La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XCIX

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Libro primo
Capitolo XCIX

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Passato che noi avemmo li monti del Sanpione detto, trovammo un fiume presso a un luogo domandato Indevedro. Questo fiume era molto largo, assai profondo, e sopra esso aveva un ponticello lungo e stretto, sanza sponde. Essendo la mattina una brinata molto grossa, giunto al ponte, che mi trovavo innanzi a tutti, e conosciutolo molto pericoloso, comandai alli mia giovani e servitori che scavalcassino, menando li lor cavalli a mano. Cosí passai il detto ponte molto felicemente, e me ne venivo ragionando con un di quei dua franzesi, il quale era un gentiluomo: quell’altro era un notaro, il quale era restato a dietro alquanto, e dava la baia a quel gentiluomo franzese e a me, che per paura di nonnulla avevàno voluto quel disagio de l’andar a piede. Al quale io mi volsi, vedutolo in sul mezzo del ponte, e lo pregai che venissi pianamente, per che egli era in luogo molto pericoloso. Questo uomo, che non potette mancare alla sua franciosa natura, mi disse in francioso che io era uomo di poco animo, e che quivi non era punto di pericolo. Mentre che diceva queste parole, volse pugnere un poco il cavallo, per la qual cosa subito il cavallo isdrucciolò fuor del ponte, e con le gambe inverso il cielo cadde a canto a un sasso grossissimo. E perché Idio molte volte è misericordioso de’ pazzi, questa bestia insieme con l’altra bestia e suo cavallo dettono innun tonfano grandissimo, dove gli andorno sotto, e lui e il cavallo. Subito veduto questo, con grandissima prestezza io mi cacciai a correre, e con gran difficoltà saltai in su quel sasso, e spenzolandomi da esso, aggiunsi un lembo d’una guarnacca che aveva adosso quest’uomo, e per quel lembo lo tirai su, che ancora stava coperto dall’acqua; e perché gli aveva beuto assai acqua, e poco stava che saria affogato, io, vedutolo fuor del pericolo, mi rallegrai seco d’avergli campato la vita. Per la qual cosa costui mi rispose in franzese e mi disse che io non avevo fatto nulla; che la importanza si era le sue scritture, che valevan di molte dicine di scudi: e pareva che queste parole costui me le dicesse in còllora, tutto molle e barbugliando. A questo, io mi volsi a certe guide che noi avevamo, e commissi che aiutassino quella bestia, e che io gli pagherei. Una di quelle guide virtuosamente e con gran fatica si mise a ’iutarlo, e ripescògli le sue scritture, tanto che lui non perse nulla; quell’altra guida mai non volse durar fatica nissuna a ’iutarlo. Arrivati che noi fummo poi a quel luogo sopra ditto - noi avevamo fatto una borsa, la quale era tocca a spendere a me - desinato che noi avemmo, io detti parecchi danari della borsa della compagnia a quella guida, che aveva aiutato trar colui dell’acqua; per la qual cosa costui mi diceva, che quei danari io gliene darei del mio, che non intendeva di dargli altro che quel che noi eramo d’accordo, d’aver fatto l’uffizio della guida. A questo, io gli dissi molte ingiuriose parole. Allora mi si fece incontro l’altra guida, qual non aveva durato fatica, e voleva pure che io pagassi anche lui; e perché io dissi: - Ancora costui merita il premio per aver portato la croce, - mi rispose, che presto mi mostrerebbe una croce, alla quale io piagnerei. Allui dissi che io accenderei un moccolo a quella croce, per il quale io speravo che allui toccherebbe il primo a piagnere. E perché questo è luogo di confini infra i Veniziani e Tedeschi, costui corse per populi, e veniva con essi con un grande ispiede inanzi. Io, che ero in sul mio buon cavallo, abbassai il fucile in sul mio archibuso: voltomi a’ compagni, dissi: - Al primo ammazzo colui; e voi altri fate il debito vostro, perché quelli sono assassini di strada, e hanno preso questo poco dell’occasione solo per assassinarci -. Quell’oste, dove noi avevamo mangiato, chiamò un di quei caporali, ch’era vecchione, e lo pregò che rimediasse a tanto inconveniente, dicendogli: - Questo è un giovine bravissimo, e se bene voi lo taglierete a pezzi, e ne ammazzerà tanti di voi altri, e forse potria scaparvi delle mani, da poi fatto il male che gli arà -. La cosa si quietò, e quel vecchio capo di loro mi disse: - Va in pace, che tu non faresti una insalata, se tu avessi ben cento uomini teco -. Io che conoscevo che lui diceva la verità e mi ero risoluto di già e fattomi morto, non mi sentendo dire altre parole ingiuriose, scotendo il capo, dissi: - Io arei fatto tutto il mio potere, mostrando essere animal vivo e uomo - e preso il viaggio, la sera al primo alloggiamento, facemmo conto della borsa, e mi divisi da quel francioso bestiale, restando molto amico di quell’altro che era gentiluomo; e con i mia tre cavalli, soli ce ne venimmo a Ferrara. Scavalcato che io fui, me ne andai in Corte del Duca per far reverenzia a Sua Eccellenzia, per potermi partir la mattina alla volta di Santa Maria dal Loreto. Avevo aspettato insino a dua ore di notte, e allora comparse il Duca: io gli baciai le mane; mi fece grande accoglienze, e commisse che mi fussi dato l’acqua alle mane. Per la qual cosa io piacevolmente dissi: - Eccellentissimo signore, egli è piú di quattro mesi che io non ho mangiato tanto, che sia da credere che con tanto poco si viva; però, cognosciutomi che io non mi potrei confortare de’ reali cibi della sua tavola, mi starò cosí ragionando con quella, in mentre che Vostra Eccellenzia cena, e lei e io a un tratto medesimo aremo piú piacere, che se io cenassi seco -. Cosí appiccammo ragionamento, e passammo insino alle cinque ore. Alle cinque ore poi io presi licenzia, e andatomene alla mia osteria, trovai apparecchiato maravigliosamente, perché il Duca mi aveva mandato a presentare le regaglie del suo piatto con molto buon vino; e per esser a quel modo soprastato piú di dua ore fuor della mia ora del mangiare, mangiai con grandissimo appetito, che fu la prima volta che di poi e’ quattro mesi io avevo potuto mangiare.