Le caverne dei diamanti/14. Il segreto della strega

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14. Il segreto della strega

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14.

IL SEGRETO DELLA STREGA


Il povero nostro compagno, assieme a Good, fu subito trasportato nella capanna reale di Touala, dove venne spogliato della sua armatura ed attentamente esaminato da un capo chiamato Foulata, il quale passava anche per un famoso medico.

Il valoroso campione non aveva riportato, sotto la maglia di ferro che lo proteggeva, che delle ammaccature causate dai colpi d'azza dall'erculeo monarca, ma alla spalla aveva ricevuto una larga ferita, più dolorosa però che pericolosa non avendo intaccato l'osso.

Anche Good, che aveva voluto assistere al duello, era malconcio, tutto ammaccato e pieno di contusioni ancora sanguinanti e dovemmo coricarlo accanto al genovese.

Foulata applicò sulle ferite di entrambi un certo empiastro indigeno che godeva la proprietà di rimarginarle presto, adoperando i nostri fazzoletti per fasciarle.

I miei due compagni, già più tranquilli, quantunque febbricitanti, ben presto si addormentarono ed io cercai d'imitarli, ma mi fu impossibile, poiché tutta la notte il kraal reale risuonò di urla lamentevoli, essendo stati ricoverati i numerosissimi feriti raccolti sul campo di battaglia, ed accorse numerose donne, le quali piangevano disperatamente sui cadaveri dei padri, dei mariti, dei fratelli o dei figli.

Sorto il giorno, quelle grida e quei pianti scemarono a poco a poco, finché s'estinsero completamente; udii però ancora la voce strillante della strega Gagoul, la quale si lamentava accanto al cadavere dell'ex-re.

Finalmente potei anch'io chiudere gli occhi e dormire un paio d'ore; quali sogni spaventevoli però turbarono il mio spirito, durante quel breve riposo! Mi pareva di vedermi sempre intorno dei koukouana armati di formidabili coltelli, pronti a decapitarmi e di vedere la testa di Touala rotolarmi addosso e coprirmi di sangue.

Quando mi svegliai trovai Good assai indebolito e febbricitante. Come saprete, durante la battaglia aveva ricevuto un colpo d'ascia in una gamba. Durante il sonno il bendaggio gli si era smosso e la ferita, riapertasi, aveva lasciato colare grande quantità di sangue; per di più si era inasprita, forse in causa del caldo eccessivo, destando in me delle serie apprensioni.

— Voi state male, camerata — gli dissi.

— È vero — mi rispose Good. — Quel dannato selvaggio mi ha conciato per bene e temo di averne per molto tempo. Mi sento estremamente debole per la perdita del sangue. Guardate quanto me n'è uscito questa notte; di sotto questo giaciglio vi è una larga pozza.

— Lasciate fare a me; di ferite me ne intendo un po'.

Mi feci portare dell'acqua fresca, lavai la gamba dal sangue che vi si era raggrumato, riunii delicatamente le due labbra della ferita, vi applicai sopra il rimedio indigeno, poi feci la fasciatura.

Ciò fatto visitai il genovese. Anche questo era assai febbricitante e debole, però constatai che la ferita non si era affatto inasprita e ne fui lietissimo.

— La va meglio, signor Falcone — gli dissi. — Se la continua così, fra una settimana voi sarete guarito e potremo riprendere il nostro viaggio alle caverne dei diamanti.

— Ah! Ci tenete a visitarle! — mi rispose il genovese, sorridendo.

— Certamente, signore. Eh! Quando vedrete tutte quelle pietre scintillanti non vi potrete trattenere dal desiderio di riempirvi le tasche, ve lo assicuro.

— Siete ben certo però che ve ne siano molti?...

— Ho già interrogato parecchi capi e da tutti ebbi l'assicurazione che in quelle caverne ve ne sono tanti da caricare dieci buoi.

— Un tesoro inestimabile adunque!... — mi rispose il genovese, quasi beffardamente.

— Vedo che voi dubitate.

— No, ma che ci siano diamanti come la ghiaia, lo si vedrà, mio caro cacciatore.

— Cercate di guarire, mio signore, e poi vedremo se mi avranno ingannato o se avranno detta la verità.

In quell'istante entrarono Ignosi e Infadou: apprendendo che Good stava assai più male del giorno innanzi, e che anche il signor Falcone era assai debole, decisero di far ricoverare i due valorosi in un'altra capanna più arieggiata e più tranquilla, onde non venissero disturbati dai lamenti delle donne e dai gemiti delle centinaia e centinaia di feriti affollati nel kraal.

Furono costruite due comode barelle rese soffici da un cumulo di foglie fresche ed i due miei amici vennero, con grandi precauzioni, trasportati in una bella abitazione situata all'estremità della vasta cinta e circondata da sette od otto colossali niawna, i quali la ombreggiavano, mantenendola fresca anche durante le ore più calde del giorno.

Io e Foulata c'incaricammo di vegliare e di curare i due feriti.

