Le odi e i frammenti (Pindaro)/Le odi siciliane/Ode Pitica II

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Ode Pitica II

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Pindaro - Le odi e i frammenti (518 a.C. / 438 a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1927)
Ode Pitica II
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ODE PITICA II

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Questa ode fu composta, come palesemente appare dai versi 24 sg., súbito dopo il tentativo di Anassilao, frustrato da Ierone, d’impadronirsi di Locri: nel 477. Ciò posto, sembra difficile negare il rapporto fra il mito d’Issione, narrato in essa, e i fatti che la ispirarono. Issione è Anassilao, che, beneficato da Ierone (v. pag. 17) lo ripagava con l’ingratitudine. E bisognerà intendere, o che aveva intrapresa la spedizione contro la esplicita volontà del signore di Siracusa, o che aveva reluttato alle sue prime imposizioni. Naturalmente, il rapporto si limita al fatto in genere; e ridicolo è andare a ricercare chi fu Era, chi la nuvola, e chi il Centauro. Parrebbe superfluo dirlo. Cosí fosse!

L’ode è di larga linea, varia di contenuto, ricca di particolari. Il piano tuttavia è semplice. Dall’elogio dei corsieri (1-15) si passa ad esaltare l’ultima gesta di Ierone (v. pag. 17). Altri poeti cantarono altri re: i canti Ciprî esaltano Cínira: la vergine epizefiria, salva dai rischi di guerra, esalta Ierone (16-27). Segue il mito (28-64): e dopo una breve divagazione su cui torneremo (65-74), ecco l’elogio di Ierone (75-89): in cui alle solite lodi convenzionali per la ricchezza, il senno e la fama, s’aggiunge quella per le imprese guerresche (82-86). Un’altra breve divagazione in cui il poeta offre il suo canto (89-94), introduce ad una parte personale e polemica (95-116). Pindaro esorta Ierone a pensare con la sua testa, e a non [p. 36 modifica] lasciarsi trascinare dalle illecebre degli adulatori. C’è nella sua corte una scimmia furba che carezza lui e carezza tutti, amici e nemici (109; cfr. 110 sg.); poi calunnia Tizio presso Caio, e Caio presso Tizio; e specialmente adopera le sue arti contro Pindaro. Pindaro non si cura di lui. Il calunniatore, con le sue perfidie, sprofonda, come la rete pei suoi piombi: Pindaro galleggia come sughero. Pindaro non tiene il piede in due staffe: amico per gli amici, nemico pei nemici; e un uomo simile può giovare in qualunque forma di governo. — Nel finale (116-128) c’è una frecciata contro gl’invidi che non sanno sopportare la felicità conceduta dai Numi ai piú possenti di loro, e che meglio farebbero a chinare il capo. —

Ora, chi è la scimmia? Bacchilide? Simonide? — Non sapremmo dirlo con certezza; ma ciò nulla toglie alla intelligenza del brano, molto vivace ed immaginoso. Cosí possiamo fare a meno di sapere con sicurezza assoluta chi sia l’invido al quale meglio converrebbe non calcitrare al pungolo del piú forte. Forse sarà Anassilao stesso. Però anche intorno a questo tempo Polizelo aveva fatta la sua levata di scudi (cfr. pagina 17); e l’allusione potrebbe essere diretta anche a lui. È inutile insistere troppo. Piuttosto bisognerebbe fissar bene il significato delle parole: «Ma io dell’oltraggio — il morso veemente bandisco». Il meglio mi pare sia collegarle strettamente al mito, e riferirle al fatto dal mito stesso simboleggiato. Pindaro potrebbe dir male di Anassilao; ma preferisce non farlo; e passa senz’altro all’elogio di Ierone.

