Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi siciliane/Ode Pitica VI
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ODE PITICA VI
È per Senocrate, fratello di Terone: scritta nel 490, un anno o due prima che Terone divenisse tiranno d’Agrigento. L’incarico di comporre l’epinicio ufficiale fu dato a Simonide, che allora toccava l’apogeo della fama; e questa ode pindarica era un di piú. Ed è infatti diretta, non proprio al vincitore, bensí al figliuolo suo Trasibulo, amico dilettissimo del poeta. Di Trasibulo viene qui specialmente esaltata la pietà filiale, e paragonata a quella di Antiloco che sacrificò la propria vita per salvare quella di suo padre Nestore (28-40). E certo in quei tempi torbidi avrà avuto occasione di darne prova. Ma che poi la esaltazione si debba proprio alla circostanza che Trasibulo avrebbe assunto egli stesso e non affidato ad altri il compito di guidare il carro, come è opinione di antichi e moderni commentatori, non mi par sicurissimo. Importa poco.
I canti che celebreranno questa vittoria son paragonati da Pindaro ad un tesoro — cioè ad un edificio costruito per contenere oggetti preziosi. A Delfi ce n’erano molti; e tuttora si possono ammirare gli avanzi di quello innalzato dagli Ateniesi, dai Sifni, dagli Cnidî. Questo edificio ha una facciata, volta ad Oriente, e la facciata un fastigio, che piú d’ogni altra parte accoglie e riverbera i raggi del sole (v. 15). — Il suolo delle Càriti (v. 1) è la poesia. L’umbilico, cioè il centro, della terra (v. 4) è Delfi, dove s’erano scontrate le due aquile che Giove lanciò a volo dalle due estremità del mondo. Il grembo selvoso d’Apollo (v. 8) è il suo santuario, scintillante di oggetti, aurei e tutto cinto da una selvetta.
Questa ode non ha forma epodica, ma è composta di sei strofe uguali.
PER SENOCRATE D’AGRIGENTO
VINCITORE COL CARRO A PITO
I
Udite! Ché il suol de le Càriti, che il suol d’Afrodite
pupilla fulgente
solchiam: de la terra sonora
cerchiam l’umbilico, ed il tempio
là dove, o felici rampolli
d’Emmèno, o Agrigento che siedi sul fiume, o Senòcrate,
è pronto, pel pitico trionfo, un tesoro
di cantici, estrutto nel grembo selvoso
che luccica d’oro, d’Apollo.
II
Né pioggia d’inverno che piombi con impeto fitto,
esercito crudo
di nube sonora, né turbine
con furia d’avversi lapilli,
potrà mai scalzarlo, rapirlo
nei gorghi del mar: la sua fronte fulgente nel sole,
la insigne vittoria che cinse, o Trasíbulo,
nei grembi di Crisa, tuo padre e tua stirpe,
dirà, che la dicano, agli uomini.
III
Ed or, su la palma reggendola, ben alta tu serbi
la legge che un giorno
di Fílira il figlio, raccontano,
fra i monti insegnava al magnanimo
Pelíde, lontano ai suoi cari:
che prima il figliuolo onorasse di Crono, signore
dei tuoni e dei folgori dal mugghio profondo:
che poi non privasse di simile onore
la vita dei suoi genitori.
IV
E Antiloco anch’esso, negli evi remoti, tale animo
nutrí; che pel padre
dar valse la vita, affrontando
il re degli Etíopi, Mènnone
feroce. Il corsiere, trafitto
dai dardi di Paride, impaccio faceva di Nestore
al cocchio: già Mènnone vibrava la lancia:
e il cuore del vecchio Messenio, sgomento,
un grido a suo figlio lanciò.
V
Né al suolo cadde írrito il grido. Lí saldo piantato,
quell’uomo divino
comprò col suo sangue la vita
del padre. Onde ai posteri parve
che, altissima gesta compiuta,
ei sommo in amore filiale tra gli uomini prischi
si fosse. — Ben questi son fatti remoti.
Ma pur fra quei d’ora Trasíbulo eccelle,
seguendo la norma del padre,
VI
e in ogni suo fregio emulando lo zio. Pone freno
di senno a ricchezza:
né ingiusto e protervo fruisce
di sua gioventú: de le Muse
negli aditi, falcia saggezza:
Posídone, a te che dirigi l’ardor dei corsieri,
s’accosta con ilare cuore: la gaia
sua mente, in simposî d’amici, è piú dolce
che il frutto del cribro dell’api.