La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XCV

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Libro secondo
Capitolo XCV

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L’altro giorno io mi feci vedere e il Duca, dipoi un poco di ragionamento, lietamente mi disse: - Domani senza fallo voglio spedire la tua faccenda; sí che sta di buona voglia -. Io, che me lo tenevo per certissimo, con gran disiderio aspettavo l’altro giorno. Venuto il desiderato giorno, me n’andai a Palazzo; e siccome per usanza par che sempre gli avvenga, che le male nuove si dieno con piú diligenzia che non fanno le buone, messer Iacopo Guidi segretario di Sua Eccellenzia illustrissima mi chiamò con una sua bocca ritorta e con voce altiera, e ritiratosi tutto in sé, con la persona tutta incamatita, come interizzata, cominciò in questo modo a dire: - Dice il Duca che vuole saper da te quel che tu dimandi del tuo Perseo -. Io restai ismarrito e maravigliato: e subito risposi come io non ero mai per domandar prezzo delle mie fatiche, e che questo nonnera quello che mi aveva promesso Sua Eccellenzia dua giorni sono. Subito questo uomo con maggior voce mi disse che mi comandava spressamente da parte del Duca, che io dicessi quello che io ne volevo, sotto la pena della intera disgrazia di Sua Eccellenzia illustrissima. Io che m’ero promesso non tanto di aver guadagnato qualche cosa per le gran carezze fattemi da Sua Eccellenzia illustrissima, anzi maggiormente mi ero promesso di avere guadagnato tutta la grazia del Duca, perché io nollo richiedevo mai d’altra maggior cosa che solo della sua buona grazia: ora questo modo, innaspettato da me, mi fece venire in tanto furore: e maggiormente per porgermela in quel modo che faceva quel velenoso rospo. Io dissi, che quando ’l Duca mi dessi dieci mila scudi, e’ non me la pagherebbe, e che, se io avessi mai pensato di venire a questi meriti, io non mi ci sarei mai fermo. Subito questo dispettoso mi disse una quantità di parole ingiuriose; e io il simile feci allui. L’altro giorno appresso, faccendo io reverenza al Duca, Sua Eccellenzia m’accennò; dove io mi accostai; ed egli in còllora mi disse: - Le città e i gran palazzi si fanno cone i dieci mila ducati -. Al quale subito risposi come Sua Eccellenzia troverebbe infiniti uomini che gli saprieno fare delle città e dei palazzi; ma che dei Persei ei non troverrebbe forse uomo al mondo, che gnele sapessi fare un tale. E subito mi parti’ senza dire o fare altro. Certi pochi giorni appresso, la Duchessa mandò per me e mi disse che la differenza che io avevo con el Duca io la rimettessi in lei, perché la si vantava di far cosa che io saria contento. A queste benigne parole io risposi come io non avevo mai chiesto altro maggior premio delle mie fatiche che la buona grazia del Duca, e che Sua Eccellenzia illustrissima me l’aveva promessa; e che e’ non faceva bisogno che io rimettessi in loro Eccellenzie illustrissime quello che, dai primi giorni che io li cominciai a servire tutto liberamente io avevo rimesso; e di piú aggiunsi che se Sua Eccellenzia illustrissima mi dessi solo una crazia, che vale cinque quattrini, delle mie fatiche, io mi chiamerei contento e sattisfatto, pur che Sua Eccellenzia non mi privassi della sua buona grazia. A queste mie parole, la Duchessa alquanto sorridendo, disse: - Benvenuto, tu faresti il tuo meglio a fare quello che io ti dico - e voltami le spalle, si levò da mme. Io che pensa’ di fare il mio meglio per usare quelle cotal umil parole, avvenne che e’ ne risultò il mio peggio, perché, con tutto che lei avessi aùto meco quel poco di stizza, ell’aveva poi in sé un certo modo di fare, il quale si era buono.