Non ostante le nostre premurose cure, Good invece di migliorare peggiorò sempre più e per parecchi giorni lottò fra la vita e la morte. Anzi un mattino, essendo caduto in un lungo deliquio, credemmo davvero che avesse cessato di vivere; finalmente la sua robusta costituzione trionfò e ben presto entrò in convalescenza. Il signor Falcone intanto era quasi completamente guarito ed aveva già cominciato a fare delle passeggiate intorno alla graziosa capanna, passando più ore all'aperto, seduto sotto la fresca ombra dei niawna.

Un giorno, vedendo che i miei due amici non avevano più bisogno di me, mi recai al kraal reale per visitare Ignosi, che sapevo occupatissimo a riordinare il suo regno ed il suo esercito.

Io lo trovai nella capanna del grande indeba, ossia del Consiglio, assiso su di una specie di trono fregiato d'oro e coperto d'una splendida pelle di leopardo.

Aveva l'aria d'un vero re, un'aria dignitosa d'uomo superiore ed abituato al comando.

Intorno a lui stavano parecchi capi coi quali discuteva animatamente.

Lasciai che finisse il Consiglio, non avendo mai avuto passione per la politica, né europea, né africana, poi quando i capi se ne andarono, mi presentai a lui.

Il bravo monarca dimenticando l'etichetta mi venne sollecitamente incontro, stringendomi ambe le mani, chiedendomi come stavano i miei due amici e scusandosi di non aver potuto venire a trovarci da qualche giorno, in causa dei molti affari di Stato che non gli lasciavano un solo istante di libertà.

— La loro guarigione è ormai rassicurata — gli risposi. — Il signor Falcone può alzarsi e camminare, ed anche Good fra qualche giorno non avrà più bisogno di starsene coricato.

— Ecco una notizia che mi fa molto piacere, puoi crederlo, amico bianco. Mi sarebbe assai rincresciuto che quei valorosi avessero dovuto soccombere, dopo d'avermi aiutato a conquistare il trono. Ora è giunto il momento di ricompensarvi di quanto avete fatto per me.

— Ero venuto precisamente per chiederti se avevi dimenticato le caverne dei diamanti.

— No, amico bianco — mi rispose Ignosi. — Io non ho dimenticata la promessa che ti ho fatta.

— Dunque potremo noi vedere quelle famose caverne.

— Lo spero.

— Oh! — feci io. — Vi sono delle difficoltà forse?

— Sì, però le vinceremo.

— E le quali sono?

— Tutto dipende dalla Gagoul.

— Dalla vecchia strega!... — esclamai io, con stupore.

— Sì, essendo la sola che conosca il luogo dove si trovano raccolte le pietre brillanti.

— E tu non lo sai?...

— Ecco: io conosco la via che conduce alle tre montagne.

— È forse quella grande strada che abbiamo già percorsa?...

— Sì — rispose Ignosi.

— Allora il documento del portoghese è esatto.

— Lo credo anch'io. In una di quelle tre montagne nevose si trovano delle vaste caverne, in una delle quali si seppelliscono i re della mia nazione. In un'altra si trovano raccolte le pietre scintillanti che voi tanto apprezzate.

— Ma chi le ha portate colà! — chiesi io.

— La leggenda narra che molti, ma molti anni or sono, erano state colà radunate per regalarle ad un uomo bianco il quale poi non ne avrebbe tratto alcun profitto, essendo morto prima di lasciare questi paesi.

— Era il portoghese Josè Sylvestra — diss'io. — Come tu sai, abbiamo trovato il suo cadavere mummificato.

— Sì, è vero.

— E tu dici che solamente la strega conosce il segreto di quella caverna?

— Non vi è nessun'altra persona del mio regno che lo conosca. Ho fatto chiedere a molti, ma senza risultato.

— Allora dubito di poter porre le mani su quei diamanti — risposi io, senza nascondere il mio malumore. — La vecchia strega non parlerà, di questo sono certo.

— La vedremo — mi rispose Ignosi, con un sorriso.

Batté tre volte le mani e tosto un guerriero gris entrò.

— Conduci qui la vecchia Gagoul — disse il re. — Se si rifiuta, trascinala a forza.

Alcuni istanti dopo la strega veniva condotta dinanzi a noi, sorretta da due guerrieri. Sembrava furibonda ed opponeva una fiera resistenza, facendo sforzi disperati per liberarsi dalle mani che la stringevano e vomitando contro i guerrieri un torrente di minacce e di maledizioni.

— Lasciatela — disse Ignosi.

La vecchia strega, sentendosi libera, si lasciò cadere al suolo come un sacco di stracci, fissando su di noi uno sguardo ripieno d'odio feroce.

— Cosa vuoi tu, re Ignosi? — chiese ella. — La presenza dell'uomo bianco mi fa sospettare che tu voglia sapere dove sono celate le pietre brillanti. Mi sono ingannata?

— No — rispose Ignosi.

— Ah! Ah! — fece l'orribile megera, con tono beffardo. — Io non dirò nulla.

— Lo si vedrà più tardi, Gagoul.

— Cosa vorresti fare a me? Sta' in guardia, poiché la vecchia Gagoul è la madre delle arti magiche.

— Vecchia jena, io non credo affatto alla tua pretesa potenza. Se tu fossi stata la madre delle arti magiche come pretendi, avresti dovuto salvare Touala dalla morte. Orsù, parla, dimmi dove si trova la caverna dei diamanti; io voglio saperlo.

