Le novelle della nonna/La sorte di Biancospina

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La sorte di Biancospina

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La sorte di Biancospina

La domenica delle Palme, la Vezzosa era andata a desinare dai Marcucci e aveva portato in casa tutto il corredo, perché la matrigna, che stava meglio, non aveva voluto che si ritardassero di molto le nozze, e aveva mandato una sua sorella, con la sposa, a far lo stacco del vestito di seta. Questo solo mancava; del resto tutto era pronto, tutto stirato, e Vezzosa aveva già messo la biancheria nell’armadio, i mobili al posto, e, sul cassettone, i gingilli che via via s’era comprati o le avevano regalato. Cecco poi era stato alla cura e aveva riportato l’ulivo benedetto e lo aveva messo accanto alla piletta dell’acqua santa, a capo al letto. Il matrimonio era stato rimesso di otto giorni soltanto; dunque si doveva celebrare la domenica in Albis invece che il dì di Pasqua. In casa Marcucci erano tutti così impazienti che quei quindici giorni passassero, per veder la sposina fra loro, che quasi quasi se la pigliavan col tempo il quale, a sentir loro, non era galantuomo abbastanza. La domenica delle Palme era una bella giornata primaverile, e invece di stare in cucina, i Marcucci, che avevano desinato presto, s’eran seduti sull’aia a prendere il fresco; le donne sul muricciolo, gli uomini sopra una trave posata in terra, e la Regina sola sopra una seggiola. - Oggi ci narrate una novella allegra? - domandò la Carola alla vecchia. - Non tanto; ma però vi prometto che non vi farò fare sognacci a nessuno. Che ho da cominciare? Non ho mai raccontato di giorno, e chissà se con tutta questa luce avrò la parola facile. - Per questo siamo sicuri che non vi impappinerete, - disse la Carola. - Se i nostri figliuoli sapessero parlare come voi, potrebbero andare al Consiglio Comunale! - E magari al Parlamento e farci una bella figura fra tutti quei signori! - ribatté Maso ridendo. - Per noi ci voglion le braccia forti e il groppone duro: con le chiacchiere non si vanga questa terra che pare un masso. È meglio che noi abbiamo la forza, e la mamma il cervello pronto e la lingua sciolta. Su, mamma, diteci la novella. E la Regina cominciò:

- Al tempo de’ tempi, quando gli abeti della Verna erano ancor piccini, c’era a Rassina, giù verso Arezzo, una povera vedova per nome Maddalena; ma tutti la chiamavano Lena per far più presto. Lena, dunque, era figliuola d’un signore nobile e ricco, il quale, morendo, aveva lasciato un castello, molte terre, cavalli, buoi, vacche, pecore, e poi grano, olio e vino in quantità, senza contare i quattrini, che li aveva a sacchi. E siccome la figliuola s’era maritata maluccio e, rimasta vedova, era tornata a casa, così, lui, al letto di morte, aveva raccomandato ai figliuoli di metterla a parte dell’eredità. Ma i fratelli, quando il vecchio ebbe chiuso gli occhi, fecero tutto mio, come le civette, e non le dettero nulla. Piero, che era il maggiore, prese il castello, le terre e i cavalli; il secondo, che aveva nome Cosimo, prese le vacche, le pecore e l’olio; Cambio, che era l’ultimo, ebbe i buoi, il vino e il grano, e così a Lena non rimase altro che una capannuccia, che non aveva neppure la porta, dove rimettevano qualche volta i carri. Ella vi faceva portare i suoi pochi mobili, quando Cosimo, fingendo di aver pietà di lei, le disse: - Voglio condurmi verso di te come un buon fratello e un buon cristiano. C’è nella stalla una vacca nera che dà appena tanto latte da nutrire un bimbo di nascita. Puoi prenderla, e Biancospina la condurrà a pascere nei prati. Biancospina era la figliuola della vedova, una bambinuccia di circa dieci