Le parole: io giungo da Tebe opulenta (v. 4), non vanno prese alla lettera. Pindaro dice che invia questo canto sul mare, al pari d’una merce fenicia (90): ed è chiaro che non poteva trovarsi simultaneamente a Tebe ed a Siracusa. — L’adulazione del verso 11, che Artemide ed Ermete stesso aggioghino le puledre di Ierone, è un po’ troppo cortigianesca e di dubbio gusto. — A qual poeta s’alluda nel verso 11, [p. 37 modifica] non sapremmo dire. Così, non è chiaro perché venga ricordato Cínira. Forse perché Cinira era sacerdote di Afrodite cipria, e Gelone era sacerdote di Demètra e Persefone, per diritto ereditario acquisito dall’avolo suo Teline quando riuscí a placare due fazioni contendenti in Gela. — Issione perpetrò il primo scempio consanguineo (v. 39) sul suocero Deione: lo invitò ad un banchetto, e lo fece precipitare in una fossa mascherata, piena di carboni ardenti. — Chi s’apparecchia a lodare Ierone (v. 81) fa come chi incomincia prospera navigazione: andrà presto e lontano. — Il brano sull’aria di Castore (92), anche senza tener conto d’un aneddoto insulso riferito dallo scoliaste, presenta qualche difficoltà. Io intendo che questa aria di Castore fosse un’aria famosa (v. pag. 29); e che Pindaro l’avesse adattata o, meglio, avesse adattate ad essa le parole dell’ode, scrivendo poi l’accompagnamento — armonizzandola, e strumentandola, diremmo noi, sulla cètera eolica. E in grazia di questa sua armonizzazione, Pindaro prega Ierone di fare buon viso all’aria ben cognita.


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PER IERONE DI SIRACUSA

VINCITORE COL CARRO A PITO



I



Strofe

O Siracusa, o tu grande città, Santuario di Marte,
del Nume di guerra,
nutrice beata d’eroi, di validi in guerra corsieri,
io giungo da Tebe opulenta, recandoti un canto
che della rombante quadriga t’annunzi il trionfo.
Vincendo sovr’essa, Ierone
col miro fulgore dei serti recinse la fronte d’Ortigia,
la sede fluviale d’Artèmide, che forza gl’infuse,
sí ch’egli le redini
dipinte reggendo con mano leggera, domò le puledre.


Antistrofe

Poi che con ambe le mani la Vergine vaga di frecce
e il ginnico Ermète
le fàlere lucide adattano, quand’egli il vigor dei corsieri
costringe alla biga sua fulgida e ai docili cocchi,
chiamando il possente Signore che vibra il tridente. —
Per altri sovrani compose
un altro poeta già l’inno sonoro, compenso a prodezza:

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sovente le ciprie canzoni si levano a gloria
di Cínira bello,
cui Febo, che d’oro ha le chiome, dilesse dal cuore profondo,


Epodo

di Cínira, allievo e ministro
di Cípride — mira la Càrite,
e premia le nobili gesta:
e te, di Deinòmene figlio, dinanzi alle case di Locri
Zefiria, la vergine or canta,
che, salva dai rischi di guerra,
mercè di tua possa, può il ciglio levare secura. —
Si narra che Issíone, via tratto dall’ali del disco
perenne rotante, per legge dei Superi,
insegni ai mortali tal norma:
che devesi rendere grata
mercede a chi bene ti fece.


II



Strofe

Chiaro ei l’apprese: ché vita felice gli aveano a sé presso
largita i Cronídi;
né poi la sua grande fortuna serbò: ché con brama delira
s’accese per Era, consorte del letto di Giove.
E lui la protervia sospinse ad immane rovina.
Punito fu subito. Un degno
castigo, ei mortale, sofferse. S’aggrava in eterno la pena
su lui, per un duplice fallo: perché fra le genti
mortali, egli, primo
d’ogni altro, non senza la frode, mescé consanguinea strage;

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Antistrofe

e perché un giorno, nel talamo superbo, d’amore tentò
la sposa di Giove.
Convien che ciascuno i suoi limiti conosca. L’adultera brama
lo spinse a fatale rovina, mentr’esso al giaciglio
movea. D'una nuvola a fianco si giacque lo stolto,
illuso alla dolce parvenza:
ché simile in tutto alla figlia di Crono, all’eccelsa regina,
l’aveano plasmata, fallacia, specioso supplizio,
le palme di Giove.
Cosí per mercede, fu Issione legato alla ruota quadruplice.


