La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XCIII

Da Wikisource.
Libro primo
Capitolo XCIII

../Capitolo XCII ../Capitolo XCIV IncludiIntestazione 16 luglio 2008 75% Autobiografie

Libro primo - Capitolo XCII Libro primo - Capitolo XCIV

Attesi a finire il mio libretto; e finito che io l’ebbi, lo portai dal Papa, il quale veramente non si potette tenere che egli non me lo lodassi grandemente. Al quale io dissi che mi mandassi a portarlo come lui mi aveva promesso. Il Papa mi rispose, che farebbe quanto gli venissi bene di fare e che io avevo fatto quel che s’apparteneva a me. Cosí dette commessione che io fossi ben pagato. Delle quale opere in poco piú di dua mesi io mi avanzai cinquecento scudi: il diamante mi fu pagato a ragion di cencinquanta scudi e non piú; tutto il restante mi fu dato per fattura di quel libretto, la qual fattura ne meritava piú di mille, per essere opera ricca di assai figure e fogliami e smalti e gioie. Io mi presi quel che io possetti avere, e feci disegno di andarmi con Dio di Roma. In questo il Papa mandò il detto libretto allo Imperadore per un suo nipote domandato il signore Sforza, il quale presentando il libro allo Imperadore, lo Imperatore l’ebbe gratissimo, e subito domandò di me. Il giovanetto signore Sforza, ammaestrato, disse che per essere io infermo non ero andato. Tutto mi fu ridetto.

