La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XVII

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Libro primo
Capitolo XVII

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Era infra di loro alcuni arronzinati cappuccetti, che mossi dalle preghiere e male informazioni delli mia avversari, per esser di quella fazione di fra Girolamo, mi arebbon voluto metter prigione e condennarmi a misura di carboni: alla qual cosa il buon Prinzivalle attutto rimediò. Cosí mi fece una piccola condennagione di quattro staia di farina, le quali si dovessimo donare per elemosina al monasterio delle Murate. Subito richiamatoci drento mi comandò che io non parlassi parola sotto pena della disgrazia loro, e che io ubbidissi di quello che condennato io ero. Cosí dandomi una gagliarda grida ci mandorno al cancelliere: io che borbottando sempre dicevo “ceffata fu e non pugno”, in modo che ridendo gli Otto si rimasono. Il cancelliere ci comandò da parte del magistrato che noi ci dessimo sicurtà l’un l’altro, e me solo condennorno in quelle quattro staia della farina. A me che parve essere assassinato, non tanto ch’io mandai per un mio cugino, il quale si domandava maestro Anniballe cerusico, padre di messer Librodoro Librodori, volendo io che lui per me prommettessi. Il ditto non volse venire: per la qual cosa io sdegnato, soffiando diventai come uno aspido, e feci disperato iudizio. Qui si cognosce quanto le stelle non tanto ci inclinano, ma ci sforzano. Conosciuto quanto grande obrigo questo Anniballe aveva alla casa mia, m’accrebbe tanto còllora che, tirato tutto al male e anche per natura alquanto collerico, mi stetti a ’spettare che il detto ufizio degli Otto fussi ito a desinare: e restato quivi solo, veduto che nessuno della famiglia degli Otto piú a me non guardava, infiammato di còllora, uscito del Palazzo, corsi alla mia bottega, dove trovatovi un pugnalotto saltai in casa delli mia avversari, che a casa e a bottega istavano. Trova’gli a tavola, e quel giovane Gherardo, che era stato capo della quistione, mi si gettò a dosso: al cui io menai una pugnalata al petto, che il saio, il colletto insino alla camicia a banda a banda io li passai, non gli avendo tocco la carne o fattogli un male al mondo. Parendo a me, per l’entrar della mana e quello rumor de’ panni, aver fatto grandissimo male, e lui per ispavento caduto a terra, dissi: - O traditori, oggi è quel dí che io tutti vi ammazzo -. Credendo il padre, la madre e le sorelle che quel fusse il dí del Giudizio, subito gettatisi inginocchione per terra, misericordia ad alta voce con le bigoncie chiamavano: e veduto non fare alcuna difesa contro di me, e quello disteso in terra come morto, troppo vil cosa mi parve a toccargli; ma furioso corsi giú per la scala: e giunto alla strada, trovai tutto il resto della casata, li quali erano piú di dodici; chi di loro aveva una pala di ferro, alcuni un grosso canale di ferro, altri martella, ancudine, altri bastoni. Giunto fra loro, sí come un toro invelenito, quattro o cinque ne gittai in terra, e con loro insieme caddi, sempre menando il pugnale ora a questo ora a quello. Quelli che in piedi restati erano, quanto egli potevano sollecitavano, dando a me a dua mane con martella, con bastoni e con ancudine: e perché Idio alcune volte piatoso si intermette, fece che né loro a me e né io a loro non ci facemmo un male al mondo. Solo vi restò la mia berretta, la quale assicuratisi e’ mia avversari che discosto a quella si eron fuggiti, ugniuno di loro la percosse con le sua arme: di poi riguardato infra di loro de e’ feriti e morti, nessuno v’era che avessi male.