La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXXXV

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Libro primo
Capitolo LXXXV

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Era la infirmità stata tanta inistimabile, che non pareva possibile di venirne a fine; e quello uomo da bene di maestro Francesco da Norcia ci durava piú fatica che mai, e ogni giorno mi portava nuovi rimedii, cercando di consolidare il povero istemperato istrumento, e con tutte quelle inistimabil fatiche non pareva che fussi possibile venire a capo di questa indegnazione, in modo che tutti e’ medici se ne erano quasi disperati e non sapevano piú che fare. Io, che avevo una sete inistimabile, e mi ero riguardato, sí come loro mi avevano ordinato, di molti giorni: e quel Felice, che gli pareva aver fatto una bella impresa a camparmi, non si partiva mai da me; e quel vecchio non mi dava piú tanta noia, ma in sogno qualche volta mi visitava. Un giorno Felice era andato fuora, e a guardia mia era restato un mio fattorino e una serva, che si chiamava Beatrice. Io dimandavo quel fattorino quel che era stato di quel Cencio mio ragazzo e che voleva dire che io non lo avevo mai veduto a’ mia bisogni. Questo fattorino mi disse che Cencio aveva aùto assai maggior male di me, e che gli stava in fine di morte. Felice aveva lor comandato che non me lo dicessino. Detto che m’ebbe tal cosa io ne presi grandissimo dispiacere: di poi chiamai quella serva detta Beatrice, pistolese, e la pregai che mi portassi pieno d’acqua chiara e fresca uno infrescatoio grande di cristallo, che ivi era vicino. Questa donna corse subito, e me lo portò pieno. Io li dissi che me lo appoggiassi alla bocca e che se la me ne lasciava bere una sorsata a mio modo, io li donerei una gammurra. Questa serva, che m’aveva rubato certe cosette di qualche inportanza, per paura che non si ritrovassi il furto, arebbe aùto molto a caro che io fussi morto; di modo che la mi lasciò bere di quell’acqua per dua riprese quant’io potetti, tanto che buonamente io ne bevvi piú d’un fiasco: di poi mi copersi e cominciai a sudare e addormenta’mi. Tornato Felice di poi che io dovevo aver dormito in circa a un’ora, dimandò il fanciullo quel che io facevo. Il fanciullo gli disse: - Io non lo so: la Beatrice gli ha portato pieno quello infrescatoio d’acqua, e l’ha quasi beuto tutto; io non so ora se s’è morto o vivo -. Dicono che questo povero giovane fu per cadere in terra per il gran dispiacere che gli ebbe; di poi prese un mal bastone, e con esso disperatamente bastonava quella serva, dicendo: - Ohimè, traditora, che tu me l’hai morto! – In mentre che Felice bastonava e lei gridava, e io sognavo; e mi pareva che quel vecchio aveva delle corde in mano, e volendo dare ordine di legarmi, Felice l’aveva sopraggiunto e gli dava con una scura, in modo che questo vecchio fuggiva, dicendo: - Lasciami andare, che io non ci verrò di gran pezzo -. Intanto la Beatrice gridando forte era corsa in camera mia; per la qual cosa svegliatomi, dissi: - Lasciala stare, che forse per farmi male ella m’ha fatto tanto bene, che tu non hai mai potuto, con tutte le tue fatiche, far nulla di quel che l’ha fatto ogni cosa: attendetemi a ’iutare, che io son sudato; e fate presto -. Riprese Filice animo, mi rasciugò e confortò: e io, che senti’ grandissimo miglioramento, mi promessi la salute. Comparso maestro Francesco, veduto il gran miglioramento e la serva piagnere, e ’l fattorino correre innanzi e ’ndrieto, e Filice ridere, questo scompiglio dette da credere al medico che vi fussi stato qualche stravagante caso, per la qual cosa fussi stato causa di quel mio gran miglioramento. Intanto comparse quell’altro maestro Bernardino, che da principio non mi aveva voluto cavar sangue. Maestro Francesco, valentissimo uomo, disse: - Oh potenzia della natura! lei sa e’ bisogni sua, e i medici non sanno nulla -. Subito rispose quel cervellino di maestro Bernardino e disse: - Se e’ ne beeva piú un fiasco, e gli era subito guarito -. Maestro Francesco da Norcia, uomo vecchio e di grande autorità, disse: - Egli era il malan che Dio vi dia -. E poi si volse a me, e mi domandò se io ne arei potuto ber piú; al quale io dissi che no, perché io m’ero cavato la sete a fatto. Allora lui si volse al ditto maestro Bernardino e disse: - Vedete voi che la natura aveva preso a punto il suo bisogno, e non piú e non manco? Cosí chiedev’ella il suo bisogno, quando il povero giovane vi richiese di cavarsi sangue: se voi cognoscevi che la salute sua fussi stata ora innel bere dua fiaschi d’acqua, perché non l’aver detto prima? e voi ne aresti aùto il vanto -. A queste parole il mediconsolo ingrognato si partí, e non vi capitò mai piú. Allora maestro Francesco disse che io fussi cavato di quella camera, e che mi facessin portare inverso un di quei colli di Roma. Il cardinal Cornaro, inteso il mio miglioramento, mi fece portare a un suo luogo che gli aveva in Monte Cavallo: la sera medesima io fui portato con gran diligenza in sur una sedia ben coperto e saldo. Giunto che io fui, cominciai a vomitare; innel qual vomito mi uscí dello stomaco un verme piloso, grande un quarto di braccio: e’ peli erano grandi e il verme era bruttissimo, macchiato di diversi colori, verdi, neri e rossi: serbossi al medico; il quale disse non aver mai veduto una tal cosa, e poi disse, a Felice: - Abbi or cura al tuo Benvenuto, che è guarito, e non gli lasciar far disordini; perché se ben quello l’ha campato, un altro disordine ora te lo amazzerebbe. Tu vedi, la infermità è stata sí grande, che portandogli l’olio santo noi non eramo stati a tempo; ora io cognosco, che con un poco di pazienzia e di tempo e’ farà ancora dell’altre belle opere -. Poi si volse a me, e disse: - Benvenuto mio, sia savio e non fare disordini nessuno: e come tu se’ guarito voglio che tu mi faccia una Nostra Donna di tua mano, perché la voglio adorar sempre per tuo amore -. Allora io gnene promessi; dipoi lo domandai se fussi bene che io mi trasferissi in sino a Firenze. Allora e’ mi disse che io mi assicurassi un po’ meglio e che e’ si vedessi quel che la natura faceva.