Epodo

È questo il suo strazio. Ed avvinto
nei ceppi infrangibili, insegna
agli uomini tale sentenza. —
E senza le Grazie, la Nuvola, solo essa feconda, gli diede
un solo, un orrendo rampollo,
che pregio non ha presso gli uomini
né presso i Celesti. Lo crebbe, lo disse Centauro.
Ed esso alle falde del Pelio s’uní con puledre
Magnesie; e una turba stranissima nacque,
che simile a entrambi i parenti
aveva l’aspetto: di sopra
al padre, di sotto alla madre.


III



Strofe

Esito certo prefigge, a ciò che desidera, il Nume:
il Nume, che coglie
le penne dell’aquila a volo, che giunge nel mare il delfino,

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che alcuno prostrò dei superbi mortali, e concesse
ad altri ognor florida gloria. Ma io dell’oltraggio
il morso, veemente bandisco:
ché vidi, sebbene da lunge, sovente il maledico Archiloco,
che impingua tra l’odio e le scede, restar di miseria
nei lacci irretito.
Avere ricchezza e saggezza, è bene supremo per gli uomini.


Antistrofe

Senno e ricchezza tu hai: tu cuor liberale a mostrarla.
O Sire, o Signore
di molte città cui ghirlandano torri, e d’eserciti molti,
se dice talun che ne l’Ellade altr’uomo, fra quanti
or vivon, t’avanza per beni, per fama onorata,
con futile mente s’affanna,
con vane parole. La tua virtú celebrando, io disciolgo
le vele per prospero corso. Conviene ai gagliardi
garzoni l’ardire
di zuffe terribili; e gloria perenne tu pure trovasti,


Epodo

tra furie d’equestri cimenti
pugnando, azzuffandoti a piede.
E il tuo ben maturo consiglio,
fa sí ch’io lodare ti possa con voce che inganno non teme,
per ogni argomento. — Salute!
Al pari di merce fenicia
per te questo canto s’invia su le spume del mare.
E tu, di buon animo, di Càstore l’aria, sposata
ad èole corde contempla: tu accoglila

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mercè della lira settemplice. —
Conosci te stesso, sii tu.
Ai pargoli sembra vezzosa


IV



Strofe

sempre vezzosa, la scimmia. Ma in fama salí Radamanto
perché di saggezza
spiccò l’impeccabile fiore; né l’animo allieta alle illecebre
che sempre aderiscono all’arti di chi piaggia e mormora.
È male incurabile calunnia che all'uno ed all'altro
si volga: è volpina saggezza.
E a queste volpecole furbe, quale utile arreca tale arte?
La rete gravata dai piombi, profondasi tutta
nei gorghi del mare;
ed io, come sughero, illeso galleggio sul fiore dei flutti.


Antistrofe

Mai cittadin frodolento potrà suggerir fra gli onesti
parola ch’abbia esito.
Ma pur, verso tutti scodinzola, intreccia ogni subdola astuzia.
Codesto umor suo non partecipo. Amico agli amici;
ma contro i nemici nemico, a guisa di lupo m’avvento
qua e là, per obliqui sentieri.
E l’uomo che ha franca parola giovare può in ogni governo:
e nella tirannide, e quando la rude plebaglia
dirige lo stato,
e quando governano i saggi. Col Nume lottar non conviene,

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Epodo

che ora solleva la sorte
degli uni, ora ad altri concede
purissima gloria. Ma questo
pensiero non placa degl’invidi le menti, che a mèta troppo ardua
volgendo le brame, nel seno
s’infiggono piaga d’angoscia,
ben pria d’ottenere quanto essi vagheggiano in cuore.
Val meglio l’impostoci giogo con animo calmo
portar: contro il pungolo vibrare lo zoccolo
mi par sdrucciolevole tramite.
A me sia concesso fra i buoni
trovarmi, e goderne l’affetto.