— T'ho detto che non lo dirò mai. Questi bianchi possono tornare al loro paese colle mani vuote, perché non vedranno giammai la misteriosa caverna. Nessuno sa dove si trova, me eccettuata.

— Io ti farò parlare, non dubitare — disse Ignosi, con tono minaccioso.

— Oh! Tu potrai essere un re grande, ma non avrai la potenza di strappare una confessione alle labbra d'una donna mia pari.

— Ti ripeto che tu ci dirai dove si trova la caverna.

— Mai — ripeté la Gagoul, sempre più inferocita.

— Ebbene, allora preparati a morire.

— A morire! — esclamò la vecchia, con accento stupito e nel medesimo tempo spaventato. — Nessuno oserà alzare le mani sulla madre delle arti magiche.

— L'oserò io.

— Non avrai tanto ardire!...

— L'avrò, Gagoul.

— Io ti farò morire.

— Non temo le tue minacce, brutta jena. Non è a me che la morte fa paura, è a te, quantunque sii ormai tanto vecchia che la vita non dovrebbe avere per te più nessuna attrattiva.

— Tu parli come un fanciullo — disse la strega. — Tu ignori adunque che più che si vive più si vorrebbe prolungare l'esistenza?... Le giovani possono morire senza troppi rimpianti perché non hanno conosciuto le emozioni dell'esistenza, ma quando s'è vissuti lungo tempo, non si vorrebbe più mai dare un addio per sempre alla luce.

— Giacché tanto ci tieni a vivere, io ti dico che ti manderò a dormire il sonno eterno nel regno delle tenebre, se non condurrai i miei amici bianchi nelle caverne dei diamanti.

— Non li condurrò — ripeté ella risolutamente.

Ignosi afferrò una lancia, dicendo:

— Allora tu morrai subito.

Ella lesse sul volto del re una risoluzione implacabile e provò un fremito di paura:

— Fermati! — gridò, vedendo Ignosi alzare l'arma. — Io condurrò gli uomini bianchi sulle alte montagne; ti avverto però che gravi sciagure colpiranno coloro che entreranno nelle caverne dove dormono da secoli le spoglie dei re e dove si trovano i diamanti. Io so che molti, moltissimi anni or sono, un altro uomo bianco ha voluto visitare quelle caverne, condotto da una mia antenata e che la sciagura lo colpì perché non rivide più mai il suo paese.

— Non mi fa paura la sventura — diss'io. — A me basta porre le mani sulle pietre scintillanti.

— Ti avverto che il viaggio sarà lungo e che correrai il pericolo di morire e di farti mangiare gli occhi dagli avvoltoi.

— Non ho paura di nulla. Conducimi nelle caverne e non occuparti d'altro.

— Sia — mi disse la Gagoul. — Quando vorrai partire, me lo dirai.

Non desideravo sapere di più. Ringraziai Ignosi di aver mantenuta la promessa e tornai dai miei compagni per informarli del colloquio avuto col re e colla strega.

Decidemmo di metterci in viaggio fra otto giorni, onde lasciar tempo a Good di guarire completamente.

L'indomani istesso io cominciai i preparativi. Aiutato da Foulata preparai una tenda onde ripararci dal sole ardente e come meglio potei rassettai le nostre scarpe, essendo ormai ridotte in cattivo stato dalle lunghe marce, poi preparai parecchie bisacce impermeabili per l'acqua e pei viveri.

Otto giorni dopo, ai primi albori, essendo già Good perfettamente guarito ed anche rinvigorito, salutati Ignosi ed Infadou, ci mettevamo in marcia seguiti da Foulata e dalla vecchia Gagoul che noi portavamo su di una specie di barella.

Quella prima giornata trascorse senza incidenti spiacevoli. Avevamo camminato continuamente sulla grande via già da noi percorsa per recarci nel paese dei koukouana.

Il giorno seguente però, essendo giunti in un paese montuoso, fummo costretti ad inoltrarci attraverso a fitte foreste dove incontrammo numerosa selvaggina. Abbondavano le antilopi, le zebre, le giraffe, e scorgemmo anche numerose tracce di elefanti e di rinoceronti.

Temendo di trovarci da un istante all'altro di fronte ad uno di quei pericolosi colossi, avanzammo con molte precauzioni, ascoltando attentamente prima di cacciarci in mezzo a quei giganteschi macchioni di acacie, di sicomori, di banani e di manzanilli, piante queste ultime che uccidono le persone che incautamente s'addormentano sotto la loro fresca e deliziosa ombra.

Alla sera, assai stanchi da quella faticosa marcia, ci accampammo entro una specie di gola profonda e selvosa, che si addentrava in una delle tre famose montagne. Sapendo che gli animali feroci non dovevano mancare, accendemmo un gran fuoco per tenerli lontani e per prepararci contemporaneamente la cena.

Avevamo appena terminato di mangiare ed avevamo accese le nostre pipe, quando, tutto ad un tratto, udimmo risuonare nella foresta un ruggito così formidabile, che parve facesse tremare perfino il suolo.

Foulata si era alzato di colpo, dicendo con voce tremante:

— È un leone.

