Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi siciliane/Ode Pitia I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Le odi siciliane - Ode Nemea IX | Le odi siciliane - Ode Olimpia VI | ► |
ODE PITIA I
Fu composta intorno al 470, per una vittoria col carro nei giuochi di Pito; ma piú che altro è ispirata alla proclamazione di Dinomene, figlio di Ierone, e signore d’Etna. Ed è insieme canto augurale per la nuova città, pervaso tutto dalla gloriosa memoria delle battaglie d’Imera e di Cuma.
Incomincia con una esaltazione alla cétera, cioè della musica, arte non ignota a Ierone (v. Olimpia I, v. 15-16); e conclude che essa spiace solo a quanti sono in odio a Giove: tra gli altri a Tifone, l’orrendo mostro seppellito da Giove sotto l’Etna (1-39).
Il nome dell’Etna, della nuova città, suonò ora nei ludi pitici, grazie a Ierone, che volle farsi proclamare etneo e non siracusano. Dal buon principio si può arguire il séguito: nuovi trionfi aspettano certo Etna: oh Febo, fa tu che cosí sia (42-55).
Auguri per Ierone. Possa ogni giorno recargli l’oblio delle pene passate, e il ricordo delle gloriose gesta compiute: d’Imera, innanzi tutto, e poi della recente impresa di Cuma, per la quale taluno che faceva il superbo dové, come un cagnolino, scodinzolargli dinanzi, chiedendo il suo aiuto. Sí che egli andò a questa guerra come a Troia Filottete. I compagni di Filottete, movendo a Troia, l’avevano abbandonato, perché malato d’una fetida piaga causatagli dalla puntura d’un serpe, nella deserta isola di Lemno. Ma poi, se vollero prendere Troia, doverono andarlo a ricercare, a pregare; e solo quando egli, malato, andò, la rocca fu presa. Cosí andò a Cuma Ierone, pregato e malato. E vinse. Anche per l’avvenire il Dio gli sia propizio (59-75).
Augurî per Dinomene e per Etna. Pindaro esalta la vittoria del padre anche pel figlio, re d’Etna, che n’è partecipe. Il padre costruí per lui questa città, che, popolata di elementi dorici, vuol vivere sotto le leggi di Egimio e di Illo, due degli Eraclidi, cioè dei Dori. I quali Dori mossero dal Pindo, e vennero ad abitare Amicla, alle falde del Taigeto, accanto a Sparta, dove avevano dimora Castore e Polluce. Oh Giove, possa fiorir sempre questa città, retta da un signore guidato da savio padre ispirato da te. E i Fenici e gli Etruschi rimangano d’ora innanzi a casa loro, vedendo la strage di Cuma, per cui il mondo ellenico fu liberato dalla minaccia barbarica. Del resto, già la battaglia d’Imera andava messa accanto a quelle di Salamina e di Platea (75-105).
Ho raccolto — parla sempre Pindaro — questi ricordi al momento opportuno ed in breve, per non infastidir troppo la gente, a cui secca sentir cantare le lodi degli altri. Certo i successi di questi signori susciteranno invidie. Ma è meglio essere invidiati che compianti (105-11).
Consigli a Ierone (o a Dinomene). «Sii giusto. Sii veritiero, ché ogni tua parola è pesata, e tutti gli occhi ti sono addosso. Sii liberale. Non lasciarti abbindolare dai furbi. Pensa solo alla lode che segue la morte: a questa badano i poeti e gli storici».
Il piano è dunque chiaro ed organico. Solo mi sembra un po’ ambiguo il passaggio dal verso 52 al 55. Esso conclude certo il precedente augurio di felicità per Etna, con l’asseverare che gli uomini debbono ai Numi tutto quanto posseggono: forza, saggezza, facondia. Ma alla affermazione generale, e in specie alla facondia, sembra si connetta l' augurio che subito dopo il poeta rivolge a sé stesso, di mantenersi pari all’altezza del tema che deve trattare.