anni, ma così pallida e esile che faceva pietà. Pareva davvero uno di quei delicati fiorellini di siepe di cui portava il nome. Lena se ne andò dunque dalla casa paterna insieme con la pallida bambinuccia, la quale si trascinava dietro la magrissima vacca, donata da Cosimo alla sorella. Biancospina stava tutto il giorno nei prati a guardare la vacca nera che raccapezzava a stento qualche filo d’erba esile, seccato dalle brine, ed ella passava il tempo a far delle crocelline di spini, sulle quali infilava i fiori di ginestra, e intanto diceva le orazioni alla Madonna, perché aiutasse la sua mamma, che era tanto povera. Un giorno ella cantava l’Ave Maris Stella, che aveva imparata alla chiesa di Rassina, quando vide a un tratto un pettirosso che andò a posarsi sopra una delle piccole croci di fiori di spini e ginestra, che ella aveva piantate in terra, e si mise a gorgheggiare, movendo la testa e guardandola come se volesse parlarle. La bimba, meravigliata, gli si avvicinò e prestò l’orecchio, ma non poté capire che cosa diceva. L’uccellino aveva un bel gorgheggiare più forte, agitar le ali, svolazzare intorno a Biancospina, questa non capiva nulla, proprio nulla. Nonostante provava tanto piacere a vederlo e a udirlo, che non s’accòrse neppure che s’era fatto notte. Finalmente l’uccello volò via, e quando Biancospina alzò gli occhi per vedere in quale direzione andava, s’accòrse che il cielo era coperto di stelle. Allora ella corse a cercare la vacca nera per condurla a casa; ma, per quanto la cercasse e urlasse per chiamarla, la vacca nera non dava cenno di sé. Biancospina camminò un pezzo, frugando dietro le siepi, dentro i fossi, e avrebbe cercato ancora se non si fosse sentita chiamare da sua madre con voce spaventata. Corse da lei e la trovò tutta sgomenta sul limitare del prato, all’imboccatura della viottola che menava alla capanna. Accanto alla vedova c’era la carcassa della vacca nera. I lupi, scesi dalla montagna, la avevano sbranata, non lasciando altro che le corna e gli ossi. Biancospina si sentì tutta rimescolare, e cadendo in ginocchio si mise a piangere disperatamente. Era tanto tempo che portava a pascere la vacca e le s’era affezionata molto. La bimba ripeteva fra i singhiozzi: - Vergine Santa! perché non mi avete fatto vedere il lupo. Avrei tracciato il segno della croce col bastone e sarebbe fuggito. La vedova, che era davvero una santa donna, cercò di consolare la figlia, e le disse: - Non bisogna piangere la vacca nera come piangeresti un parente morto, piccina mia. Se i lupi sono contro di noi, il nostro Signore Iddio ci proteggerà. Aiutami a caricare questo fastello di legna secche e torniamo a casa. Biancospina fece quello che le comandava la madre, ma ad ogni passo mandava un sospiro e le lacrime le cadevano a una a una sulle gote. «Povera vacca, - pensava, - povera vacca, così docile, che mangiava di tutto e cominciava a ingrassare! Che peccato che i lupi l’abbiano divorata!» Quella sera Biancospina non riuscì a buttar giù un boccone, e andò a letto senza cena. Nella notte poi si svegliò cento volte di soprassalto, perché le pareva di sentir mugghiare la vacca nera, e quando era desta piangeva, e inumidiva il guanciale di lacrime. La mattina dopo si levò avanti giorno e andò scalza sul prato. Appena vi fu giunta, vide il pettirosso sulla croce di spine e ginestre che vi aveva piantata il giorno prima. L’uccellino cantava e pareva che la chiamasse, ma ella non riusciva a capir quello che diceva, e stava per andarsene, quando vide brillare qualche cosa per terra. Ella credé che fosse un fiorino d’oro, e cercò di rivoltarlo col piede; ma non ci riuscì, perché invece di una moneta era erba d’oro, Però, appena l’ebbe