Le caverne dei diamanti/19. I Robinson del deserto

Da Wikisource.
19. I Robinson del deserto

../18. Una partita di caccia di Quatremain IncludiIntestazione 4 febbraio 2018 75% Da definire

18. Una partita di caccia di Quatremain

19.

I ROBINSON DEL DESERTO


Un'ora dopo noi ci riposavamo sotto la fresca ombra delle mimose e delle acacie.

L'oasi era stata finalmente trovata. Quantunque non l'avessimo ancora esplorata, ci parve vastissima. Vi erano boschetti in gran numero, con piante frondose popolate da miriadi di uccelli; delle splendide praterie in mezzo alle quali saltellavano non poche antilopi e parecchi torrentelli i quali scorrevano gorgogliando in mezzo a quel piccolo paradiso perduto nell'immenso deserto.

Dopo esserci abbondantemente dissetati e di esserci riposati una buona mezz'ora, c'internammo nell'oasi, sperando di trovare della frutta e di abbattere qualche capo di selvaggina per la colazione. Avevamo già percorso cinquanta passi, quando con nostra grande sorpresa, trovammo delle orme umane impresse su un tratto di terreno umido ed alcune cartucce già sparate.

— Che quest'oasi sia abitata? — chiese il signor Falcone.

— È impossibile! — esclamai. — Come si può supporre che un uomo bianco si sia spinto fin qui per cacciare?

— Ma chi vi dice che sia un uomo bianco? — chiese Good.

— Quelle orme — risposi. — Non avete osservato che si vedono le tracce di alcuni chiodi? I negri di queste regioni non hanno mai portate le scarpe.

— Bisogna visitare quest'oasi — disse il genovese.

— È ciò che faremo subito — risposi. — Sono curioso di sapere chi può essersi spinto fino qui.

Ci eravamo appena rimessi in cammino quando, dopo di aver attraversato un macchione di niawna, vedemmo Good tornare frettolosamente verso di noi.

— Che cosa avete? — gli chiedemmo, afferrando prontamente i fucili.

— Ho scorta una capanna.

— Dove?

— A venti passi da qui.

— Disabitata forse? — chiesi io.

— No, poiché ho veduto del fumo.

— Allora sapremo chi è l'uomo bianco che abita quest'oasi.

Ci inoltrammo con precauzione sotto gli alberi, ed in breve scorgemmo, dinanzi ad un gigantesco baobab, una graziosa capannuccia rassomigliante a quelle che sogliono costruire i cafri, colle pareti composte di tronchi e di rami d'albero, ed il tetto di foglie secche; solamente in luogo del buco rotondo abituale, una bella porta dava accesso all'abitazione rustica.

Io mi ero arrestato guardandola col più vivo stupore. Non era un'allucinazione del nostro cervello esaltato dall'ardente calore del deserto: si trattava veramente di un'abitazione, e quello che era più, d'una capanna nella cui costruzione s'indovinava l'opera dell'uomo bianco.

— Chi può essere l'uomo che è venuto ad abitare quest'oasi? — mi chiesi.

Non avevo ancora terminato di farmi quella domanda, quando un uomo coperto di pelli d'animali selvaggi, comparve sulla soglia.

Egli era di taglia media, col viso assai abbronzato, con occhi nerissimi, con una barba e capelli lunghi ed incolti: vidi subito che era un uomo bianco. Egli fece alcuni passi verso di noi, barcollando su di una gamba, come fosse ferito o storpio. Il signor Falcone si era precipitato innanzi e dopo d'averlo guardato alcuni istanti in viso, aveva aperto le braccia, gridando con voce soffocata per la grande emozione:

— Cielo! Mio fratello!

L'uomo bianco non aveva risposto una sola parola; era caduto fra le braccia del fratello, come svenuto.