— E non deve essere lontano — ci disse la Gagoul, con accento beffardo. — Ha sentito l'odore degli uomini bianchi e vorrà provare se la carne bianca è migliore della negra.

— Bah! — esclamò il genovese, afferrando prontamente il suo fucile. — La carne bianca è protetta dalle canne fiammeggianti.

— Vedremo se il leone avrà paura — riprese la Gagoul.

Un secondo ruggito, più formidabile del primo e più vicino, echeggia minacciosamente nella foresta.

— Che l'abbia proprio con noi? — chiese Good.

— Avrà fame — dissi io.

In questo istante Foulata s'inchinò verso di me, dicendomi:

— È la vecchia strega che lo chiama.

Io, invece di rispondergli, mi alzai col fucile in mano e mi spinsi fino sul margine del macchione, seguìto dal genovese.

Guardai a destra ed a manca, ma non mi riuscì di scorgere il pericoloso vicino.

— Dove si sarà nascosto? — mi chiese il signor Falcone. — Vorrei vederlo per cacciargli una buona palla nel corpo.

— Cercherà di sorprenderci — risposi. — Questi animali sono più prudenti di quello che si crede e se non sono feriti o molto affamati, non osano assalire l'uomo.

— Allora aspetterà che noi ci siamo coricati.

— È probabile — risposi io.

— Ciò non mi garba affatto.

— E nemmeno a me.

— Volete che lo scoviamo?

— Lo crederei il partito migliore.

— Purché si mostri?

— Di questo m'incarico io.

In quel momento Good venne a raggiungerci, chiedendoci che cosa intendevamo di fare.

— Voi rimanete a guardia del campo, — gli risposi, — e noi ci occuperemo di questo affamato.

Poi rivolgendomi al genovese, gli dissi:

— Seguitemi senza far rumore, signor Falcone.

Ci mettemmo a strisciare lungo il margine d'un macchione foltissimo di mimose nilotiche, piante assai spinose che formano dei veri boschetti.

Percorsi duecento passi, feci cenno al mio compagno di non muoversi e posto un orecchio a terra, ascoltai con profonda attenzione.

— Nulla? — mi chiese il signor Falcone.

— Sì — risposi. — Odo il leone che si avanza.

In quel momento, un buffo d'aria calda, portò fino al mio naso quell'odore sgradevole di selvatico che tramandano gli animali feroci.

— L'amico si sente già — diss'io.

— È lontano? — mi chiese il genovese.

— Io credo che ci stia a breve distanza.

Avendo scorto sulla mia destra un grosso albero, ci dirigemmo a quella volta, nascondendoci dietro l'enorme tronco.

Eravamo appena giunti colà, quando verso l'accampamento udimmo delle urla di terrore mandate da Foulata e dalla vecchia strega.

— Gran Dio! Che cosa succede? — chiese il genovese, alzandosi. — Che qualche altro leone abbia assaliti i nostri compagni?

— Ritorniamo — dissi io.

Stavamo per abbandonare l'albero, quando vedemmo due punti luminosi, fosforescenti, brillare fra le tenebre, a meno di trenta passi da noi.

— Fuggiamo — gridai.

Il genovese invece d'ubbidirmi appoggiò la carabina alla spalla e mirò in quella direzione, con una calma ammirabile.

— Fuggite!... — ripetei.

In quel momento le macchie s'aprirono impetuosamente ed un leone di taglia enorme, colla villosa giubba irta, si mostrò mandando un ruggito così spaventevole che parve un colpo di tuono.

Si era accovacciato come si preparasse a prendere lo slancio e piombare su di noi e si batteva i fianchi colla coda, dando segni d'impazienza.

Io avevo pure puntato il fucile; prima però che potessi far fuoco, il genovese mi prevenne.

La nube di fumo non era ancora scomparsa, quando io ed il mio compagno fummo violentemente atterrati.

Il leone, forse solamente ferito, si era scagliato su di noi urtandoci in così malo modo da mandarci a gambe levate. Fortunatamente, invece di arrestarsi e di mettere in opera i suoi formidabili artigli, era subito scomparso, rientrando nella macchia.

— Fuggiamo signor Falcone — gridai, alzandomi precipitosamente. — Un altro assalto e noi vi lasceremo la pelle.

Sfuggiti miracolosamente a quel grave pericolo, abbandonammo frettolosamente l'albero e ci dirigemmo di corsa verso l'accampamento, non senza guardarci alle spalle per tema di vederci inseguiti dal terribile animale.

A metà via incontrammo Good, il quale avendo udito i ruggiti del leone e lo sparo, si affrettava ad accorrere in nostro soccorso, credendoci in pericolo.

— L'avete ucciso? — ci chiese, con apprensione.

— No — rispondemmo.

— Siete stati feriti?

— Nemmeno, — diss'io, — ma se siamo ancora vivi è un miracolo poiché siamo stati assaliti ed atterrati. Ed a voi che cosa è accaduto? Abbiamo udite le grida di Foulata e della vecchia strega.

— Un altro leone è comparso vicino al campo, però è subito fuggito, forse spaventato dal fuoco.