toccata, capì quello che le diceva l’uccellino col suo gorgheggio. L’uccellino diceva: - Biancospina, ti voglio bene; Biancospina, ascoltami! - Chi sei? - domandò la bimba meravigliata di capire a un tratto il linguaggio degli uccelli. - Sono il pettirosso che seguì Cristo al Calvario e che ruppe una spina della corona che gli lacerava la fronte. In ricompensa di questo servigio Iddio mi ha permesso di vivere fino al giorno del Giudizio e d’arricchire ogni anno una povera creatura. Quest’anno ho scelto te. - Ma dici davvero, pettirosso? - esclamò Biancospina tutta felice. - Potrò dunque comprarmi una crocellina d’argento e le scarpe? - Avrai una croce d’oro e scarpe di seta e di velluto come le ragazze nobili. - E che cosa debbo fare? - Devi seguirmi dove ti condurrò. Biancospina disse che era pronta e si mise a correre, guidata dal pettirosso, il quale le fece traversare dei prati, poi delle colline, e finalmente, cammina cammina, giunsero in un bel prato sull’Alpe di Catenaia. Quivi il pettirosso si fermò e disse alla bambina: - Non vedi niente sull’erba? - Sì, - rispose Biancospina, - vedo un paio di calzari da frate e un bastone da pellegrino. - Mettiti i calzari e prendi il bastone. - Eccoti ubbidito. - Ora, - soggiunse il pettirosso, - cammina su questa scogliera finché non troverai un picco di montagna, fanne il giro e fermati soltanto quando scorgi una ginestra celeste come il firmamento; coglila e fanne un laccio con lo stelo. Dopo percuoterai il sasso col baston da pellegrino e ne uscirà fuori una vacca. Legala col laccio e conducila a tua madre per consolarla della perdita della vacca nera. Biancospina fece quello che le aveva detto il pettirosso , e quando batté la pietra, ne uscì infatti una vacca, con uno sguardo mansueto come quello di un cane, e un pelo liscio come un gatto. Aveva le mammelle rosee piene di latte e si lasciò condurre alla capanna della vedova, che fu lietissima che il Cielo le avesse mandato quell’aiuto. Quando Lena si mise a mungerla, rimase a bocca aperta, perché il latte le usciva a fonte dalle mammelle senza smetter mai. Lena, con quel latte, empì tutti i fiaschi che aveva, poi le mezzine e finalmente dovette ricorrere alle damigiane perché il latte sgorgava sempre. - Santa Vergine, ma questa non è una vacca come tutte le altre! potrebbe nutrire tutti i bimbi del Casentino. In breve a Rassina e nei dintorni non si parlò d’altro che della vacca della vedova, e per vederla capitavano da tutte le parti. Anche il curato andò da Lena, supponendo che quella vacca fosse un dono del Diavolo; ma dopo averle fatto in fronte il segno della croce, disse che non c’era nulla da temere. I possidenti dei dintorni offrivano a Lena prezzi favolosi per aver quella vacca. Per ultimo vi andò anche Piero, il fratello maggiore, e disse alla vedova: - Rammentati che siamo figli dello stesso padre e che la stessa madre ci ha partoriti; dammi dunque la preferenza sugli altri acquirenti. Lasciami portar via questa vacca e te ne darò dieci in cambio. - Essa non vale soltanto quanto dieci vacche, ma quanto tutte quelle che pascolano in Casentino, - rispose la vedova. - Ebbene, sorella, io ti darò, per averla, la villa dove sei nata con tutti i poderi e il bestiame che v’è. Lena accettò l’offerta e andò a prender possesso della villa e delle terre, e quindi consegnò la vacca a Piero, che la condusse a Firenze, dove sperava di fornir di latte tutta la città e far quattrini a palate. Biancospina pianse molto quando vide andar via la vacca, e rimase afflitta tutto il giorno. Allorché la sera andò nella stalla per rivedere il posto dove stava la vacca, si mise a dire: - Perché non c’è più la buona vacca? Quando la potrò rivedere? Non aveva