È notevole che in tutti e tre gli epinici piú importanti composti per Ierone (la Pitia III, come vedremo, va considerata sotto luce speciale) ricorre il mito di una creatura ribelle in qualche modo alla legge di Giove e punita: Issione, Tantalo, Tifone. Anche Tifone deve qui simboleggiare qualcuno. Al solito, non c’ingolferemo in una insolubile quistione. Né dall’ignorare particolari precisi riesce menomata la divina bellezza di questa celeberrima introduzione: bellezza tale, che gitta ombra sul resto. Ma anche il resto fa impressione grandiosa, se si riesce ad afferrare i piani principali, un po’ nascosti sotto un frastaglio troppo lussureggiante. Non credo, per esempio, che sia in genere osservata l’efficacia del trapasso (v. 39-40), che, dopo tanto frastuono, con soave modulazione, trasporta dal mondo della fantasia a quello della realtà.
Qualche osservazione sporadica. Il passo è concepito come uditivo, quindi ha orecchie (v. 3). Tifone è immaginato prima sdraiato da Cuma all’Etna (v. 24-26), poi steso dalla cima alle falde del monte (v. 36-38). L’Etna è la parte piú alta, dunque la fronte, della Sicilia (v. 41).
La città d’Etna non fu arrisa dalla sorte come Pindaro augurava. Nel 461 essa fu restituita ai suoi antichi abitanti. A sua memoria rimase, oltre che questa ode prodigiosa, un bellissimo tetradramma d’argento, coniato in quest’epoca. Da una parte è una testa di Sileno, calvo e barbuto, con sotto uno dei famosi scarabei dell’Etna; dall’altra Giove Etneo, su un trono, col folgore in pugno, poggiato a un ceppo di vite; nel campo libero, un’aquila poggia sulla vetta d’un pino. Il Gaspar poi, opina, ed è ipotesi ben fondata e suggestiva, che sia stato scolpito per commemorare questa vittoria il famosissimo auriga di Delfi.
PER IERONE D’ETNA
VINCITORE COL CARRO A PITO
I
Strofe
Cétera d’oro, comune dovizia d’Apolline
e de le Muse, che mammole
han su le chiome, te ascoltano i passi, spiccandosi a danza,
e seguon tuoi cenni i cantori,
quando con musiche spire
svolgi dei balli i preludi.
Tu de la fiamma perenne spengi la folgore acuta.
Sovra lo scettro di Giove sopita sta l’aquila: da entrambi i suoi fianchi
le penne veloci abbandona
Antistrofe
pendule, il re degli augelli: ché al capo grifagno
tu negro nuvolo avvolgi,
dolce serrame a le palpebre: vinto da l’impeto tuo
canoro, sopiscesi; e il dorso
agile un palpito corre.
Ares il crudo, egli pure
lascia dell’asta la cuspide aspra, ed il cuore nel sonno
placa: ché i suoni vibrati da te, grazie al figlio di Lato e alle Muse,
molciscono l’alma anche ai Dèmoni.
Epodo
Quanti poi Giove non ama, sgomentano, udendo la voce
de le Pïèridi, sopra la terra e l’indomito mare:
sgomenta il nemico dei Numi, che giace nel Tartaro,
Tifone dai cento cerèbri. Un dí l’ospitava
l’antro famoso Cilicio:
ora le spiagge di Cuma, ch’àn siepe di flutti, e Sicilia,
gli premono il petto villoso: lo schiaccia, colonna del cielo,
Etna nevosa, nutrice perenne di fulgida neve,
II
Strofe
dalle cui latebre rugghiano fonti purissime
d’orrido fuoco. Di giorno,
fiumi travolgono flutti di fumi e faville: nel buio
purpurea vampa giú rotola,
rocce portando con lungo
strepito al ponto profondo.
Tali d’Averno terribili flutti su avventa quel drago:
miro spettacolo, a scorgerlo da presso: chi l’oda narrare da quanti
lo videro, anch’egli stupisce,
Antistrofe
come de l’Etna sui vertici negri di boschi,
giú sino al piano, legato
stendesi, e il crudo giaciglio tutto aspro gli lacera il dorso. —
Deh, possa, deh, possa io piacerti,
Giove che guardi quest’alpe,
fronte del suolo ferace!
Su la città che le sorge presso, che prende il suo nome,
piovere gloria fe’ il celebre signor che l’estrusse: ché a Pito l’araldo
insieme fe’ d’Etna e Ierone
Epodo
per la vittoria del cocchio, suonare i due nomi. — Ai nocchieri
prima fortuna è che s’alzi un prospero vento, presagio
d’ancora piú fausto ritorno. Cosí la ragione
da questa fortuna trae fede che pur nel futuro
Etna per serti e cavalli
celebre, e molto evocata sarà nei conviti sonori.