— Ripieghiamo sul campo e accendiamo altri falò — diss'io. — Gli animali feroci difficilmente osano accostarsi ai fuochi; potete credere a me, vecchio cacciatore.

In pochi salti giungemmo presso la tenda, dove trovammo la Gagoul tremante di paura e Foulata riparato dietro al suo scudo e colla lancia in mano.

Temendo un nuovo assalto da parte dei leoni, si affrettarono tutti ad obbedirmi, raccogliendo moltissimi rami e delle erbe secche ed accendendo tre altri fuochi intorno alla tenda.

Avevamo appena terminati i preparativi, quando Foulata mi si avvicinò, additandomi due punti luminosi che si scorgevano in mezzo ad una macchia di acacie.

— È un leone che ci spia — dissi.

— Che sia lo stesso che ci ha assaliti? — mi chiese il genovese.

— Io credo che sia invece un altro — risposi.

— Ed il suo compagno, dove sarà andato? Che sia già morto?... È impossibile che non sia stato colpito, essendo io un buon bersagliere.

— Hanno la pelle dura questi animali.

— Vedremo se l'avrà anche quell'amico — disse il genovese. — Lo mirerò fra gli occhi.

Così dicendo il signor Falcone, appoggiatosi ad un palo della tenda, prese di mira il leone che stava nascosto fra le mimose, aspettando forse che i fuochi si spegnessero per gettarsi sul nostro campo.

Io e Good ci eravamo collocati presso il nostro compagno col dito sul grilletto dei fucili, pronti a fare fuoco a nostra volta, se avesse mancato il colpo.

Il leone, accortosi certamente del pericolo che correva, fece udire un ruggito profondo e vedemmo i suoi occhi cambiare posizione.

— Tirate — dissi al genovese. — Tirate o si caccerà nella macchia.

Le mie ultime parole furono soffocate dalla detonazione della carabina.

Vedemmo subito il leone balzare fuori dalle mimose poi scagliarsi, con un grande salto, al di sopra dei fuochi e precipitarsi addosso alla nostra tenda, abbattendola di colpo.

Io mi ero gettato prontamente da un lato e stavo per fare fuoco, quando m'accorsi che la fiera, colpita senza dubbio in piena testa, non si era più rialzata.

— Il leone è morto!... — gridai ai miei compagni, che si erano gettati a destra ed a sinistra.

Presi un tizzone e mi avvicinai al feroce animale, bruciandogli il muso, ma non diede segno di vita.

— Signor Falcone — dissi. — Lasciate che faccia i miei complimenti pel vostro colpo d'occhio! Guardate: la vostra palla ha fracassata la fronte della fiera e precisamente fra i due occhi.

— Bah!... Un altro avrebbe fatto altrettanto — mi rispose modestamente l'intrepido genovese. — Orsù, ora che i signori carnivori hanno avuto il loro conto, approfittiamo per fare una bella dormita.

Certi che anche l'altro leone fosse stato o ucciso o gravemente ferito, ci sdraiammo nella tenda sotto la guardia di Foulata, incaricato del primo quarto di veglia.

La notte non fu tuttavia tranquilla come avevamo sperato, in causa di una grossa banda di jene macchiate, le quali ci diedero un concerto assordante capace di svegliare perfino un morto, e che più volte cercarono, di soppiatto, d'introdursi nel nostro campo, forse per banchettare colla vecchia Gagoul che aveva voluto dormire all'aperto.

All'alba riprendevamo la salita della montagna, procedendo con grande fatica in causa dei burroni, delle fenditure, degli avvallamenti, delle rocce e dei fitti cespugli che ci chiudevano il passo ad ogni istante.

Quella montagna aveva la forma d'un cono immenso e la sua cima, al pari delle altre due che le stavano dietro, era coperta di neve, non ancora scioltasi malgrado l'eccessivo calore.

Camminavamo da tre ore, quando giungemmo sul margine d'una profonda escavazione avente cento metri di larghezza ed una lunghezza d'un chilometro.

Il genovese e Good mi chiesero che cosa poteva essere quell'enorme buco, non essendo un burrone naturale, ma bensì scavato, forse molti secoli prima, dalla mano dell'uomo.

— Non ve lo immaginate? — diss'io.

— Ma... non saprei — mi rispose il signor Falcone.

— Allora voi non avete mai veduto le miniere di diamanti di Kimberley?

— Come! Questa sarebbe una miniera?

— Oh! Io sono certo di non ingannarmi, e se noi potessimo discendere troveremmo senza dubbio gli antichi pozzi aperti dai minatori. Guardate laggiù, non vedete quei serbatoi di acqua. Essi hanno servito al lavaggio delle pietre preziose per sbarazzarle del loro involucro terroso.

— Ma chi credete che abbia lavorato questa miniera? — mi chiese Good.

— Forse i negri degli antichi re dei koukouana.

— Per dare i diamanti al portoghese Sylvestra?

— È probabile — risposi.

Dopo una breve fermata per la colazione, la vecchia Gagoul c'indicò il largo sentiero il quale saliva la montagna a zigzag.

— È la via dei Silenziosi — ci disse Foulata.

— Che cosa sono questi Silenziosi? — chiedemmo noi.

— Guardateli lassù.

