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Le solitarie/Confessioni/Storia di una taciturna

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Storia di una taciturna

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Confessioni - Clara Walser Una volontaria
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STORIA DI UNA TACITURNA.

Caterina fece la sua comparsa nel mondo assai discretamente, senza cagionar troppe sofferenze a sua madre, una piccola donna un po’ gobba che aveva paura di tutto: del temporale, dei topi, delle stanze buie, della serva e del marito. Fu messa a balia presso una contadinotta della Bassa Lombardia, tozza e robusta, la quale, quando le toccava andare ai lavori dei campi, legava la piccoletta nella culla, dicendole: sta quiètta, rattin; e la piccoletta se ne stava davvero tranquillissima per ore ed ore, succhiandosi un ditino, cogli occhi chiusi.

A quattr’anni aveva già imparato che, quando il babbo (grave e saputissimo ragioniere imbottito di cifre) era tornato a casa dagli [p. 208 modifica] uffici del Credito Nazionale, bisognava giocar negli angoli, adagio, senza far rumore.

A quindici, la cattiva digestione dei complicati programmi dei corsi tecnici le aveva ingiallita la pelle, cerchiati gli occhi, resa la bocca amara e impoverito il sangue: per la qual cosa il padre pensò di tenerla in casa ad aiutar la mamma, sempre più gobba e spaurita, nelle faccende domestiche. Tanto e tanto, professori e maestri parlavan di lei con compatimento, come d’una di quelle scolare che nulla possiedon di buono se non la “savia condotta„, la diligenza e la calligrafia.

— Non ha fantasia!... — diceva l’insegnante d’italiano.

— Manca della facoltà di deduzione!... — brontolava l’insegnante di scienze esatte.

In fondo, il padre non era malcontento di tal risultato. A lui piaceva, nella casa, spadroneggiare senza trovar resistenza, sdottorare senza essere mai contradetto: era il tirannucolo borghese senza bontà, tirchio e sentenzioso. Se la fortuna non gli avesse concessa una moglie stupida, a renderla tale ci avrebbe pensato lui.

Fra quei due, Caterina crebbe, tacita e [p. 209 modifica] laboriosa, nè brutta nè bella, nè alta nè bassa, nè grassa nè magra. Anima chiusa; ma non si pensava ad aprirle la porta. Figura comune; ma i lunghi capelli castagni sarebbero parsi folti, se pettinati meglio; e gli occhi grigi sarebbero parsi grandi, se ella avesse osato fissar la gente in volto. Ma il padre la trattava come la serva numero due: quella numero uno era — s’intende — la moglie: della fantesca, che veniva ad ore pei bassi servizi, aveva maggior rispetto. La pagava, costei: le altre due gli appartenevano, diamine!... e portavano il suo nome.

Egli soleva dire agli amici, con un sogghigno che voleva essere mefistofelico:

— In casa si deve essere obbediti. Non bisogna, quindi, metter romanzi in mano alla moglie, nè dare troppa istruzione alle proprie figliuole.... Le donne devono servire. Devono dipendere da noi, in ogni atto e fino all’ultimo centesimo. Fuor di ciò non può esistere ordine.

Il segaligno e fegatoso omuncolo non acconsentì, naturalmente, alle nozze della figlia, se non quando fu ben certo di metterla fra le mani d’un genero fatto, — salvo l’età e la florida persona — a sua immagine e [p. 210 modifica] somiglianza: un impiegato di prefettura, che cercava moglie perchè, a conti fatti, una mogliettina sana ed attiva, buona cuoca sovra tutto (su questo punto egli era inesorabile) gli avrebbe reso miglior servizio d’una fantesca.

Non si seppe mai se Caterina fosse innamorata del suo promesso: non parlava che a monosillabi. Disse di sì cogli occhi bassi: si cucì da sola tutto il corredo e anche l’abito da sposa, che la rese più goffa del solito: salutò freddamente il padre e la madre, e se ne andò verso il suo destino.

Destino comune — in apparenza — d’una donna comune.

Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. — La pulizia del piccolo appartamento, la spesa, il bucato, la stiratura, le cure del pranzo e della cena, il tutto regolato dalle inesorabili sfere dell’orologio: il tutto spezzato, a periodi, dalle dolorose ma dolcissime eclissi dei parti. Dal marito non le venivano nè gioie, nè reali maltrattamenti. Egli saliva [p. 211 modifica] di grado, si gonfiava di se stesso, il giorno all’ufficio, la sera a discutere di protocollo e di politica cogli amici, fra un sorso e l’altro di birra: bell’uomo, vanesio, che aveva una singolar maniera di dire, scotendo il capo tra il soddisfatto e l’irrisorio:

— Già, le mogli non capiscono nulla!...