Intanto messomi io in ordine per andare alla volta di Francia; e me ne volevo andare soletto; ma non possetti, perché un giovanetto che stava meco, il quale si domandava Ascanio; questo giovane era di età molto tenera ed era il piú mirabil servitore che fossi mai al mondo; e quando io lo presi, e’ s’era partito da un suo maestro, che si domandava Francesco, che era spagnolo e orefice. Io, che non arei voluto pigliare questo giovanetto per non venire in contesa con il detto spaguolo, dissi a Ascanio: - Non ti voglio, per non fare dispiacere al tuo maestro -. E’ fece tanto che il maestro suo mi scrisse una polizza, che liberamente io lo pigliassi. Cosí era stato meco di molti mesi; e per essersi partito magro e spunto, noi lo domandavamo il Vecchino; e io pensavo che fossi un vecchino, sí perché lui serviva tanto bene; e perché gli era tanto saputo, non pareva ragione che innell’età di tredici anni, che lui diceva di avere, vi fussi tanto ingegno. Or per tornare, costui in quei pochi mesi messe persona, e ristoratosi dallo istento divenne il piú bel giovane di Roma, e sí per essere quel buon servitor che io ho detto, e perché gl’imparava l’arte maravigliosamente, io gli posi uno amore grandissimo come figliuolo, e lo tenevo vestito come se figliuolo mi fussi stato. Vedutosi il giovane restaurato, e’ gli pareva avere aùto una gran ventura a capitarmi alle mane. Andava ispesso a ringraziare il suo maestro, che era stato causa del suo gran bene; e perché questo suo maestro aveva una bella giovane per moglie, lei diceva: - Surgetto, che hai tu fatto che tu sei diventato cosí bello? - e cosí lo chiamavano quando gli stava con esso loro. Ascanio rispose a lei: - Madonna Francesca, è stato lo mio maestro che mi ha fatto cosí bello e molto piú buono -. Costei velenosetta l’ebbe molto per male che Ascanio dicessi cosí: e perché lei aveva nome di non pudica donna, seppe fare a questo giovanetto qualche carezza forse piú là che l’uso de l’onestà; per la qual cosa io mi avvedevo che molte volte questo giovanetto andava piú che ’l solito suo a vedere la sua maestra. Accadde, che avendo un giorno dato malamente delle busse a un fattorino di bottega, il quale, giunto che io fui, che venivo di fuora, il detto fanciullo piagnendo si doleva, dicendomi che Ascanio gli aveva dato sanza ragion nessuna. Alle qual parole io dissi a Ascanio: - O con ragione o senza ragione, non ti venga mai piú dato a nessun di casa mia, perché tu sentirai in che modo io so dare io -. Egli mi rispose: onde io subito mi gli gittai addosso, e gli detti di pugna e calci le piú aspre busse che lui sentissi mai. Piú tosto che lui mi possette uscir delle mane, sanza cappa e sanza berretta fuggí fuora, e per dua giorni io non seppi mai dove lui si fussi, né manco ne cercavo, se none in capo di dua giorni mi venne a parlare un gentiluomo spagnuolo, il quale si domandava don Diego. Questo era il piú liberale uomo che io conoscessi mai al mondo; io gli avevo fatte e facevo alcune opere, di modo che gli era assai mio amico. Mi disse che Ascanio era tornato col suo vecchio maestro, e che, se e’ mi pareva, che io gli dessi la sua berretta e cappa che io gli avevo donata. A queste parole io dissi che Francesco si era portato male, e che gli aveva fatto da persona malcreata; perché se lui m’avessi detto subito che Ascanio fu andato dallui, sí come lui era in casa sua, io molto volentieri gli arei dato licenzia; ma per averlo tenuto dua giorni, poi né me lo fare intendere, io non volevo che gli stessi seco; e che facessi che io non io vedessi in modo alcuno in casa sua. Tanto riferí don Diego: per la qual cosa il detto Francesco se ne fece beffe. L’altra mattina seguente io vidi Ascanio, che lavorava certe pappolate di filo accanto al ditto maestro. Passando io, il ditto Ascanio mi fece riverenzia, e il suo maestro quasi che mi derise. Mandommi a dire per quel gentiluomo don Diego che, se a me pareva, che io rimandassi a Ascanio e’ panni che io gli avevo donati; quando che no, non se ne curava, e che a Ascanio non mancheria panni. A queste parole io mi volsi a don Diego e dissi: - Signor don Diego, in tutte le cose vostre io non viddi mai né il piú liberale né il piú dabbene di voi; ma cotesto Francesco è tutto il contrario di quel che voi siete, perché gli è un disonorato marrano. Ditegli cosí da mia parte, che se innanzi che suoni vespro lui medesimo non m’ha rimenato Ascanio qui alla bottega mia, io l’ammazzerò a ogni modo; e dite a Ascanio, che se lui non si leva di quivi in quell’ora consacrata al suo maestro, che io farò a lui poco manco -. A queste parole quel signor don Diego non mi rispose niente, anzi andò e messe in opera cotanto spavento al ditto Francesco, che lui non sapeva che farsi. Intanto Ascanio era ito a cercar di suo padre, il quale era venuto a Roma da Tagliacozzi, di donde gli era; e sentendo questo scompiglio, ancora lui consigliava Francesco che dovessi rimenare Ascanio a me. Francesco diceva a Ascanio: - Vavvi da te, e tuo padre verrà teco -. Don Diego diceva: - Francesco, io veggo qualche grande scandolo: tu sai meglio di me chi è Benvenuto; rimènagnene sicuramente, e io verrò teco -. Io che m’ero messo in ordine, passeggiavo per bottega aspettando il tocco di vespro, dispostomi di fare una delle piú rovinose cose che in tempo di mia vita mai fatta avessi. In questo sopraggiunse don Diego, Francesco e Ascanio, e il padre, che io non conosceva. Entrato Ascanio, io che gli guardavo tutti con l’occhio della stizza, Francesco di colore ismorto disse: - Eccovi rimenato Ascanio, il quale io tenevo, non pensando farvi dispiacere -. Ascanio reverentemente disse: - Maestro mio, perdonatemi; io son qui per far tutto quello che voi mi comanderete -. Allora io dissi: - Se’ tu venuto per finire il tempo che tu m’hai promesso? - Disse di sí, e per non si partir mai piú da me. Io mi volsi allora e dissi a quel fattorino, a chi lui aveva dato, che gli porgessi quel fardello de’ panni: e allui dissi: - Eccoti tutti e’ panni che io t’avevo donati, e con essi abbi la tua libertà e va dove tu vuoi -. Don Diego restato maravigliato di questo, ché ogni altra cosa aspettava. In questo, Ascanio insieme col padre mi pregava che io gli dovessi perdonare e ripigliarlo. Domandato chi era quello che parlava per lui, mi disse esser suo padre; al quale di poi molte preghiere dissi: - E per esser voi suo padre, per amor vostro lo ripiglio.