Le stragi delle Filippine/Capitolo XI - La prima scaramuccia

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Capitolo XI - La prima scaramuccia

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Capitolo XI


LA PRIMA SCARAMUCCIA


Il malese, proprietario di quella villetta, fece ottima accoglienza ai due capi insorti ed a Than-Kiú, presentati dal giovane chinese, mettendo a loro disposizione la sua casa, i suoi animali, i suoi servi e anche la sua borsa.

Era un vecchio isolano di Mindanao, emigrato giovanissimo a Manilla e che aveva già preso parte a piú d'una insurrezione. Fiero nemico della dominazione spagnuola, aveva abbracciata la causa degli uomini di colore, aiutando i suoi confratelli, con armi e denari, non avendo potuto, in causa dell'età troppo avanzata, unirsi a loro.

Il brav'uomo pregò gli ospiti di fermarsi alcune ore nella propria casa per rifocillarsi e riposarsi, consigliandoli a partire alla sera per evitare l'incontro delle bande nemiche che da Dasmarinas a Las Pinas si concentravano verso l'Imus.

Hang-Tu ed i suoi compagni, che erano stanchissimi, non rifiutarono il cortese invito, tanto piú che la valorosa Than-Kiú, malgrado la sua forza d'animo, appariva molto abbattuta dopo quelle due notti insonni.

Fecero onore al copioso pasto fatto allestire dal vecchio malese, poi si ritirarono nelle stanze loro assegnate per prendere un po' di riposo, mentre Sheu-Kin si recava nel recinto a scegliere i piú vigorosi e piú rapidi cavalli, per forzare le linee spagnuole.

Alle sei di sera, quando il sole cominciava a scendere verso il mare, i tre insorti e la giovane chinese si rimettevano in sella, scendendo verso la Laguna della Baia, volendo evitare Las Pinas che sapevano occupata da una parte delle truppe del generale Cornell.

Sheu-Kin, che si era recato piú volte a Salitran ed a Cavite e che aveva percorse le sponde occidentali del lago, li guidava attraverso l'istmo. Hang-Tu gli teneva dietro, ed ultimi venivano Romero e Than-Kiú i quali cavalcavano l'uno a fianco all'altra.

La chinese taceva sempre, ma di tratto in tratto guardava il compagno, il quale pareva tanto pensieroso da non curarsi di guidare il cavallo. Già due o tre volte Than-Kiú, che vegliava attentamente, aveva trattenuto l'animale sull'orlo di alcuni crepacci, senza che il cavaliere se ne fosse accorto.

Quell'indifferenza da parte del meticcio, addolorava assai la giovane. I suoi occhi pieni di dolcezza malinconica, a poco a poco s'inumidivano e negli angoli si raccoglievano lentamente due grosse lagrime; pure nessun sospiro, nessun sussulto tradiva quell'intenso dolore. Soffriva in silenzio.

Una brusca scossa del cavallo, il quale aveva incespicato in una grossa radice, strappò finalmente Romero dai suoi pensieri. Alzando il capo verso Than-Kiú, la quale si era abbassata per afferrare le briglie, rimase colpito dall'espressione dolorosa di quel bel viso.

— Che cos'hai, fanciulla?... — le chiese.

— Nulla, — rispose Than-Kiú.

— Tu piangi.

— Che importa al mio signore, che il Fiore delle Perle rida o pianga?... A lui deve bastare che sia lieta la Perla di Manilla.

— Taci, Than-Kiú. Perché nominarmela ora?...

— Forse che il mio signore non pensava a lei in questi istanti?... — chiese la giovane, con amarezza. — Non era l'insurrezione che occupava la sua mente.

— Che cosa ne sai tu, fanciulla?...

— Gli sguardi del Fiore delle Perle vedono lontano.

— Sí, è cosí, ed a Than-Kiú rincresce che io pensi a Teresita. — disse Romero, con un sospiro. — Povera fanciulla!... Anche tu sei una vittima del destino, al pari di me.

— Tu!... — esclamò Than-Kiú. — Forse che la Perla di Manilla non ti vuole bene?... È il mio amore che forse non fiorirà mai e che forse mai sarà vivificato da un solo raggio di sole. Il sangue dei bianchi lo ucciderà, al pari del gelido vento della Mantsciuria che spegne i lillà del Fiume Giallo.