terminato di dir queste parole, che sentì mugghiare alla porta e capì che la vacca diceva: - Eccomi ritornata, padroncina. Biancospina si voltò e riconobbe la vacca. - Sei tu! - esclamò tutta meravigliata. - E chi ti ha ricondotta? - Non potevo appartenere al tuo zio Piero, perché la mia natura non mi permette di rimanere con quelli che sono in stato di peccato. Così sono ritornata per appartenerti come prima. - Allora bisognerà che la mamma renda la villa e i poderi? - No, perché tutto questo le era stato usurpato ingiustamente da suo fratello. - Ma lo zio verrà a cercarti qui e ti riconoscerà? - No, no, a questo non ci pensare. Va’ subito a cogliere tre foglie di genziana e ti dirò quel che devi fare. Biancospina andò sul monte, e dopo poco tornò colle tre foglie di genziana. - Ora, - disse la vacca, - strofinami queste foglie dalla punta delle corna fino alla punta della coda e di’ sottovoce per tre volte: «Sant’Antonio benedetto!». Biancospina strofinò le foglie di genziana dalla punta delle corna alla punta della coda della vacca, e quando ebbe detto per la terza volta l’invocazione, la vacca s’era trasformata in un bellissimo cavallo. La bimba rimase a bocca aperta a guardarlo. - Ora, - disse il cavallo, - tuo zio Piero non mi riconoscerà davvero, perché fra una vacca e un cavallo c’è una bella differenza. La vedova, nel sapere quel che era successo, ebbe moltissimo piacere, e il giorno dopo volle provare il cavallo per mandarlo a Pratovecchio a portare del grano. Ma figuratevi un po’ come rimase meravigliata quando vide che la schiena dell’animale s’allungava quanto più lo caricavano, così che poteva portare da sé solo tanti sacchi quanti ne portavano tutti i cavalli di Rassina! Questa notizia si sparse in breve per tutto il vicinato, e giunse anche alle orecchie di Cosimo, il fratello secondogenito della vedova, il quale andò alla villa, e, dopo aver guardato l’animale ed averlo veduto caricare, disse alla sorella se voleva venderglielo. - Ben volentieri, - rispose, - ma questo cavallo vale molto. - Lo so, - disse il fratello, - e ti propongo di darti in cambio tutte le mie vacche. - È poco, - replicò la vedova. - Ci aggiungerò anche le pecore, - disse Cosimo. Il contratto fu conchiuso e Lena andò a prendere possesso delle mandrie e del gregge, come aveva fatto dei poderi. Cosimo si portò via il cavallo. La sera, però, l’animale era già tornato da Biancospina, che andò a cogliere, come aveva fatto al ritorno della vacca, tre foglie di genziana, e le strofinò dalla punta degli orecchi alla punta della coda del cavallo ripetendo tre volte: «Sant’Antonio benedetto!». Alla terza invocazione il cavallo si trasformò in un montone coperto di un pelame lungo, morbido e lucente come seta. La vedova, informata del fatto, andò nella stalla per vedere questo nuovo miracolo, e disse a Biancospina: - Figlia mia, va’ a cercare le cisoie del pastore, perché questo povero montone non può reggere tutto il suo vello. Ma allorché volle tosare l’animale, Lena s’accòrse che la lana cresceva quanto più la tagliava, così che quel montone solo valeva quanto tutti quelli del Casentino messi insieme. Di questo nuovo miracolo corse la voce fino ad Arezzo, ove abitava Cambio, il terzo fratello della vedova, il quale andò alla villa, e die’ a Lena tutto quello che possedeva, purché gli consegnasse il montone. Ma mentre tragittava l’Arno col montone, questo si buttò nell’acqua e vi sparì, inghiottito dalla corrente. Biancospina, che era solita veder tornare gli animali che i suoi zii compravano a così caro prezzo, aspettò il montone tutta la sera, lo chiamò ripetutamente senza vederlo giungere, neppure il giorno seguente. Allora corse nel prato dove un tempo