In quel momento un altro individuo pure coperto di pelli selvagge, uscì dalla capanna e si slanciò verso di noi col fucile in mano, come se avesse voluto difendere il suo compagno. Vedendomi lasciò cader l'arma, gridando:

— Macoumazahne, non mi conosci dunque più? Io sono Jim il cacciatore.

Così dicendo il cafro era caduto in ginocchio dinanzi a me, piangendo di gioia e strappandosi contemporaneamente i capelli.

— Io ho perduto il biglietto che tu mi avevi dato — riprese egli. — Invece di prendere la buona via che ci avrebbe condotti alle montagne di Suliman, noi ci siamo trovati in quest'oasi, e sono due lunghi anni che qui dimoriamo, senza avere la possibilità di lasciarla.

— Miserabile! — esclamai. — Tu meriteresti di venire appiccato, ma se ti trovi confinato qui da due anni, il tuo fallo l'hai duramente espiato.

Mentre Jim mi parlava, il fratello del signor Falcone era tornato in sé. I due uomini, che da tanti anni non si vedevano, stettero lungamente abbracciati senza pronunciare una sola parola, come se l'emozione avesse spenta la loro voce.

Io e Good ci eravamo avvicinati. Il signor Falcone, scorgendoci, ci tese la destra stringendo vigorosamente le nostre mani e balbettando a più rispose:

— Grazie! Amici!...

Poi volgendosi verso suo fratello, gli disse:

— Povero Giorgio, io ti credevo ormai morto. Non avendo trovato le tue tracce sulle montagne di Suliman, che io ed i miei due amici abbiamo lungamente esplorate, ritenevo che tu fossi perito nel deserto. Io avevo abbandonato ogni speranza e se ti ho trovato lo devo ad un caso miracoloso.

— Sono circa due anni che io mi trovo perduto in quest'oasi — rispose Giorgio parlando con molta difficoltà.

— Quanto devi aver sofferto in questa solitudine.

— Oh! Immensamente, fratello! Tanto che mi auguravo di morire presto, per porre un termine alle mie pene.

— Ma perché non hai fatto ritorno a Sitanda? La distanza che corre fra quest'oasi e il kraal non è poi tale da spaventare un uomo che ha già traversato il deserto.

— Ma credi tu, fratello, che non l'avrei tentato se l'avessi potuto?

— E chi te lo impediva, Giorgio?

— La mia gamba. Non ti sei adunque accorto che io non posso camminare che con grande fatica? Una piena staccatasi dall'alto d'una rupe, il giorno istesso in cui giungevamo in quest'oasi, mi ha storpiata la destra in modo da non poter intraprendere un viaggio di sole poche miglia. Ma basta: voi dovete essere stanchi ed affamati: entrate adunque nella mia capanna e vi offrirò tutto quello che possiedo.

Prima ch'egli si muovesse, io mi feci innanzi e porgendogli la mano, gli dissi:

— Signor Giorgio, non mi conoscete più?

Il fratello del signor Falcone mi guardò fisso per alcuni istanti, poi esclama:

— Ma sì! Certamente che vi conosco, voi siete il signor Quatremain! Toh! E questo è Good! Non mi sarei mai aspettato di fare un simile incontro in quest'oasi. Ormai avevo perduto ogni speranza di poter rivedere una faccia amica! Tutte le felicità vengono in un colpo solo.

Egli strinse con grande effusione le nostre mani, poi c'introdusse nella sua capanna.

L'interno era diviso in due stanze, una riservata al padrone e l'altra al cafro.

Tutti i mobili consistevano in due rozze scranne fabbricate con rami d'albero ed in due ammassi di foglie che servivano da letto; gli utensili poi erano rappresentati da un tegame di ferro e da alcuni gusci d'uova di struzzo che servivano di recipienti.

Ad un ordine del padrone, il cafro ci servì un bel pezzo di antilope arrostita di recente, dei navoni selvatici e delle radici mangerecce che fino ad un certo punto potevano supplire il pane.

