La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo LIV

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Libro secondo
Capitolo LIV

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Avendo io grandissimo desiderio di cominciare a lavorare, dissi a Sua Eccellenzia che io avevo bisogno d’una casa, la quale fussi tale che io mi vi potessi accomodare con le mie fornaciette, e da lavorarvi l’opere di terra e di bronzo, e poi, appartatamente, d’oro e d’argento; perché io so che lui sapeva quanto io ero bene atto a servirlo di queste tale professione; e mi bisognava stanze comode da poter far tal cosa. E perché Sua Eccellenzia vedessi quanto io avevo voglia di servirla, di già io avevo trovato la casa, la quale era a mio proposito, ed era in luogo che molto mi piaceva. E perché io non volevo prima intaccare Sua Eccellenzia a danari o nulla, che egli vedessi l’opere mie, avevo portato di Francia dua gioielli, coi quali io pregavo Sua Eccellenzia che mi comperassi la ditta casa, e quelli salvassi insino attanto che con l’opere e con le mie fatiche io me la guadagnassi. Gli detti gioielli erano benissimo lavorati di mano di mia lavoranti, sotto i mia disegni. Guardati che gli ebbe assai, disse queste animose parole, le quali mi vestirno di falsa isperanza: - Togliti, Benvenuto, i tua gioielli, perché io voglio te e non loro; e tu abbi la casa tua libera -. Appresso a questo me ne fece uno rescritto sotto una mia supplica, la quale ho sempre tenuta. Il detto rescritto diceva cosí: “Veggasi la detta casa, e a chi sta a venderla, e il pregio che se ne domanda; perché ne vogliamo compiacere Benvenuto”. Parendomi per questo rescritto esser sicuro della casa; perché sicuramente io mi promettevo che le opere mie sarebbono molto piú piaciute di quello che io avevo promesso; appresso a questo Sua Eccellenzia aveva dato espressa commessione a un certo suo maiordomo il quale si domandava ser Pier Francesco Riccio. Era da Prato, ed era stato pedantuzzo del ditto Duca. Io parlai a questa bestia, e dissigli tutte le cose di quello che io avevo di bisogno, perché dove era orto in detta casa io volevo fare una bottega. Subito questo uomo dette la commessione a un certo pagatore secco e sottile, il quale si chiamava Lattanzio Gorini. Questo omiciattolo con certe sue manine di ragnatelo e con una vociolina di zanzara, presto come una lumacuzza, pure in malora mi fe’ condurre a casa sassi, rena e calcina tanto, che arebbe servito per fare un chiusino da colombi malvolentieri. Veduto andar le cose tanto malamente fredde, io mi cominciai a sbigottire; o pure da me dicevo: - I piccoli principii alcune volte hanno gran fine - e anche mi dava qualche poco di speranza di vedere quante migliaia di ducati il Duca aveva gittato via in certe brutte operaccie di scultura, fatte di mano di quel bestial Buaccio Bandinello. Fattomi da per me medesimo animo, soffiavo in culo a quel Lattanzio Gurini per farlo muovere; gridavo a certi asini zoppi e a uno cecolino che gli guidava; e con queste difficultà, poi con mia danari, avevo segnato il sito della bottega, e sbarbato alberi e vite: pure, al mio solito, arditamente, con qualche poco di furore, andavo faccendo. D’altra banda, ero alle man del Tasso legnaiuolo, amicissimo mio, e allui facevo fare certe armadure di legno per cominciare il Perseo grande. Questo Tasso era eccellentissimo valente uomo, credo il maggiore che fussi mai di sua professione: dall’altra banda era piacevole e lieto, e ogni volta che io andavo dallui, mi si faceva incontro ridendo, con un canzoncino in quílio. E io, che ero di già piú che mezzo disperato, sí perché cominciavo a sentire le cose di Francia che andavano male, e di queste mi promettevo poco per la loro freddezza, mi sforzava a farmi udire sempre la metà per lo manco di quel suo canzoncino: pure all’utimo alquanto mi rallegravo seco, sforzandomi di smarrire quel piú che io potevo, quattro di quei mia disperati pensieri.