La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XLII

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Libro primo
Capitolo XLII

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Mosso la guerra papa Clemente alla città di Firenze, e quella preparatasi alla difesa, fatto la città per ogni quartiere gli ordini delle milizie populare, ancora io fui comandato per la parte mia. Riccamente mi messi in ordine: praticavo con la maggior nobiltà di Firenze, i quali molto d’accordo si vedevano voler militare a tal difesa, e fecesi quelle orazioni per ogni quartiere, qual si sanno. Di piú si trovavano i giovani piú che ’l solito insieme, né mai si ragionava d’altra cosa che di questa. Essendo un giorno in sul mezzodí in su la mia bottega una quantità di omaccioni e giovani, e’ primi della città, mi fu portato una lettera di Roma, la qual veniva da un certo chiamato in Roma maestro Iacopino della Barca. Questo si domandava Iacopo dello Sciorina, ma della Barca in Roma, perché teneva una barca che passava il Tevero infra Ponte Sisto e Ponte Santo Agnolo. Questo maestro Iacopo era persona molto ingegnosa, e aveva piacevoli e bellissimi ragionamenti: era stato in Firenze già maestro di levare opere a’ tessitori di drappi. Questo uomo era molto amico di papa Clemente, il quale pigliava gran piacere di sentirlo ragionare. Essendo un giorno in questi cotali ragionamenti, si cadde in proposito e del Sacco e dell’azione del Castello: per la qual cosa il Papa, ricordatosi di me, ne disse tanto bene quanto immaginar si possa; e aggiunse, che se lui sapeva dove io fussi, arebbe piacere di riavermi. Il detto maestro Iacopo disse che io ero a Firenze; per la qual cosa il Papa gli commesse che mi scrivessi che io tornassi allui. Questa ditta lettera conteneva che io dovessi tornare al servizio di Clemente, e che buon per me. Quelli giovani che eran quivi alla presenza, volevano pur sapere quel che quella lettera conteneva; per la qual cosa, il meglio che io potetti, la nascosi: dipoi iscrissi al ditto maestro Iacopo pregandolo, che né per bene né per male in modo nessuno lui non mi scrivessi. Il ditto, cresciutogli maggior voglia, mi scrisse un’altra lettera, la quale usciva tanto de’ termini, che se la si fussi veduta, io sarei capitato male. Questa diceva che, da parte del Papa, io andassi subito, il quali mi voleva operare a cose di grandissima importanza; e che, se io volevo far bene, che io lasciassi ogni cosa subito, e non istessi a far contro a un papa, insieme con quelli pazzi arrabbiati. Vista la lettera, la mi misse tanta paura, che io andai a trovare quel mio caro amico, che si domandava Pier Landi; il quale vedutomi, subito mi domandò che cosa di nuovo io avevo, che io dimostravo essere tanto travagliato. Dissi al mio amico che, quel che io avevo che mi dava quel gran travaglio, in modo nessuno non gliel potevo dire; solo lo pregavo che pigliassi quelle tali chiave che io gli davo, e che rendessi le gioie e l’oro al terzo e al quarto, che lui in sun un mio libruccio troverebbe scritto; di poi pigliassi la roba della mia casa, e ne tenessi un poco di conto con quella sua solita amorevolezza, e che infra brevi giorni lui saprebbe dove io fussi. Questo savio giovane, forse a un dipresso imaginatosi la cosa, mi disse: - Fratel mio, va’ via presto, di poi scrivi, e delle cose tue non ti dare un pensiero -. Cosí feci. Questo fu il piú fedele amico, il piú savio, il piú da bene, il piú discreto, il piú amorevole che mai io abbia conosciuto. Partitomi di Firenze, me ne andai a Roma, e di quivi scrissi.