Calmata la fame e la sete, pregammo il povero Robinson di raccontarci le sue straordinarie avventure.

— La mia istoria è breve e niente attraente — ci diss'egli, sorridendo amaramente. — Come voi sapete, signor Quatremain, io avevo lasciato il kraal di Sitanda, per andare a cercare fortuna sulle montagne di Suliman.

«Una negra che avevo conosciuta nel paese degli zulù, mi aveva confidato che sui fianchi di quelle lontane montagne si trovavano delle caverne ripiene di diamanti. Già altre volte avevo udito a parlare vagamente di quei tesori, ma non vi avevo prestato molta fede, credendo che si trattasse di una semplice leggenda. Mi avevano anzi parlato d'un portoghese che si era inoltrato nel deserto colla speranza di mettere le mani su quei tesori, che poi era morto, non so se di fame o di sete.»

— Non si trattava di una leggenda, è vero Good? — dissi io.

— No, poiché noi siamo penetrati nelle caverne dei diamanti — rispose il tenente di marina.

— Voi! — esclamò Giorgio, con tono incredulo.

— Continuate per ora il vostro racconto, — diss'io, — poi vi diremo quanto è toccato a noi.

— Avendo Jim perduto il vostro biglietto che conteneva le indicazioni necessarie per giungere alle montagne di Suliman, io dovetti affidarmi alle vaghe indicazioni degli indigeni di Sitanda o meglio all'istinto del mio cafro. Ci inoltrammo animosamente nel deserto, sperando di poterlo attraversare, ma ben presto ci trovammo come smarriti su quest'oceano di sabbie e privi d'acqua. La fortuna però ci fu benigna e potemmo finalmente giungere in quest'oasi.

«Avevamo deciso di riposarci alcuni giorni prima di rimetterci in via onde giungere alle montagne dei koukouana; una disgrazia doveva immobilizzarmi e condannarmi per due lunghi anni alla poca invidiabile vita dei Robinson.

«Una pietra, come già vi dissi, mossa dal mio cafro mentre cercava, sulla cima d'una rupe, dei nidi d'uccelli, mi cadde addosso colpendomi ad una gamba in così malo modo da rimanere storpio.

«Dopo quel disgraziato accidente, la via del ritorno e la via della fortuna per me erano chiuse, non potendo quasi più camminare. Fortunatamente le munizioni abbondavano e potevamo essere certi di non morire di fame.

«Ci costruimmo questa capanna, dissodammo un pezzo di terra piantando radici mangerecce, dei navoni selvatici e dei poponi e vivemmo alla meglio. La selvaggina accorreva numerosa da tutte le parti del deserto, per dissetarsi a queste sorgenti e la carne non ci faceva difetto.

«Quanta tristezza però, amici miei!... Quest'isolamento continuo era diventato a poco a poco un vero tormento assolutamente insopportabile, tanto più che non avevo speranza alcuna di poterlo sfuggire.

«Così trascorsero i due lunghi anni. Le nostre vesti, ridotte tutto uno strappo, ci erano cadute di dosso pezzo a pezzo, ed eravamo stati costretti a farcene delle altre colle pelli degli animali che uccidevamo. Eravamo diventati due veri selvaggi.

«Avendo ormai perduto ogni speranza di venire salvato da qualche cacciatore di struzzi, rivolsi finalmente di mandare Jim al kraal di Sitanda a cercare soccorsi. Io ero convinto di non rivederlo più, non perché diffidassi di lui, ma perché temevo che dovesse soccombere durante la traversata del deserto, pure era deciso di rimanermene qui da solo, dimenticato da tutti e di finire miseramente i miei ultimi giorni per quell'estremo tentativo.

«Se voi aveste ritardato di alcuni giorni, Jim non l'avreste di certo più trovato qui.»