— È il destino che cosí vuole, mia povera fanciulla. Io non potrò mai far rifiorire l'amor tuo.

— Sí, perché fra noi sta la donna bianca! — esclamò la giovane, con uno scatto di collera selvaggia. — Ma le perle talvolta s'infrangono e può toccare la mala sorte a quella di Manilla.

— Non minacciare, Than-Kiú, — disse Romero. — Tu hai il cuore troppo gentile per odiare.

— Tu non sai, mio signore, quanto odio può racchiudere il cuore delle donne del mio paese. Sembriamo fiori delicati destinati a crescere, vivere e spegnersi fra i paraventi fiorati delle nostre case, ma invece s'ingannano tutti. Vibra potente l'anima nei nostri corpi.

— Ma tu non puoi serbare rancore a Teresita che t'ha salvata la vita, Than-Kiú.

— E credi, mio signore, che io ci tenessi alla mia vita?... Quando il cuore sanguina, quando l'esistenza diventa un martirio, quando le speranze si dileguano, quando i sogni svaniscono per sempre e non ritornano piú, la morte non si teme. Forse che i fiori vivono senza il sole e la rugiada?... Forse che le farfalle dei verdi prati si reggono, quando rugge la tramontana?... Forse che gli uccelli cinguettano, quando il verno piomba sulle pianure della Mongolia?... La morte?... L'ho sfidata tante volte senza tremare dinanzi a Cavite e l'ho tante volte invocata, prima che tu ritornassi dalle lontane sponde del mio paese natio. La mia stella non brillerà piú, lo sento. Essa brilla fulgida sulla testa della donna bianca. Cosí doveva accadere: lo splendore delle perle bianche offusca quelle gialle che si traggono dalle acque del paese del sole.

— Prima che io tornassi dalle sponde del tuo paese natio! — esclamò Romero, stupito. — Ma chi sei tu adunque?...

— Than-Kiú, — rispose la fanciulla.

— Ma da dove vieni?

— Dal mio paese.

— Ma chi ti ha condotta a Manilla?

— Hang-Tu.

— Quando?...

— Che t'importa?...

— Voglio saperlo. Vi è un mistero nella tua vita.

— T'inganni.

— Lo saprò da Hang-Tu.

— E Hang-Tu ti dirà che io sono Than-Kiú.

— Ma tu mi conoscevi adunque prima che io riparassi nella tua patria?

— Forse.

— E...

— Sí, ti volevo bene, ma ciò non ti deve piú interessare. Io non sono la Perla di Manilla.

— Bizzarra fanciulla! Ma dimmi chi sei?

— Te l'ho detto: io sono Than-Kiú.

Poi allentando le briglie raggiunse Hang-Tu, il quale discorreva col suo compatriotta, interrogandolo sulle posizioni occupate dagli spagnuoli nei dintorni di Dasmarinas.

Romero non aveva cercato di trattenerla. Quel colloquio stava per diventare imbarazzante per lui, quantunque avesse desiderato vivamente di conoscere il mistero che avvolgeva quella singolare figlia del Celeste Impero. Pure in fondo al cuore, compiangeva quell'ardita fanciulla che gli aveva già dato, in due soli giorni, tante prove del suo strano affetto, sfidando per lui e senza tremare, la morte.

— Orsú, — mormorò egli, sospirando. — Io sono uno di quei disgraziati che il destino ha condannato a una eterna infelicità e che irradiano intorno a loro una triste influenza... Sarò fatale a tutti quelli che mi amano e che mi avvicinano e fors'anche all'insurrezione. Meglio sarebbe, che una palla mi uccidesse sulle trincee di Salitran.

Intanto Sheu-Kin e Hang-Tu continuavano a scendere la collina, cercando i passaggi migliori, essendo la china assai aspra ed interrotta sovente da crepacci e da burroni profondi, entro i quali potevano precipitare i cavalli. Fortunatamente i vapori che ingombravano il cielo erano stati ricacciati verso il mare dal vento del sud e la luna era sorta splendida, illuminando la vasta distesa d'acqua della laguna, la quale scintillava con vaghi tremolii argentei. In fondo, presso le sponde, si vedeva qualche lume che ora appariva ed ora scompariva. Era forse il fanale di qualche cannoniera nemica che perlustrava i seni, per sorprendere qualche posto d'insorti.