Ella udiva e taceva: aveva sempre taciuto, tacerebbe sempre. Del resto, che le importava?... Saziarsi di quella frase, ripeterla su tutti i toni, era una delle ragioni di vivere di suo marito; e lei.... lei era stata sposata appunto per questo: perchè era una povera piccola donna, una donna comune.

Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. — Giacomo, il primogenito, metteva i baffi ed entrava in liceo: Gigetta, segaligna e pedante come il nonno, si preparava per la scuola magistrale: entrambi ostentavano la modernità di atteggiamenti e la sicurezza di giudizi della nuova generazione — e consideravan la madre passiva e taciturna dall’alto della loro vacua superiorità. L’orgogliuzzo del pater-familias si compiaceva ugualmente dell’ombra in cui viveva la moglie e dell’ingannevole parvenza d’ingegno pavoneggiante nei figli. [p. 212 modifica]

V’è chi cammina, solo, pei deserti. — V’è chi naviga, solo, pei mari. — Vi sono vite di donne intessute così, a filo liscio, bianco su bianco. — Si ignora tuttavia se questa monotona bianchezza, che può anche essere di sepolcro, nasconda in sè minor tragicità di altre tele d’esistenza a trame aggrovigliate d’oro, di gemme e di sangue.

Le rughe incominciarono, lentamente, a disegnar la loro rete sul volto tranquillo ed impenetrabile di Caterina. Tranquillo ed impenetrabile, anche quando ella s’accorse che Giacomo rubava denari dal cassetto dello scrittoio paterno, aprendolo col mezzo d’una chiave falsa. Tranquillo ed impenetrabile, anche quando ella s’accorse che suo marito pizzicava volentieri la serva in cucina, e si alzava di notte con infinite precauzioni, per scivolare, a piedi nudi, lungo lungo nel camicione bianco a sacco, fino allo stambugio in cui dormiva la ragazza.

Caterina fece mettere, col pretesto dei ladri, allo scrittoio una novissima chiave inglese, — e tacque: scacciò la domestica col pretesto ch’era ghiotta e fannullona — e tacque. Altre succedettero a costei nella casa; e tutte [p. 213 modifica] vennero successivamente licenziate, quale per inettitudine, quale per insolenza, quale perchè rubava sulla spesa. E il vicinato accusava Caterina d’incontentabilità; e il padrone si fregava le mani....

Una, tuttavia, rimase: una loschetta col seno enorme e i capelli unti. Caterina era stanca di lottare in silenzio. Si rassegnò. La notte, fingendo di dormire, rigidamente distesa lungo la sponda del letto, ascoltava l’uomo allontanarsi: ritornare, dopo qualche ora: strisciar fra le lenzuola come un lungo serpente, e russar quasi subito, con un bizzarro fischio alternato a gemiti gutturali. Ella si drizzava allora sui guanciali, allargando gli occhi nell’ombra. Occhi terribili, che nessuno le aveva veduti mai: occhi che inghiottivano la tenebra e ne erano inghiottiti: torbidi specchi di un’anima abbeverata di nausea, vigile in solitudine, distaccata da tutto.

Quei terribili occhi pur le videro i figli, il giorno in cui, chiamati per telegramma — Giacomo da una borgata del Veneto dove aveva impreso a condurre una farmacia, Gigetta da una città delle Marche dove era stata nominata maestra, — trovarono la donna [p. 214 modifica] immobile presso il letto del padre, morto di sincope.

E molti gesti di dolore essi fecero, e sparsero molti lamentosi pianti, poiché così vuole la convenienza; ma Caterina non si dipartì dal suo gelo.

A funerale compiuto, nella camera mortuaria in cui persisteva un odore dolciastro di cera, di fiori e di putrefazione, i due fratelli offersero alla madre di venire ad abitar con loro; ma debolmente, come chi tema un sì. Giacomo, infatti, aveva in vista un matrimonio lucroso, che gli avrebbe permesso di comprar la farmacia; e Gigetta, oh!... Gigetta era una modernissima che adorava la propria libertà, pranzava ogni sera ad un ristorante cooperativo, apparteneva alla società pel voto alle donne, e manteneva un’attiva corrispondenza con direttrici di riviste e presidentesse di comitati.