Alzammo gli occhi e vedemmo a breve distanza tre enormi statue alte più di sette metri e situate a circa venti passi l'una dall'altra.

Due rappresentavano degli uomini, la terza una donna.

Sulle loro basi si vedevano scolpiti dei caratteri assolutamente indecifrabili per noi.

La donna aveva un aspetto bello, ma con una espressione assai severa e le ingiurie del tempo non l'avevano menomamente guastata; dei due uomini uno sembrava un demone o per lo meno qualche stregone e teneva in una mano un tridente di ferro; l'altro invece era un guerriero d'aspetto imponente, con uno scudo gigantesco ed una picca fornita d'una lama smisurata. Dal suo atteggiamento pareva che fosse per slanciarsi contro un nemico invisibile.

Quei tre colossi situati lassù, fra le solitudini della montagna, contemplanti eternamente l'immensa pianura che si estendeva a perdita d'occhio, fecero su di noi un senso d'involontario terrore.

— Chi può aver portato quassù queste statue? — si chiese Good, con stupore.

— Non deve essere certo opera dei koukouana — disse il signor Falcone.

— E di chi adunque?

— Forse degli uomini che hanno costruita la grande strada che noi abbiamo percorsa venendo in questo paese.

— Forse la Gagoul ne saprà qualche cosa — dissi io.

Interrogammo la vecchia strega, ed ella ci diede la seguente risposta:

— Ho udito a raccontare da mia madre, morta vecchissima, che i tre Silenziosi erano stati qui portati dal popolo che abitava queste regioni prima di noi. Di più non potrei dirvi.

— Ma quel popolo come è scomparso? — gli chiese il signor Falcone.

— Sembra che sia stato distrutto totalmente da un terribile male.

— Sono molti anni che i koukouana hanno occupate queste regioni?

— Oh molti! Così ho udito a raccontare da mia madre.

— Ed a che cosa credete che abbiamo servito questi tre colossi.

Un sorriso, che ci parve un sogghigno beffardo, contrasse le labbra della strega, mentre nei suoi piccoli occhi neri balenava un lampo strano.

— Come! Non lo sapete? — disse. — Essi sono i guardiani delle caverne dei diamanti.

— Sì, dei guardiani impassibili — disse Good, ridendo. — Non so davvero come farebbero a scendere dai loro piedistalli per cacciare via i ladri. Ah! Vecchia Gagoul, non siamo così sciocchi a credere simili frottole.

— Guardatevi, uomini bianchi!... Essi sono capaci di gettare su di voi il malefizio.

— S'accomodino pure — concluse Good.

Riprendemmo la via della montagna, lasciando alle nostre spalle i granitici guardiani delle caverne, arrampicandoci faticosamente su per la cima, la quale diventava di passo in passo più difficile.

Dopo d'aver attraversato nuovi burroni, nuovi boschi, ed un gran numero di torrenti scroscianti sui fianchi dell'immenso cono, giungemmo dinanzi ad una gigantesca muraglia di granito, la quale ci chiudeva il passo da ogni parte.

Ci arrestammo guardando la vecchia strega, la quale era discesa dall'amaca, appoggiandosi ad un nodoso bastone.

— Dove si va? — le chiedemmo.

— Noi ci troviamo presso le caverne — ci rispose.

— Di già! — esclamammo con stupore.

La vecchia ci rispose con un sorriso sardonico.

— Ma io non veggo alcun passaggio — disse il signor Falcone.

— So io dove si trova.

— Allora conducici.

— Ah! Ah! — esclamò la Gagoul. — I grandi capi bianchi hanno fretta di vedere il luogo che porta sventura?

— Noi ce ne ridiamo delle sventure — rispose Good.

— Ebbene io sono pronta ad obbedire agli ordini del re ed a condurvi nelle caverne, ma vi avverto che vedrete delle cose terribili. Venite capi bianchi ed anche tu Foulata che hai tradito, al pari d'Infadou, il tuo padrone.

Il capo koukouana aggrottò la fronte, dicendo:

— No, io non ho il permesso d'entrare, ma tu risponderai della vita degli uomini bianchi colla tua, e se a loro toccasse qualche sventura, la pagherai cara, vecchia strega.

— Io non ho bisogno di minacce per obbedire agli ordini del re. Io condurrò i capi bianchi nella caverna dei tesori, ma se avranno paura, tanto peggio per loro.

— Ehi, vecchia! Ci prendi per fanciulli? — disse il signor Falcone. — Sappi che gli uomini bianchi non hanno mai creduto alle streghe né ai malefizi.

— Lo si vedrà: seguitemi.

Senza altro aggiungere la vecchia, appoggiandosi al suo bastone, costeggiò la base dell'immensa muraglia per circa trecento metri, poi s'arrestò dinanzi ad una stretta apertura quasi nascosta da piante arrampicanti e che pareva la galleria di un'antica miniera.

— È qui? — chiedemmo.

— Sì — ci rispose la strega. — Il vostro cuore non trema?

— Niente affatto — rispose Good per tutti.

— Me lo direte più tardi.

Cominciammo ad inoltrarci in quella specie di galleria che era tanto larga da permettere il passaggio a due uomini di fronte.