portava a pascere la vacca nera, e vide il pettirosso posato sopra un ciuffo di ginestre. - Ti aspettavo, padroncina mia. Il montone non tornerà più, ma avrai ancora bisogno del mio aiuto benché tu sia divenuta una ricca signorina come ti avevo promesso, e tu possa portare la croce d’oro e le scarpe di seta e di velluto. Quando ti accadrà qualche cosa di funesto, rammentati che il pettirosso del Calvario è qui per aiutarti. Biancospina tornò a casa tutt’afflitta e raccontò alla mamma l’accaduto, e la vedova pure si turbò alle parole della figlia; ma aveva fiducia in Dio e sperava da Lui misericordia. Non erano passati tre giorni dacché il pettirosso aveva parlato, che giunse alla villa di Lena il fratello Piero, armato fino ai denti, e incominciò a tempestare che rivoleva i suoi poderi e ogni cosa perché la vacca gli era scappata, e per quanto l’avesse ricercata, non aveva potuto trovarla. Appena Biancospina lo vide, corse tutta tremante nel prato, dove un tempo conduceva a pascere la vacca nera, e chiamò il pettirosso. - Che cosa vuoi, padroncina? - Lo zio Piero minaccia di spogliarci, - diss’ella. - Rivuol la roba sua di riffa o di raffa, e se non gli si rende, menerà il bargello, i soldati e chissà chi altro. - Non temere, Biancospina. Tu devi rabbonirlo e farlo sedere a tavola per mangiare, promettendogli che indurrai la mamma a restituirgli ogni cosa. Nel vino tu gli metterai tre granellini di sabbia d’Arno, di quella su cui corre sempre l’acqua. Vedrai che dimenticherà la vacca, il contratto e tutto, e non rammenterà altro che l’usurpazione commessa a danno della sorella. Biancospina, prima di tornare a casa, corse all’Arno, prese i tre granellini di sabbia, e, tornata alla villa, si accostò allo zio senza temere le sue minacce. Dopo averlo condotto in disparte, gli parlò con tanta manierina di voler indurre la mamma sua alla restituzione dei poderi, che egli incominciò a pensare che sarebbe meglio riaverli con le buone che con le cattive, e si rabbonì. Quando Biancospina lo vide più calmo, lo invitò a sedersi a mensa e gli servì da colazione, non dimenticando di mettergli nel vino i tre granelli della sabbia d’Arno, che dovevano dargli l’oblìo. Essi operarono subito il miracolo. Piero rimase a tavola lungamente, senza rammentarsi più né della vacca, né d’altro, ciarlando del più e del meno, e verso sera, tutto affabile, prese commiato dalla sorella, e, risalito a cavallo, se ne tornò a Firenze. - E uno! - esclamò Biancospina. - Ora vedremo comparir gli altri due. La mattina dopo, come aveva previsto la bimba, mentre tutti erano ancora a letto, udirono colpi ripetuti alla porta di casa. Era Cosimo, armato anche lui fino ai denti, che rivoleva di riffa o di raffa le sue vacche e le sue pecore, dal momento che il cavallo, il famoso cavallo, con la schiena che si allungava a seconda del carico, gli era scappato subito. Biancospina si vestì in fretta e furia e scese giù ad aprire allo zio. - Rendetemi il cavallo e il resto! - urlava Cosimo. - Piano, - disse Biancospina tutta umile. - La mamma dorme ancora, e quando si sveglierà, voi le direte le vostre ragioni, ed ella, che è così giusta e rassegnata a tutto, vi ascolterà. Intanto venite a vedere che il vostro cavallo non è davvero nella nostra stalla. Nel dir così essa condusse Cosimo nella stalla e lo fece accertare che il cavallo non c’era, e non c’era stato da un pezzo. Lo zio sbraitava sempre, perché l’avarizia lo pungeva, ma era meno in collera. - Vorreste mangiar qualche cosa? - gli domandò Biancospina. - Mangiamo per aspettare che tua madre si desti, - rispose Cosimo. Biancospina finse di andare in dispensa a prender da colazione, e invece in due salti fu nell’orto e di lì sul greto