove si era fatto l’omicidio, e che facessi ogni diligenzia a avermi, e non gli capitassi innanzi prima che lui mi avessi impiccato. Veduto che io ebbi quello sventurato in terra, subito pensai a’ fatti mia, considerato alla potenzia de’ mia nimici, e quel che di tal cosa poteva partorire. Partitomi di quivi, me ne ritirai a casa misser Giovanni Gaddi cherico di Camera; volendomi metter in ordine il piú presto che io potevo, per andarmi con Dio. Alla qual cosa, il detto misser Giovanni mi consigliava che io non fussi cosí furioso a partirmi, ché tal volta potria essere che ’l male non fussi tanto grande quanto e’ mi parve: e fatto chiamare messer Anibal Caro, il quale stava seco, gli disse che andassi a ’ntendere il caso. Mentre che di questa cosa si dava i sopraditti ordini, conparse un gentiluomo romano che stava col cardinal de’ Medici e da quello mandato. Questo gentiluomo, chiamato a parte misser Giovanni e me, ci disse che il Cardinale gli aveva detto quelle parole che gli aveva inteso dire al Papa, e che non aveva rimedio nessuno da potermi aiutare, e che io facessi tutto il mio potere di scampar questa prima furia, e che io non mi fidassi in nessuna casa di Roma. Subito partitosi il gentiluomo, il ditto misèr Giovanni guardandomi in viso, faceva segno di lacrimare, e disse: - Oimè, tristo a me! che io non ho rimedio nessuno a poterti aiutare! - Allora io dissi: - Mediante Idio, io mi aiuterò ben da me; solo vi richieggo che voi mi serviate di un de’ vostri cavalli -. Era di già messo in ordine un caval morello turco, il piú bello e il miglior di Roma. Montai in sun esso con uno archibuso a ruota dinanzi a l’arcione, stando in ordine per difendermi con esso. Giunto che io fui a ponte Sisto, vi trovai tutta la guardia del bargello a cavallo e a piè; cosí faccendomi della necessità virtú, arditamente spinto modestamente il cavallo, merzé di Dio oscurato gli occhi loro, libero passai, e con quanta piú fretta io potetti me ne andai a Palombara, luogo del signor Giovanbatista Savello, e di quivi rimandai il cavallo a misser Giovanni, né manco volsi ch’egli sapessi dove io mi fussi. Il detto signor Gianbatista, carezzato ch’egli m’ebbe dua giornate, mi consigliò che io mi dovessi levar di quivi e andarmene alla volta di Napoli, per tanto che passassi questa furia; e datomi compagnia, mi fece mettere in sulla strada di Napoli, in su la quale io trovai uno scultore mio amico, che se ne andava a San Germano a finire la seppoltura di Pier de’ Medici a Monte Casini. Questo si chiamava per nome il Solosmeo: lui mi dette nuove, come quella sera medesima papa Clemente aveva mandato un suo cameriere a intendere come stava Tubbia sopraditto; e trovatolo a lavorare, e che in lui non era avvenuto cosa nissuna, né manco non sapeva nulla, referito al Papa, il ditto si volse a Pompeo e gli disse: - Tu sei uno sciagurato, ma io ti protesto bene, che tu hai stuzzicato un serpente, che ti morderà e faratti il dovere -. Di poi si volse al cardinal de’ Medici, e gli commisse che tenessi un poco di conto di me, che per nulla lui non mi arebbe voluto perdere. Cosí il Solosmeo e io ce ne andavamo cantando alla volta di Monte Casini, per andarcene a Napoli insieme.