La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXXVIII

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Libro primo
Capitolo XXXVIII

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Saltando innanzi un pezzo, dirò come papa Clemente, per salvare i regni con tutta la quantità delle gran gioie della Camera apostolica, mi fece chiamare, e rinchiusesi con il Cavalierino e io in una stanza soli. Questo Cavalierino era già stato servitore della stalla di Filippo Strozzi: era franzese, persona nata vilissima; e per essere gran servitore, papa Clemente lo aveva fatto ricchissimo, e se ne fidava come di sé stesso: in modo che il Papa detto, e il Cavaliere e io rinchiusi nella detta stanza, mi messono innanzi li detti regni con tutta quella gran quantità di gioie della Camera apostolica; e mi comisse che io le dovessi sfasciare tutte dell’oro, in che le erano legate. E io cosí feci; di poi le rinvolsi in poca carta ciascune e le cucimmo in certe farse adosso al Papa e al detto Cavalierino. Dipoi mi dettono tutto l’oro, il quale era in circa dugento libbre, e mi dissono che io lo fondessi quanto piú segretamente che io poteva. Me ne andai a l’Agnolo, dove era la stanza mia, la quale io poteva serrare, che persona non mi dessi noia: e fattomi ivi un fornelletto a vento di mattoni e acconcio innel fondo di detto fornello un ceneràcciolo grandotto a guisa di un piattello, gittando l’oro di sopra in su’ carboni, a poco a poco cadeva in quel piatto. In mentre che questo fornello lavorava, io continuamente vigilavo come io potevo offendere gli inimici nostri; e perché noi avevamo sotto le trincee degli inimici nostri a manco di un trar di mano, io facevo lor danno innelle dette trincee con certi passatoiacci antichi, che erano parecchi cataste, già munizione del Castello. Avendo preso un sacro e un falconetto, i quali erano tutti a dui rotti un poco in bocca, questi io gli empievo di quei passatoiacci; e dando poi fuoco alle dette artiglierie, volavano già alla impazzata facendo alle dette trincee molti inaspettati mali: in modo che, tenendo questi continuamente in ordine, in mentre che io fondevo il detto oro, un poco innanzi all’ora del vespro veddi venire in su l’orlo della trincea uno a cavallo in sun un muletto. Velocissimamente andava il detto muletto: e costui parlava a quelli delle trincee. Io stetti avvertito di dar fuoco alla mia artiglieria innanzi che egli giugnessi al mio diritto: cosí col buon iudizio dato fuoco, giunto, lo investi’ con un di quelli passatoi innel viso a punto: quel resto dettono al muletto, il quale cadde morto: nella trincea sentissi un grandissimo tumulto: detti fuoco a l’altro pezzo, non sanza lor gran danno. Questo si era il principe d’Orangio, che per di dentro delle trincee fu portato a una certa osteria quivi vicina, dove corse in breve tutta la nobilità dello esercito. Inteso papa Clemente quello che io avevo fatto, subito mandò a chiamarmi, e dimandatomi del caso, io gli contai il tutto, e di piú gli dissi che quello doveva essere uomo di grandissima importanza, perché in quella osteria, dove e’ l’avevano portato, subito vi s’era ragunato tutti e’ caporali di quello esercito, per quel che giudicar si poteva. Il Papa di bonissimo ingegno fece chiamare misser Antonio Santa Croce, il qual gentiluomo era capo e guida di tutti e’ bombardieri, come ho ditto: disse che comandassi a tutti noi bombardieri, che noi dovessimo dirizzare tutte le nostre artiglierie a quella detta casa, le quali erano un numero infinito, e che a un colpo di archibuso ogniuno dessi fuoco; in modo che ammazzando quei capi, quello esercito, che era quasi in puntelli, tutto si metteva in rotta; e che talvolta Idio arebbe udite le loro orazione, che cosí frequente e’ facevano, e per quella via gli arebbe liberati da quelli impii ribaldi. Messo noi in ordine le nostre artiglierie, sicondo la commissione del Santa Croce aspettando il segno, questo lo intese il cardinal Orsino, e cominciò a gridare con il Papa, dicendo che per niente non si dovessi far tal cosa, perché erano in sul concludere l’accordo, e se que’ ci si ammazzavano, il campo sanza guida sarebbe per forza entrato in Castello, e gli arebbe finiti di rovinare a fatto: pertanto non volevano che tal cosa si facessi. Il povero Papa disperato, vedutosi essere assassinato drento e fuora, disse che lasciava il pensiero alloro. Cosí, levatoci la commessione, io che non potevo stare alle mosse, quando io seppi che mi venivano a dare ordine che io non tirassi, detti fuoco a un mezzo cannone che io avevo, il qual percosse in un pilastro di un cortile di quella casa, dove io vedevo appoggiato moltissime persone. Questo colpo fece tanto gran male ai nimici, che gli fu per fare abandonare la casa. Quel cardinale Orsino ditto mi voleva fare o impiccare o ammazzare in ogni modo; alla qual cosa il Papa arditamente mi difese. Le gran parole che occorson fra loro, se bene io le so, non facendo professione di scrivere istorie, non mi occorre dirle: solo attenderò al fatto mio.