dell’Arno a prender tre granelli di rena. Tornò a casa, raccomandandosi a Dio che facesse perder la memoria a Cosimo, come l’aveva fatta perdere a Piero, e si mise a preparare la colazione. - S’ha da aspettare un pezzo? - domandava lo zio, che incominciava a impazientirsi. - Un momento solo, - rispondeva Biancospina con la sua vocina dolce. - Rivolto la frittata e vengo. Abbiate pazienza! Essa portò in tavola quello che aveva preparato, e lo zio si mise a mangiare brontolando, ma più mangiava e meno sbraitava. Intanto Biancospina gli mesceva da bere del buon vino, nel quale aveva messo i tre granelli di sabbia. Quando egli ebbe visto il fondo del boccale, non brontolava più, era invece tutto ilare e sereno, come colui che ha ben mangiato e meglio bevuto. Certo non si rammentava più del cavallo con la groppa che si allungava secondo il carico, né delle vacche e delle pecore che aveva date in cambio dell’animale. Biancospina, a vederlo così tranquillo, supponeva che la rena avesse già prodotto il suo effetto; ma ne fu convinta quando vide l’accoglienza che egli fece alla sorella e le cortesie che le disse sulle gentilezze della figlia. Cosimo si trattenne tutto il giorno, e, dopo aver pranzato con la sorella come se nulla fosse, montò a cavallo per tornare a casa sua. - E due! - disse Biancospina. - Ora c’è da servire il terzo! E infatti, il giorno dopo, giunse pure Cambio, rosso, stizzito che pareva, Dio ci salvi, una bestia. Appena arrivato rovistò la stalla, la casa, la cantina, salì in soffitta brontolando: - Agli altri due l’avete fatta; me non mi gabbate, streghe! Questo insulto lo rivolgeva di continuo alla sorella e alla nipote, che lo seguivano in su e in giù, mogie mogie, e avevano appena coraggio di dire ogni tanto una parola, temendo di farlo andare in furia più che mai. Quando ebbe frugato per tutto ben bene, disse alla sorella: - Ora ti servo io! Non ti accuso di furto, ma di malìa, e vedrai se mi levo il gusto di farti morire sulla forca. Strega, strega! Biancospina soffriva a sentir trattare in quel modo la sua mamma; ma offriva al Signore ogni umiliazione e ogni insulto, e lo pregava di darle pazienza, molta pazienza. - Zio mio, zio caro, - gli diceva, - rientrate in voi stesso: vi pare che si possa esser responsabili noi se il montone s’è annegato? - Ma io sono povero, povero, perché vi ho dato tutto per aver quel montone, e io rivoglio il mio. - Venite a ristorarvi e poi parleremo. - No; non mangerei neppure un uovo in casa vostra, avrei paura del veleno. Streghe, streghe! - Almeno bevete! - Peggio! Non voglio altro che la mia roba. Cambio parlava con tanta stizza, che Biancospina dovette perdere ogni speranza d’indurlo a mangiare e bere. Essa lo lasciò un momento insieme con la sua mamma e corse al prato dove invocò il pettirosso. - Che cosa comandi, Biancospina? - domandò l’uccello presentandosi a lei. - Non comando, chiedo, e chiedo umilmente. Lo zio Cambio pare un diavolo per aver perduto il suo montone; non vuol bere, non vuol mangiare, e io non posso fargli buttar giù la sabbia dell’oblìo. - Sapresti strofinargli la faccia con la rena, oppure soffiargliela negli occhi? Tre granellini entran presto in bocca o nel naso, e appena entrati, addio memoria! - Mi proverò, - rispose Biancospina. E andò via di corsa. Quando ebbe fatti alcuni passi, si sentì chiamare. - Biancospina! Biancospina! - Che vuoi, pettirosso? - Senti: ormai credo che tu non avrai più bisogno di me; i fratelli di tua madre sono puniti, voialtre siete ricche, dunque ti dico addio. - Addio, pettirosso, e grazie di tutto! L’uccellino volò via in cerca di un’altra bimba da arricchire, e Biancospina, dopo aver preso una grembiulata di rena asciutta sul greto