La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXIII

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Libro primo
Capitolo XXIII

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Mentre che io sollecitavo il bel vaso di Salamanca, e per aiuto avevo solo un fanciulletto, che con grandissime preghiere d’amici, mezzo contra la mia voglia, avevo preso per fattorino. Questo fanciullo era di età di quattordici anni incirca; aveva nome Paulino ed era figliuolo di un cittadino romano, il quale viveva delle sue entrate. Era questo Paulino il meglio creato, il piú onesto e il piú bello figliuolo, che mai io vedessi alla vita mia; e per i sua onesti atti e costumi, e per la sua infinita bellezza, e per el grande amore che lui portava a me, avenne che per queste cause io gli posi tanto amore, quanto in un petto di uno uomo rinchiuder si possa. Questo sviscerato amore fu causa, che per vedere io piú sovente rasserenare quel maraviglioso viso, che per natura sua onesto e maninconico si dimostrava; pure, quando io pigliavo il mio cornetto, subito moveva un riso tanto onesto e tanto bello, che io non mi maraviglio punto di quelle pappolate che scrivono e’ Greci degli dèi del cielo. Questo talvolta, essendo a quei tempi, gli arebbe fatti forse piú uscire de’ gangheri. Aveva questo Paulino una sua sorela, che aveva nome Faustina, qual penso io che mai Faustina fussi sí bella, di chi gli antichi libri cicalan tanto. Menatomi alcune volte alla vigna sua, e per quel che io potevo giudicare, mi pareva che questo uomo da bene, padre del detto Paulino, mi arebbe voluto far suo genero. Questa cosa mi causava molto piú il sonare, che io non facevo prima. Occorse in questo tempo che un certo Gianiacomo piffero da Cesena, che stava col Papa, molto mirabil sonatore, mi fece intendere per Lorenzo tronbone lucchese, il quale è oggi al servizio del nostro Duca, se io volevo aiutar loro per il Ferragosto del Papa, sonar di sobrano col mio cornetto quel giorno parecchi mottetti, che loro bellissimi scelti avevano. Con tutto che io fussi nel grandissimo desiderio di finire quel mio bel vaso cominciato, per essere la musica cosa mirabile in sé e per sattisfare in parte al mio vecchio padre, fui contento far loro tal compagnia: e otto giorni innanzi al Ferragosto, ogni dí dua ore facemmo insieme conserto, in modo che il giorno d’agosto andammo in Belvedere, e in mentre che papa Clemente desinava, sonammo quelli disciplinati mottetti in modo, che il Papa ebbe a dire non aver mai sentito musica piú suavemente e meglio unita sonare. Chiamato a sé quello Gianiacomo, lo domandò di che luogo e in che modo lui aveva fatto a avere cosí buon cornetto per sobrano, e lo domandò minutamente chi io ero. Gianiacomo ditto gli disse a punto il nome mio. A questo il Papa disse: - Adunque questo è il figliuolo di maestro Giovanni? - Cosí disse che io ero. Il Papa disse che mi voleva al suo servizio in fra gli altri musici. Gian Iacomo rispose: - Beatissimo Padre, di questo io non mi vanto che voi lo abbiate, perché la sua professione, a che lui attende continuamente, si è l’arte della oreficeria, e in quella opera maravigliosamente, e tirane molto miglior guadagno che lui non farebbe al sonare -. A questo il Papa disse: - Tanto meglio li voglio, essendo cotesta virtú di piú in lui, che io non aspettavo. Fagli acconciare la medesima provvisione che a voi altri; e da mia parte digli che mi serva e che alla giornata ancora innell’altra professione ampliamente gli darò da fare - e stesa la mana, gli donò in un fazzoletto cento scudi d’oro di Camera, e disse: - Pàrtigli in modo, che lui ne abbia la sua parte -. Il ditto Gian Iacomo spiccato dal Papa, venuto a noi, disse puntatamente tutto quel che il Papa gli aveva detto; e partito li dinari infra otto compagni che noi eramo, dato a me la parte mia, mi disse: - Io ti vo a fare scrivere nel numero delli nostri compagni -. Al quale io dissi: - Lasciate passare oggi, e domani vi risponderò -. Partitomi da loro, io andavo pensando se tal cosa io dovevo accettare, considerato quanto la mi era per nuocere allo isviarmi dai belli studi della arte mia. La notte seguente mi apparve mio padre in sogno, e con amorevolissime lacrime mi pregava, che per l’amor di Dio e suo io fussi contento di pigliare quella tale impresa; a il quali mi pareva rispondere, che in modo nessuno io non lo volevo fare. Subito mi parve che in forma orribile lui mi spaventasse, e disse: - Non lo faccendo arai la paterna maladizione, e faccendolo sia tu benedetto per sempre da me -. Destatomi, per paura corsi a farmi scrivere; di poi lo scrissi al mio vecchio padre, il quale per la soverchia allegrezza gli prese uno accidente, il quali lo condusse presso alla morte; e subito mi scrisse d’avere sognato ancora lui quasi che il medesimo che avevo fatto io