Alla mezzanotte i quattro cavalieri galoppavano nella pianura, tenendosi ad un miglio dalle sponde del lago. Camminavano verso il sud-ovest, ma al di qua del versante dell'Imus, per non dare di cozzo contro i soldati del generale Cornell, che sapevano scaglionati a breve distanza da quel piccolo corso d'acqua.

Se i cavalli resistevano a quella corsa, potevano sperare di giungere nei campi degl'insorti prima del mezzodí, non ignorando che tenevano alcuni posti avanzati fino nei dintorni di Tunasan.

Alle quattro del mattino furono però costretti a fare una fermata sul margine d'una piantagione di caffè, per non stremare completamente le povere bestie e per prendere un po' di riposo.

Essendo il luogo deserto, approfittarono per dormire qualche po' sotto la guardia della giovane chinese, prevedendo che la notte successiva non ne avrebbero avuto il tempo.

Alle sei si rimettevano in arcione, inoltrandosi in una vallata che pareva dividesse i due versanti dell'istmo, mentre dalla parte del mare si udivano rombare delle interminabili detonazioni, che gli echi delle alture ripercuotevano con un lungo e pauroso rimbombo.

A Cavite si combatteva senza dubbio. Forse la flotta spagnuola tornava a assalire quel punto importante, fortemente tenuto dagli insorti, cercando di distruggere i ridotti e le trincee per aprire, piú tardi, il passo alle truppe del generale Polavieja.

Dalla parte dell'Imus non si udiva invece nessuna detonazione. Probabilmente il generale Lachambre non osava ancora assalire Salitran.

— Giungeremo in tempo, — disse Hang-Tu, a Romero. — Due o tre giorni possono bastare a noi per riordinare una difesa tenace.

— Sí, purché gl'insorti abbiano costruito delle trincee attorno alla borgata.

— Vi sono dei capi intelligenti a Salitran. Ho piena fiducia in Marion Duque, uno dei piú fieri nemici degli spagnuoli, in Castillo, un valoroso e in Carrido, un buon capobanda e soprattutto astuto.

— Speriamo, Hang.

Alle dieci, attraversano a guado l'Imus, piccolo corso d'acqua che scaricasi nella baia di Cavite, ma a parecchie miglia dalla cittadella d'Imus, la quale doveva essere stata occupata, ed ora in procinto di cadere nelle mani dei soldati del generale Lachambre.

Al di là del fiume apparivano le prime tracce della feroce, spietata lotta impegnata fra i bianchi a gli uomini di colore. Si vedevano intere piantagioni di canne da zucchero distrutte dal fuoco, piantagioni di caffè devastate, case in rovina; e di tratto in tratto carogne di cavalli di già spolpate dalle bande numerose di corvi, che volteggiavano in aria gracchiando sinistramente.

Forse in quelle vicinanze, piccole bande insorte si erano scontrate coi nemici od avevano fatto delle scorrerie per distruggere con bestiale furore, le proprietà di alcuni coloni spagnuoli.

Quella regione, pochi mesi prima abitata e fiorente di ricchi raccolti, era stata tramutata in un vero deserto. Gli abitanti erano scomparsi o forse erano stati uccisi; le fattorie erano state incendiate e saccheggiate, i campi rovinati e forse per molti anni. Grandi fortune erano state forse distrutte in poche ore dalle fiamme scatenate probabilmente dai malesi, i piú feroci, i piú astiosi ed i piú insaziabili predoni di tutte le razze dell'isola.

Non tardarono ad apparire anche le prime vittime della guerra, le quali dimostravano con quanta ferocia si combatteva d'ambo le parti, ma soprattutto dalle sanguinarie popolazioni d'origine sulo-malese. Accanto ad una casa in rovina, mezza divorata dal fuoco, Romero ed i suoi compagni scorsero un vecchio spagnuolo inchiodato sul tronco d'un albero, con una di quelle corte lance che usano i costieri del Borneo.