— Mio povero fratello — disse il signor Falcone, con voce commossa. — Tu hai terminate le tue pene e noi ti condurremo in quei paesi civili che tu credevi ormai di non più rivedere e dove potrai vivere lungamente fra gli agi, poiché tu lo sai bene che io sono ricco assai e che anche tu hai lasciato in patria alcune proprietà.

— Grazie, fratello — rispose Giorgio. — Ma hai pensato che io non posso camminare?

— Costruiremo una barella e ti porteremo a Sitanda.

— La via è lunga assai.

— Che importa? Noi non abbiamo nessuna fretta, è vero signor Quatremain?

— No, signor Falcone. Prenderemo con noi una buona provvista d'acqua, che ci possa durare per molti giorni e marceremo con gran lena dal tramonto all'alba.

— Io m'incarico di portare la barella assieme a Jim — disse Good.

— Grazie, amici! A voi dovrò la mia vita — disse Giorgio.

Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, riprese:

— Ma è dunque vero che voi siete giunti ai monti Suliman?

— Sì, fratello — rispose il signor Falcone. — Noi siamo giunti lassù non solo, ma abbiamo potuto entrare anche nelle famose caverne.

— È vero che vi sono dei diamanti colà?

— Verissimo, anzi il signor Quatremain e Good ne hanno un grosso gruzzolo.

— Veri diamanti?

— Della più bell'acqua — diss'io. — Contiamo di realizzare dei milioni.

— Uomini fortunati.

— Bah! Per mio conto ho rinunciato alla mia parte — disse il signor Falcone.

— No signore — diss'io. — Abbiamo divise le fatiche, le privazioni, ed i pericoli, divideremo quindi anche gli utili.

— Vi ho già detto che io rinunciavo.

— Voi, ma noi daremo la parte che vi spetta a vostro fratello, è vero Good?

— Certamente — rispose il tenente. — Giorgio ha sofferto più di noi ed è stato il meno fortunato.

— Oltre la vita dovrò a voi anche la fortuna? — disse il Robinson del deserto. — Questo è troppo.

— Silenzio — diss'io. — Non parliamo più di ciò e pensiamo a fare i preparativi per il ritorno.

Due giorni dopo noi lasciavamo l'oasi, per far ritorno a Sitanda.

Essendo la via da percorrere ancora assai lunga, colla pelle degli animali selvaggi ci facemmo numerosi otri per mettervi l'acqua, poi fabbricammo una portantina che doveva servire pel nostro disgraziato amico.

La traversata di quell'ultima parte del deserto fu lunga e faticosissima, dovendo riposarci di frequente a causa di Giorgio, ma finalmente, il settimo giorno, noi giungevamo al kraal con grande sorpresa di tutti, avendoci ormai creduti morti fra le sabbie.

Il vecchio portoghese a cui noi avevamo affidato i nostri bagagli fu il più sorpreso di tutti, ed anche, devo dirlo, il più dispiacente di tutti avendo sperato di tenerseli per sempre.

Avendo io fretta di tornarmene nella colonia di Natal per rivedere la mia casetta, lasciai i due fratelli Falcone a Sitanda, avendo essi deciso di fermarsi qualche tempo per riposarsi e per organizzare poi una carovana onde viaggiare più comodamente, e con Good presi la via della costa.

Tre mesi dopo io potevo finalmente riposare nella mia comoda casetta di Durban, in quella casetta che io ormai tante volte avevo disperato di rivedere.

Due mesi più tardi giungevano anche i fratelli Falcone, scortati da una numerosa carovana. Con mia grande sorpresa essi portavano anche i denti dei nove elefanti che noi avevamo uccisi durante il viaggio e che, come i lettori ricorderanno, avevamo sepolti alla base di una collina.

I due fratelli rimasero presso di me qualche settimana, poi s'imbarcarono per l'Europa, portando con loro i diamanti che noi avevamo raccolti nella famosa caverna dei monti Suliman e che si erano incaricati di vendere a Londra, onde ricavare maggior profitto che alla città del capo.