O Febo, di Licia e di Delo re, ch’ami la fonte castalia,
tu questi eventi abbi a cuore, tu questa città di gagliardi.
III
Strofe
Dono dei Numi son tutte degli uomini l’arti:
quanti han saggezza, o di mani
possa, o fiorita loquela. Or ch’io mi sobbarco a esaltare
tant’uomo, non essere m’auguro
come colui che, rotando
bronzëo dardo, lo vibra
fuor dell’agone; ma lunge piú che i rivali scagliarlo.
Possa ogni giorno donargli successi felici, gran copia di beni,
oblio delle pene gli arrechi,
Antistrofe
e gli rammenti che prove di guerra ei sostenne,
animo intrepido, quando
s’ebber dai Superi onore qual mai niun fra gli uomini d’Ellade
falciò, degno serto a ricchezza.
Ora, dove’ careggiarlo,
scodinzolargli dinanzi,
tal ch’era già tracotante: ch’egli emulò Filottete
partecipando l’agone. Raccontan che un giorno gli Eroi Seminumi
l'arciero figliuol di Peante
Epodo
d’ulcera immane consunto cercarono; ed egli di Priamo
strusse la rocca, ed a fine condusse il travaglio dei Dànai,
pure egre movendo le membra: ché quello era il fato.
Oh, il Dio nel futuro a Ierone sia fausto, e maturi
l’ora opportuna a sue brame.
Musa! Ed ancora ti piaccia cantare a Dinòmene il premio
pel cocchio dei quattro cavalli: non è la vittoria del padre
gaudio straniero: su, l’inno troviamo ch’ esalti il re d’Etna.
IV
Strofe
Questa città costruiva Ierone per esso,
libera, cara ai Celesti,
ligia alle norme e alle regole d’Illo: ché sempre osservare
le doriche leggi d’Egimio
bramano quei che son sangue
d’Eracle e Panfilo, e ch’ebbero
stanza sottesso il Taigeto. Scesi dall’alpe di Pindo
essi abitavano Amícla, vicino ai Tindàridi dai bianchi cavalli,
onde alta è la fama guerriera.
Antistrofe
Giove, che i voti compisci, su l'acque d’Amèna
ai cittadini e al sovrano
sempre tal sorte la fama decreti; e sia fama perenne.
E a te bene accetto, Ierone
guidi il suo figlio, e al suo popolo
dia la concordia serena.
Ora annuisci al mio voto, Croníde, che lunge si freni
l’urlo tirreno e il fenicio, veggendo lo scempio di navi
nell’acque di Cuma, veggendo
Epodo
quanto patiron fiaccati dal duce dei Siracusani,
che dalle rapide navi nei flutti la lor gioventú
sommerse, che l’Ellade trasse dal grave servaggio.
La gloria dirò che ad Atene recò Salamina:
dirò la pugna di Sparta
al Citerone, ove il Medo dall’arco ricurvo fu domo;
e presso la bella corrente d’Imèra cantar di Dinòmene
i figli conviene: ché degni ne son, pei nemici sconfitti.
V
Strofe
Se molte fila giungendo nell’ora opportuna
breve tu parli, minore
segue degli uomini il biasimo: poiché le veloci speranze
sfiorisce il molesto fastidio.
Pubblica lode al successo
d’altri, amareggia i cuor’ torvi.
Prima però che il compianto, scegli l’invidia. Persevera
nel bene operare. Conduci le genti con retto timone: su incudine
veridica tempra la lingua;
Antistrofe
ché se uscirà dal tuo labbro, pur essa una inezia
grande parrà. Sei di molte
genti ministro; e sovr’esse, su te, molti tengon lo sguardo.
Se cara hai la fama, tenacia
mostra nei nobili impulsi;
né ti dispiaccia esser prodigo:
come nocchiere le vele lascia dischiuse alla brezza.
Né con le blande menzogne, diletto, in inganno te traggano i furbi.
Sol vanto che a morte consegua
Epodo
indica ai vati e alla storia la vita di chi piú non è.
Non è distrutta di Creso ancor la bontà, la virtude;
ma Fàlari, cuore feroce, che ardeva le genti
nel tauro di bronzo, lo avvolge la fama odïosa:
né fra le mense le cétere
nelle canzoni dei giovani l’accolgono. Il primo dei beni
è compier bell’opre: secondo aver buona fama. Se un uomo
ambe consegue e possiede, toccò la ghirlanda suprema.