Probabilmente quel disgraziato era il proprietario della distrutta fattoria ed era stato cosí trattato unicamente perché la sua pelle, invece di essere gialla, od olivastra o rossiccia, era semplicemente bianca. Piú oltre, presso un'altra abitazione pure diroccata, ne videro, un altro, un giovane e robusto spagnuolo appeso ad un ramo pei piedi e col corpo irto di giavellotti. La sua testa era scomparsa e doveva essere stata raccolta da qualcuno di quei tristi raccoglitori di crani che sono ancora cosí numerosi nell'interno di Mindanao, malgrado quell'isola sia sotto la dominazione spagnuola.

Ma un miglio piú innanzi, i soldati bianchi dovevano essersi presa la rivincita su quelle bande di predoni feroci, poiché in mezzo ad un solco, otto o dieci insorti, fra malesi e tagali, già mezzo spolpati dai corvi, giacevano l'uno accanto all'altro e allineati come se fossero stati fucilati da un plotone di cacciatori.

I cavalieri, temendo una sorpresa e non essendo certi delle ultime mosse degli spagnuoli, procedevano ora con prudenza, evitando di accostarsi ai macchioni di canne o di alberi entro i quali potevano celarsi dei posti avanzati.

Ai calcoli del giovane chinese non dovevano trovarsi lontano dai campi degli insorti, avendo già attraversato l'Imus da alcune ore. Da un momento all'altro potevano incontrare qualche banda operante al sud di Salitran.

Il paese, che diventava a poco a poco boscoso, impediva loro di spingere gli sguardi lontano, tanto piú che si manteneva assolutamente piano. Però sentivano per istinto che doveva trovarsi a breve distanza dal luogo ove si erano impegnate le prime scaramucce e sentivano pure per istinto di tenersi in guardia.

Ad un tratto Sheu-Kin, che cavalcava dinanzi a tutti, segnalò delle nubi di fumo che s'alzavano in mezzo ad una foresta, la quale si estendeva per un vasto tratto verso il nord-ovest.

— È fumo d'accampamenti, — diss'egli.

— Saranno spagnuoli o insorti, gli accampati?... — chiese Hang-Tu. — Non bisogna avventurarci a casaccio nella foresta, per non cadere nel mezzo di qualche reggimento di cacciatori.

— Là devono trovarsi i nostri, — disse Than-Kiú. — Se non m'inganno, il capo banda, Tung-Tao doveva trovarsi a sud di Salitran coi suoi tagali.

— Procederemo adagio e coi fucili in pugno.

— Di galoppo, Hang! — gridò Romero, che si trovava dieci passi piú lontano. — Abbiamo gli spagnuoli alle spalle.

— Morte di Fo!...

Sei cavalleggeri erano improvvisamente comparsi sull'orlo d'una piantagione di banani, ad una distanza di quattro o cinquecento passi.

Probabilmente quei soldati si erano appiattiti in mezzo alle gigantesche foglie di quelle splendide piante, per spiare le mosse degli insorti che accampavano nella foresta ed avendo scorto i quattro cavalieri, erano balzati in arcione per cercare di catturarli prima che potessero rifugiarsi in mezzo agli alberi.

— Passa avanti, Than-Kiú, — gridò Hang. — Lascia a me e a Romero l'incarico di respingere quei nemici.

— No, — rispose la giovane — so battermi anch'io al pari di te.

— Non hai il fucile tu.

— Ho la rivoltella e mi basta.

— Di galoppo!... — gridò Hang. — cerchiamo di guadagnare il bosco.

I quattro cavalli si erano lanciati ventre a terra, ma non potevano durare a lungo, essendo assai stanchi per quella faticosa marcia, mentre quelli degli spagnuoli parevano ben riposati. La foresta però non era lontana e dietro ai tronchi degli alberi, gl'insorti potevano ripararsi e difendersi.

Hang-Tu e Romero si erano riuniti dietro a Than-Kiú per difenderla, mentre Sheu-Kin, che aveva il cavallo migliore, affrettava la corsa per giungere prima di tutti al bosco e prender posizione.

I sei cavallegeri spronavano furiosamente i loro piccoli ma veloci animali di razza andalusa ed intimavano l'alt, accompagnandolo con la minaccia di aprire il fuoco in caso di rifiuto, ma né Hang, né Romero si curavano di rispondere.

A trecento passi uno di loro, il capo fila sparò un colpo di moschetto; ma senza ottenere alcun risultato, in causa della distanza e delle brusche scosse che gl'imprimeva il cavallo.

