La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XLIX

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Libro primo
Capitolo XLIX

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Era la corte discosto da noi cinquanta passi, perché Maffio, ch’era lor bargello, n’aveva fatto tornare una parte per levar via quel caporale che il mio fratello aveva ammazzato; di modo che, avendo camminato prestissimo quei parecchi passi rinvolto e serrato nella cappa, ero giunto a punto accanto a Maffio, e certissimo l’ammazzavo, perché i populi erano assai, e io m’ero intermesso fra quelli. Di già con quanta prestezza immaginar si possa avendo fuor mezza la spada, mi si gettò per di drieto alle braccia Berlinghier Berlinghieri, giovane valorosissimo e mio grande amico, e seco era quattro altri giovani simili a lui, e’ quali dissono a Maffio: - Lévati, ché questo solo t’ammazzava -. Dimandato Maffio - chi è questo? - dissono: - Questo è fratello di quel che tu vedi là, carnale -. Non volendo intendere altro, con sollecitudine si ritirò in Torre di Nona, e a me dissono: - Benvenuto, questo impedimento che noi ti abbiamo dato contra tua voglia, s’è fatto a fine di bene: ora andiamo a soccorrere quello che starà poco a morire -. Cosí voltici, andammo dal mio fratello, il quale io lo feci portare in una casa. Fatto subito un consiglio di medici, lo medicorno, non si risolvendo a spiccargli la gamba affatto, che talvolta sarebbe campato. Subito che fu medicato, comparse quivi il duca Lessandro, il quale faccendogli carezze (stava ancora il mio fratello in sé), disse al duca Lessandro: - Signor mio, d’altro non mi dolgo, se none che Vostra Eccellenzia perde un servitore, del quale quella ne potria trovare forse de’ piú valenti di questa professione, ma non che con tanto amore e fede vi servissino, quanto io faceva -. Il Duca disse che s’ingegnasse di vivere; de’ resto benissimo lo cognosceva per uomo da bene e valoroso. Poi si volse a certi sua, dicendo loro che di nulla si mancasse a quel valoroso giovane. Partito che fu il Duca, l’abundanzia del sangue, qual non si poteva stagnare, fu causa di cavarlo del cervello; in modo che la notte seguente tutta farneticò, salvo che volendogli dare la comunione, disse: - Voi facesti bene a confessarmi dianzi: ora questo sacramento divino non è possibile che io lo possa ricevere in questo di già guasto istrumento: solo contentatevi che io lo gusti con la divinità degli occhi per i quali sarà ricevuto dalla immortale anima mia; e quella sola allui chiede misericordia e perdono -. Finite queste parole, levato il Sacramento, subito tornò alle medesime pazzie di prima, le quali erano composte dei maggiori furori, delle piú orrende parole che mai potessimo immaginare gli uomini; né mai cessò in tutta notte insino al giorno. Come il sole fu fuora del nostro orizzonte si volse a me e mi disse: - Fratel mio, io non voglio piú star qui, perché costoro mi farebbon fare qualche gran cosa, di che e’ s’arebbono a pentire d’avermi dato noia -, e scagliandosi con l’una e l’altra gamba, la quale noi gli avevamo messo in una cassa molto ben grave, la tramutò in modo di montare a cavallo: voltandosi a me col viso disse tre volte: - Adio, adio - e l’ultima parola se ne andò con quella bravosissima anima. Venuto l’ora debita, che fu in sul tardi a ventidua ore, io lo feci sotterrare con grandissimo onore innella chiesa de’ Fiorentini, e di poi gli feci fare una bellissima lapida di marmo, innella quale vi si fece alcuni trofei e bandiere intagliate. Non voglio lasciare in drieto, che domandandolo un di quei sua amici, chi gli aveva dato quell’archibusata, se egli lo ricognoscessi, disse di sí, e dettegli e’ contrassegni; e’ quali, se bene il mio fratello s’era guardato da me che tal cosa io non sentissi, benissimo lo avevo inteso, e al suo luogo si dirà il seguito.