La vedova capì a volo, e rispose di no, semplicemente. Un mese dopo la sua disgrazia, col solo mobilio necessario per tre stanzette, si stabiliva nel villaggio dove cinquant’anni prima era stata messa a balia, e dove era tornata varie volte, in giovinezza, per le vacanze. [p. 215 modifica]

Qualche anziano del paese si ricordava tuttora di lei; il parroco, gran vecchio robusto, bizzarro nei modi, franco nel linguaggio, infaticabile nell’esercizio del bene, l’accolse con queste parole, rifocillanti come un liquore:

— Benvenuta!... Siete qui per lavorare?... Vi sarà molto da fare per voi.

Così ebbe principio la vera gioventù di Caterina.

La sua casetta, — un buco rustico, per contadini — confinava con la canonica, e guardava l’erba del sagrato. Una siepe di biancospini, abbracciata da vilucchi di campanule, separava il giardino del curato dall’orticello della vedova, azzurro di cavoli, giallo di camomille, picchiettato dalle gaie macchie variopinte delle dalie e delle petunie. Ella si alzava alle cinque, entrava in chiesa al din-din infantile della fessa campanella annunziante la prima messa, fra il si e il no della luce, fra gli svolìi chiacchierini delle rondini di sotto agli embrici. La chiesetta spoglia, dai muri bianchi di calce, sui quali i quadri della Via Crucis mettevan [p. 216 modifica] chiazze violente di rosso e di turchino, non conteneva a quell’ora che poche donnicciole avvolte in scialli neri, venute certo a raccomandarsi a Dio, perchè le aiutasse a soffrire. Caterina amava sentirsi confusa con loro: l’argentino scampanellio del Sanctus la metteva sempre in istato di grazia.

Dopo la mattutina offerta spirituale, la sua giornata era divisa tra gli infermi e i poverissimi del villaggio: a tempo perso, v’era l’orto da coltivare.

Tutti i bimbi trascurati, tutti i vecchi indigenti dei dintorni impararono a conoscere la piccola donna dai capelli color di cenere. Far della notte giorno in qualche camera d’agonia fu per lei dolce più della preghiera. Un’epidemia di tifo passò, durante un’estate tragica, fra i contadini, con l’inesorabilità d’una falce che mieta un campo di frumento. Un’epidemia di scarlattina devastò, durante un tragico inverno, le case ove sorrideva l’infanzia. Caterina parve allora l’ombra del medico e del parroco, pronta a seguirli fino alle più lontane fattorie, noncurante del caldo, del freddo, della fatica, dell’infezione, del pericolo.

Non parlava mai di sè, nè del passato, nè dei [p. 217 modifica] figli. Ova, latte e legumi le bastavano per cibo: la sua magra pensione di vedova d’impiegato governativo passava in gran parte nelle mani dei poveri. Si veniva da lei per consiglio. Ella guardava spesso cader la pioggia, sfioccarsi le nubi, sorgere e tramontare il sole, sbocciare od appassire un fiore, con la fresca sorpresa di chi mira tali bellezze per la prima volta.

— Una donna insignificante, via, dalla quale è fatalmente sbucata una beghina — pensava di lei Gigetta, divenuta ormai un personaggio importante che parlava nei congressi e collaborava a riviste di pedagogia.

— Meglio così — concludeva Giacomo, mettendosi la sua miglior cravatta per far visita alla fidanzata.

— Qualcosa ci deve covar sotto — ruminava fra sè e sè il vecchio parroco, stringendo le labbra argute e sfavillando bonaria malizia di sotto agli occhiali. Poi, ritto presso la siepe viva ch’egli sorpassava di tutta la testa, chiamava, col suo vocione di basso profondo:

— Signora Caterina?... signora Caterina?...

E il cancelletto gli veniva subito aperto; e [p. 218 modifica] lì, lunghe e pacate discussioni sui legumi dell’orto, su un cespo di gladioli che era necessario trapiantare, sul rosaio che pativa, sul terreno che aveva bisogno d’ingrasso. E potavano, raschiavano, vangavano, nei calmi tramonti che trascoloravan lentamente su cieli e pianure, portando con sè la misteriosa parola di Dio.

Fu in uno di quei crepuscoli, carichi di sapienza e d’indulgenza superumana, che la donna, irrigidendosi, mormorò al prete:

— Reverendo, vorrei confessarmi. Ma non al confessionale. Qui.

Le era venuto, ad un tratto, un viso livido di agonizzante. Il vecchio erculeo si raddrizzò ancor più sulla persona, s’illuminò in fronte, parve ingigantire nella dignità del ministero sacro.

— Eccomi — rispose.

E precedette la donna nella cucina invasa di rosea penombra, sedendo sul pancone a lato del focolare spento. Ella, in ginocchio sullo scalino di pietra, appoggiandosi con una mano all’alare, parlò.