Erano già trascorsi tre mesi dalla loro partenza, quando un mattino vidi giungere alla mia abitazione un cafro, il quale portava una lettera messa in cima ad un bastone leggermente spaccato.

Quella lettera era del signor Falcone e la riproduco su queste pagine, senza levarci una parola.

«Caro amico,

«Voi avrete già ricevuto, coll'ultimo battello a vapore, notizie del nostro felice sbarco in Inghilterra. Oggi voglio darvi maggior particolari.

«La nostra traversata fu felicissima, senza burrasche e senza cattivi incidenti; mio fratello si trovò benissimo, anzi vi dirò che i medici sperano di guarirlo perfettamente.

«Al nostro arrivo a Southampton abbiano trovato Good, che come sapete, era partito col precedente battello a vapore; l'amico era vestito colla sua solita eleganza, raffinato, sbarbato, profumato come un damerino e con un nuovo monocolo cacciato, più profondo che mai, nell'orbita.

«Ed ora eccoci ai nostri, o meglio ai vostri affari. Io ho portato i diamanti da uno dei più noti gioiellieri di Londra per farli stimare, come eravamo d'accordo e sono felicissimo di potervi dire che anche dividendoli con mio fratello e con Good, voi sarete presto ricchissimo.

«Io non potrei ancora dirvi esattamente quanto si potrà ricavare dalla vendita di quei diamanti; vi basti sapere che quelle pietre sono state trovate d'una purezza incomparabile, di gran lunga superiore alle più stimate pietre del Brasile.

«Il gioielliere, sebbene uno dei più ricchi, non potrà acquistarle tutte in una sola volta; le sue finanze sarebbero insufficienti. Una parte però è stata già venduta pel prezzo di dieci milioni e altrettanti di certo e forse di più, riceveremo dall'altra.

«Io credo quindi che la vostra presenza sia ora più necessaria qui che a Durban, mio caro Quatremain.

«Voi sapete che Good non è una persona adatta per trattare affari di tale serietà; curare la sua persona è una occupazione sufficiente per assorbirlo completamente. Andiamo, decidetevi una buona volta e venite a raggiungerci, tanto più che io e mio fratello Giorgio ci siamo accasati definitivamente in questa città. Vicino a noi vi è una piccola ma graziosa proprietà da vendere e voi siete ormai tanto ricco da poterla acquistare.

«Se non avete terminata la narrazione delle nostre avventure, darete gli ultimi tocchi sul battello a vapore che vi trasporterà in Europa. Già la istoria del nostro viaggio straordinario nei paesi dei koukouana è conosciuta da parecchie persone, e qui si attende con grande curiosità la vostra pubblicazione.

«Vi aspettiamo quindi per le feste di Natale che passeremo assieme a mio fratello, a Good ed a vostro figlio Harry, che ho avuto già il piacere di conoscere.

«È un gagliardo garzone che farà molta strada, ve lo dico io.

«Egli è già venuto a caccia con me, ma in questo esercizio non somiglia certo a voi, poiché ha cominciato collo scaricarmi il suo fucile nelle gambe; mi affretto però a dirvi che egli mi ha estratto abilmente il piombo ed ho rimarcato che uno studente in medicina non è mai di troppo in una partita di piacere.

«Mio caro camerata, siamo adunque d'accordo; senza che vi scriva altro, vi aspetto qui col primo piroscafo in partenza per l'Inghilterra. Credetemi vostro.

L. FALCONE».


Tre giorni dopo io lasciavo Durban, sul pacchebotto che salpava per l'Europa, e quarantasei giorni più tardi abbracciavo sul molo di Southampton mio figlio Harry, i due fratelli Falcone, e l'amico Good più azzimato e profumato che mai, ed intascavo sette milioni di lire, parte spettantemi dalla vendita dei diamanti presi nelle famose caverne dei monti Suliman. Non occorre che vi dica che il fratello del signor Falcone e l'amico Good ne avevano intascati altrettanti.