La Gagoul ci precedeva senza arrestarsi un solo istante, quantunque l'oscurità cominciasse a diventare profonda e noi la seguivamo non senza un certo panico, non sapendo che cosa fosse per accadere ed avendo tutto da temere dalla malvagità di quella donna.

Dopo una cinquantina di passi, la galleria s'allargò improvvisamente e ci trovammo sulla soglia di una immensa caverna.

Immaginate voi la più vasta cattedrale del mondo, alta più di trenta metri, di forma circolare, vagamente illuminata da alcuni raggi di luce che scendevano dall'alto e sostenuta in tutta la sua lunghezza da una moltitudine di gigantesche colonne bianche e trasparenti, come se fossero di ghiaccio.

Qualcuna di esse aveva un diametro di più di sei metri e tale si conservava sino alla cima, mentre altre erano tronche a metà altezza, come se agli uomini che le avevano costruite fosse mancato il tempo d'ultimarle.

Vi dirò poi che tutte avevano delle iscrizioni e delle scolture che ci parvero di origine egiziana, avendo scorte numerose ibis. Quanto tempo dovevano aver impiegato per innalzare quei colossali pilastri? Certamente parecchi secoli.

— A che cosa può aver servito questa caverna? — chiese Good.

— Forse sarà stata adoperata per servire di sepolcreto ai re del popolo scomparso — rispose il signor Falcone.

— Ma io non vedo alcuna tomba.

— Saranno stati tumulati nella roccia.

— Ma sapete, amico, che questa caverna è un capolavoro! Io credo che non ne esista un'eguale al mondo.

— È probabile.

— Che sia naturale o che sia stata scavata?

— Queste colonne c'indicano che questa roccia è stata traforata pazientemente a forza di scalpello al pari dei famosi templi di Ellora che si trovano nell'India — rispose il signor Falcone.

— Per fare questo colossale lavoro devono aver impiegato dei secoli.

— Dei secoli! Dite delle migliaia d'anni, Good.

— Quale popolo deve essere adunque stato per eseguire simile lavoro.

— Uno solo io credo.

— E quale?

— Quello che ha costruito le gigantesche piramidi dei Faraoni.

— L'egiziano?

— Sì, Good — rispose il signor Falcone. — Io non ho più alcun dubbio.

— Voi dunque credete che una colonia egiziana si sia spinta fin qui?

— Tutto lo indica; la grande via che abbiamo percorsa, la galleria scavata attraverso la montagna adorna di sculture di stile prettamente egiziano, e questa immensa caverna.

— Ma pensate che quella colonia deve aver attraversata l'intera Africa dal nord al sud.

— Lo so: è una cosa che sembrerà impossibile e pure ormai non possiamo più dubitare.

In quell'istante la Gagoul si volse verso di noi, dicendoci:

— Seguitemi, capi bianchi; la caverna delle pietre brillanti è vicina.

Seguimmo la vecchia strega, passando successivamente entro altre caverne, le une più superbe delle altre, con stalattiti e stalagmiti colossali, formate dalle gocce impregnate di materia calcarea che cadevano costantemente, da secoli e secoli, dall'alto. Ve n'erano di quelle magnifiche, tutte bitorzolute o scannellate o rigonfie ad intervalli come le colonne doriche, alcune diritte ed altre oblique a seconda della caduta delle gocce calcaree.

Le pareti poi delle caverne, a somiglianza di quelle famose che furono scoperte nel Kentuky e che vennero poi chiamate dei mammouth per aver trovato in una di esse lo scheletro gigantesco d'un elefante antidiluviano, erano coperte d'incrostazioni sorprendenti.

Si vedevano arabeschi che parevano opera non della natura capricciosa ma del genio umano, candidi come se fossero fatte di neve gelata, poi animali strani, quindi panneggiamenti enormi, gruppi di foglie mostruose e di fiori d'una bellezza meravigliosa.

Noi avremmo voluto fermarci per ammirare le bellezze di quel mondo sotterraneo, e per vedere se quelle caverne avessero un tempo servito a qualche uso al misterioso popolo che abitava quelle contrade prima dell'invasione dei koukouana, ma la Gagoul, famigliarizzata a quelle bellezze s'avanzava sempre, senza curarsi di guardarle e noi eravamo costretti a seguirla per tema di smarrirci.

Dopo d'aver attraversato parecchie spaziose gallerie, giungemmo dinanzi ad una porta altissima, larga alla base e più stretta alla cima e colle pilastrate adorne di geroglifici che a noi parvero assolutamente di stile egiziano.

La Gagoul si era volta verso di noi, dicendoci con voce lugubre:

— Voi state per entrare nell'asilo della morte.

— Vi seguiamo — diss'io.

— Non avrete paura, uomini bianchi?

— I morti non ci fanno più paura dei vivi — disse il genovese.

— Vi avverto che vedrete delle cose terribili.

— Va' innanzi, vecchia strega.

La Gagoul, dopo un istante di esitazione, attraversò la porta.

— Seguitela pel primo, Allan — mi disse il signor Falcone.

Io feci alcuni passi innanzi, non senza però sentirmi battere fortemente il cuore, temendo qualche brutta sorpresa.