— Io ho lasciato morir mio marito senza soccorso. Dunque l’ho assassinato. Ma [p. 219 modifica] vorrei cominciare dal principio.... Dio, che pena!... Mio marito.... come dire?... si serviva di me; ma non mi amava. Era il mio padrone. Io ero il suo cane. Nient’altro, nient’altro.... Anche mia madre, press’a poco, aveva subito lo stesso destino: io l’avevo veduta, d’anno in anno, cancellarsi, dissolversi sotto la mano di ferro di mio padre. Padre, veramente, nel mio cuore, io non l’avevo mai potuto chiamare. Mi batteva: non esigeva da me che silenzio, obbedienza, servitù. L’ho odiato. Molti figliuoli odiano così il loro padre, nell’intimo. È un grave peccato, questo?

— Sì. Ma andate avanti, povera anima.

— Mio marito non mi tiranneggiò, nel vero senso della parola. Vi sono uomini che si fanno adorare, maltrattando con violenza di passione la creatura che posseggono. Ma lui si accontentò di tenermi in tranquillo dispregio, lasciando crescere felici e liberi i figli. E i figli mi compatirono, certo. Mi disprezzarono anch’essi, forse. Io avevo troppo imparato a tacere, a vivere compressa e silenziosa, fin dall’infanzia. Non mi difesi, non cercai di conquistarmeli, mi rinchiusi in me. Nessuno penetrò nella mia vita interiore. Nessuno, da quando [p. 220 modifica] io venni al mondo (forse mia madre, ma nulla poteva per me) pensò mai che io avessi un’anima. Si vive soli, abbandonati, così, in famiglia, a contatto degli altri, delle creature del proprio sangue. E della famiglia, e anche dei figli, si finisce coll’aver la nausea, una nausea mortale. Non è mostruoso, questo?... Non è peggiore d’un delitto?...

— Sì. Ma continuate, povera anima.

— Forse è colpa mia, è colpa mia. Ma che potevo fare?... Dunque.... dunque ascolti. Io avevo perduto il sonno. L’ultima notte, udii mio marito rientrar dalla camera della serva. La faccenda durava da tempo, io lo sapevo; ma m’ero messa il suggello sulla bocca. Che schifo!... Solo, quell’ultima notte, a pena strisciato nel letto, egli ebbe un brivido, un gemito soffocato, un rantolo. Erano le tre. Girai la chiavetta della luce elettrica. Si era portato le mani alla gola e restava lì, con gli occhi fuor dell’orbita, strangolato dall’asfissia, irriconoscibile. Mi vedeva, mi guardava, lui. Attendeva soccorso da me. Io non mi mossi: china su di lui, immobile, di pietra, spiai fino alle sei del mattino, su quel viso, su quel corpo, la maledizione del male subitaneo che [p. 221 modifica] lo inchiodava nell’impotenza della carne vile. Rantolava e non lo aiutavo, folle di rancore e di perversità, come se io stessa l’avessi colpito a morte. Non so qual forza mi tenesse. Quando chiamai, stava per spirare. Soccorso, salvato a tempo, avrebbe forse potuto sopravvivere, guarire. Sono un’assassina.

Ansava. Vi fu un silenzio rotto solo da quell’ansimo. Viva, in ascolto, una stella, nel quadrato di cielo color d’ametista intagliato nel vano della finestra aperta, diceva: So, so. — Diceva quel che il prete non poteva dire.

— Vedete bene — proseguì la vedova, più con la bocca che con la voce. — Espio come posso. Ma è così dolce curare i malati, assistere i moribondi, insegnare ai bambini!... Troppo dolce. Troppo mi piace. Ero forse nata per essere infermiera, o suora di carità. Nutrirsi dell’altrui dolore, per confortarlo, è gioia, è felicità. Debbo scontare, io. Ordinatemi una disciplina più aspra, una penitenza più dura. Sono pronta. So che ho commesso un delitto.

Attese, a capo basso. Il vecchio prete, raccolto in sè, meditava e pregava. Non era stupito. Troppe cose tremende egli aveva udite [p. 222 modifica] in cinquant’anni di sacerdozio, nel buio delle confessioni tragiche. Nessun segreto avevano per lui i sottostrati delle famiglie, i dietroscena delle case e delle anime. Sapeva che ogni cuore al mondo è solo, e che l’aiuto non si ha da nessuno, se non da Dio. Sapeva, anche, che l’aiuto di Dio si manifesta talvolta in modi che a noi non è dato di giudicare.

Posò la mano sulla testa grigia della donna, curva in ginocchio sullo scalino del focolare: guardò la stella benevola, palpitante nel quadrato della finestra, e disse:

Ego te absolvo.