dell’Arno, andò a casa di corsa. - Dunque, zio, non la volete fare un po’ di colazione? - domandò a Cambio tutta umile. - La risposta te l’ho già data: rendetemi la roba mia. - Non volete neppur bere? Dovete aver la lingua secca! - Neppure! Fossi matto! Allora Biancospina aprì il grembiule e aspettò il vento. Sottovoce ella pregava Gesù, che ne mandasse una folata sola, tanto da sollevare un po’ di sabbia e portarne tre granellini in bocca di Cambio. Il vento invece si levò impetuoso, la rena che Biancospina aveva nel grembiule si trasformò in una nuvola che avvolse la bimba e lo zio. Il vento però cessò subito e Cambio si mise a gridare con altro tono di voce: - Per carità, soccorretemi, sono accecato, ho la bocca piena di rena! Biancospina corse in cerca di un bacile pieno d’acqua e lo portò a Cambio, il quale la ringraziò tanto tanto. Egli non rammentava più nulla, neppure lo scopo della sua gita a Rassina, e si affliggeva soltanto di aver la bocca e gli occhi pieni di rena. Si lavò ben bene, ebbe parole di ringraziamento per la nipotina, e dopo aver mangiato copiosamente, rimontò a cavallo, e tutto in pace se ne tornò ad Arezzo. - E tre! - disse Biancospina. - Ora vedremo se si potrà campare un poco in pace. La pace, infatti, non fu turbata da nessun avvenimento insolito. Biancospina si godé le ricchezze donatele dal pettirosso, e a suo tempo sposò un signore ed ebbe nobiltà molta, ma si mantenne sempre affabile e compassionevole per i poveri.

E qui, bambini e grandi, la novella è finita, e mi par tempo di entrare in casa, perché l’aria si fa pungente, - disse Regina. La cena era già preparata, una cena frugale ma appetitosa. - Tu resti? - domandò Cecco a Vezzosa. - Per stasera no; ma debbo chiederti un favore: Di’ a Maso che per domenica, che è Pasqua, inviti il babbo e la Maria. Vorrei che anche lei dimenticasse il passato e i miei scatti; che facesse come i tre zii di Biancospina, insomma! - Sarai contentata. Ma ci credi tu alla virtù della rena d’Arno? - domandò Cecco. - No davvero, ma credo a quella della dolcezza, che fa svanire i risentimenti, piega i caratteri più ribelli e cura tutte le malattie dell’animo. - Dunque è la dolcezza che hai usato con la tua matrigna. - Forse!... - rispose la ragazza, - ma chi è stato che me l’ha infusa nel cuore? Tu solo. Dunque il miracolo l’hai operato tu. Cecco non ci credeva ai miracoli, specialmente ai proprî, e ne attribuiva invece la specialità a Vezzosa, che lo aveva corretto della selvatichezza e della ruvidezza, due mènde che s’era trascinate sempre seco nella vita. Il battibecco minacciava di durare un pezzo, senza l’intromissione della Regina, che sentenziò fra i due contendenti: - Vezzosa ha operato un miracolo incivilendo Cecco; Cecco ne ha operato un altro facendo perdere a Vezzosa un monte di difettucci: la vanità, l’alterigia e la smania di passar per vittima, che inaspriva la Maria. - Dunque siamo due santi? - domandò Vezzosa ridendo. - No, santi no; siete due buone creature fatte per volervi bene, - disse Regina ponendo le mani grinzose sulla testa degli sposi, i quali si avviarono soli verso la casa di Momo; ma a un certo punto furon raggiunti da Maso. - Avevi forse paura che rubassi Vezzosa? - gli domandò il bell’artigliere scherzando. - Il sospetto non m’era passato davvero per il capo. Venivo a domandarti se ti farebbe piacere che si facesse la Pasqua insieme con la famiglia di Vezzosa. - Vezzosa lo desiderava, - disse Cecco. - E io son contento d’aver indovinato il desiderio della cognatina. Ora lo dico a Momo, e nessuno mi dirà di no. L’invito, naturalmente, fu accettato con piacere, e la Pasqua prometteva d’essere una vera solennità per quelle due famiglie di contadini.