Mi trovai subito in una sala più oscura delle altre e perciò di colpo nulla potei distinguere, ma ben presto i miei occhi si abituarono a quella semioscurità e scorsi, non senza un brivido, una enorme tavola bianca e massiccia che si estendeva per tutta la lunghezza della caverna.

Volgendo gli occhi all'intorno, a poco a poco distinsi delle figure di grandezza naturale disposte presso quell'enorme tavola e sopra di essa una forma bruna, la cui vista mi strappò un grido di terrore.

Credetti di perdere le forze e feci atto di fuggire, ma il signor Falcone, che mi veniva dietro, mi prese pel colletto e vi assicuro che senza il suo solido pugno io sarei caduto al suolo o per lo meno fuggito per non rientrare più mai in quella sala.

Mi volsi verso i miei compagni, pallido come un cadavere e vidi che entrambi si asciugavano il freddo sudore che calava dalle loro fronti.

— Ciò è orribile! — udii ad esclamare il genovese. — Non avrei mai creduto di vedere un così spaventevole spettacolo!...

— Signore, fuggiamo! — gridai.

— No — mi rispose il signor Falcone, trattenendomi. — Non dobbiamo mostrare alla strega che noi abbiamo paura. Avanti, compagni!...

Facemmo alcuni passi innanzi guardando l'immensa tavola di pietra bianca che si allungava verso il fondo della caverna ed all'estremità scorgemmo un gigantesco scheletro umano alto più di due metri.

Con una delle sue mani ossute s'appoggiava alla tavola nella posa d'un uomo che sta per rizzarsi; nell'altra teneva in pugno ed alzata una lunga spada bianca che sembrava di pietra e pareva che si preparasse ad abbassarla.

Lo scheletro, pendendo in avanti, aveva l'aria di dirigersi verso di noi per parlarci o per lasciar cadere sui nostri crani la sua arma.

— Chi sarà quel colosso? — chiese Good, con voce tremula.

— Forse lo scheletro di qualche re — rispose il genovese, la cui voce era pure malferma.

— Si direbbe che ci guardi colle sue occhiaie — mormorai. — Signori, andiamocene da qui. Non mi trovo bene in questa orribile caverna.

— Avete dimenticato i diamanti? — mi chiese il genovese. — Toh! Che cos'è quella massa bruna che si vede situata in mezzo alla tavola di pietra?

— Si direbbe un corpo umano — disse Good, rabbrividendo.

— Ma privo della testa — rispos'io.

La Gagoul, che mi aveva inteso, fece udire un riso stridulo e beffardo.

— Non lo conoscete? — ci chiese.

— No — rispondemmo.

— Vi avevo detto che entrando qui avreste veduto delle cose orribili.

— Ma chi è? — chiese il genovese.

— Avvicinati; tu che sei bravo a combattere, guarda l'uomo che hai ucciso.

Afferrò il genovese per un braccio e lo spinse verso la tavola. Il nostro amico indietreggiò tosto, facendo un gesto d'orrore.

Assiso su quella tavola, perfettamente nudo, colla propria testa decapitata situata fra le ginocchia, stava il re Touala, ucciso dal genovese nel terribile duello. Se era stato brutto quando era vivo, morto era ancora più ripugnante.

Il suo corpo era avvolto in una materia biancastra che gli scendeva lungo le cosce ed i fianchi, aggrappandoglisi d'intorno.

Ascoltando, udimmo un monotono sgocciolare che cadeva dall'alto. Comprendemmo subito di cosa si trattava: erano gocce d'acqua calcarea che cadevano sul corpo dell'ex-re e che dovevano, col tempo, trasformarlo in stalagmite.

Solo allora ci accorgemmo che attorno alla tavola stavano delle figure che avevano l'aspetto umano e che erano dei cadaveri pietrificati. È impossibile descrivere l'impressione che ci fece la vista di tutti quei cadaveri pietrificati ed assisi attorno a quella tavola della morte. Erano ventisette, compreso il gigante che stava all'estremità, come se fosse il capo di quella lugubre compagnia.

— Chi sono questi uomini? — chiese il signor Falcone alla Gagoul.

— I re dei koukouana — rispose la vecchia strega.

— Tutti?

— Tutti, capo bianco.

— Vi è adunque qui anche il padre d'Ignosi?

— Sì, è l'ultimo e si troverà ben presto a fianco di Touala, poiché quando quest'ultimo sarà pietrificato, prenderà il suo posto alla tavola della morte.

— Ma chi ha condotto quassù Touala?

— Quattro schiavi, che poi feci uccidere onde conservare io sola il segreto della caverna dei diamanti.

— E quell'uomo gigantesco chi è? — chiese Good.

— Il fondatore del regno dei koukouana.

— È una vera opera d'arte — disse il nostro amico che in fatto di anatomia se ne intendeva. — A questo scheletro non manca nessun osso.

— Un brutto guardiano dei tesori — diss'io. — Se fossi entrato solo in questa caverna per cercare le pietre brillanti, sarei morto di spavento.

— Vi credo — mi rispose il genovese. — Sono certo che nessuno si sarebbe sentito il coraggio di porre i piedi in questa sala della morte. Le pietre brillanti erano ben guardate, ve lo assicuro.