Hang-Tu questa volta si volse a metà, puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Il cavaliere cadde unitamente all'animale, ma non doveva aver ricevuto lui il colpo, poiché si rialzò quasi subito rispondendo con una seconda moschettata, il cui proiettile fischiò agli orecchi dei fuggiaschi.

— A te, Romero! — gridò Hang, preparandosi a ricaricare l'arma.

Il meticcio aveva già spianata la sua carabina, senza rallentare il galoppo del proprio cavallo. Fece fuoco in mezzo al gruppo ed un altro animale, dopo d'essersi inalberato bruscamente, cadde di quarto scavalcando il soldato che lo montava.

— Noi macelliamo i cavalli e risparmiamo invece i cavalieri, — gridò Hang, esasperato.

— Che cosa importa, — rispose Romero. — I caduti non ci seguiranno.

— Ma tirano meglio degli altri. Odi?

— Sí, e credo...

Romero non potè continuare la frase. Una palla di moschetto era giunta e aveva colpito il cavallo presso le ultime vertebre fracassandogli di colpo la spina dorsale.

Il povero animale era caduto fulminato, trascinando nella caduta il cavaliere il quale, per sua mala sorte, era rimasto con una gamba sotto quella pesante massa.

Than-Kiú, udendo Romero mandare un grido, con una violenta strappata che per poco non l'aveva balzata di sella, aveva frenato il proprio animale. Vedendo il meticcio a terra impallidí, poi senza badare ai proiettili che già ricominciavano a fischiare, si lasciò scivolare dall'arcione e si precipitò verso di lui.

Hang-Tu si era pure arrestato, ma invece di correre in aiuto del compagno aveva snudata la catana e pareva che si preparasse a caricare disperatamente il drappello nemico.

— Mio signore, — esclamò Than-Kiú, con voce tremante. — Sei ferito?

— No, ma fuggi, — rispose Romero, che aveva ricaricato precipitosamente il fucile. — Fuggi; essi stanno per piombarci addosso.

— Than-Kiú non ha paura e ti difenderà, mio signore, — rispose la fanciulla, con fierezza.

Si era lasciata cadere dietro il cadavere del cavallo, accanto al meticcio, ed aveva estratta la rivoltella, puntandola risolutamente contro i nemici.

— Ma fuggi, salvati! — ripeté Romero. — Vuoi farti uccidere?...

— Morrò accanto a te.

— Vengono!...

I quattro spagnuoli caricavano di galoppo. Avevano appesi all'arcione i moschetti e snudate invece le sciabole. Ancora pochi istanti e piombavano su quei tre coraggiosi che li attendevano senza tremare. Il vezzoso capo del Fiore delle Perle stava forse per venire brutalmente fracassato da quelle terribili armi.

Hang-Tu, fermo come una rupe, colle ginocchia strette ai fianchi del cavallo, collo sguardo tetro e sanguigno, colla larga e pesante catana alzata e colla carabina sulla sella, si era collocato dinanzi ai due suoi compagni per sostenere il primo urto.

Già i quattro cavallegeri non distavano che cento passi, quando verso il bosco echeggiarono improvvisamente dieci o dodici spari, seguiti da urla feroci.

Gli spagnuoli fecero un brusco voltafaccia e fuggirono verso la piantagione, seguiti dai loro due compagni che erano stati scavalcati.

Una banda d'uomini, composta per la maggior parte di malesi e di tagali, armati di alcuni fucili, ma soprattutto di lance e di sciaboloni bornesi, si era precipitata fuori dalla boscaglia empiendo l'aria d'urla selvagge. Alla loro testa cavalcava Sheu-Kin.

— Gl'insorti! — esclamò Hang, respirando.

Si era gettato rapidamente di sella, e con una vigorosa scossa aveva liberato Romero dal peso che lo teneva inchiodato al suolo.

— Sei ferito? — gli chiese.

— No — rispose questi.

Poi, rialzandosi, s'avvicinò a Than-Kiú e posandole le mani sulle spalle, disse:

— Grazie, valorosa fanciulla.

Il Fiore delle Perle non rispose, ma il suo viso s'imporporò, mentre le sue labbra si schiudevano ad un sorriso, ed un lampo d'immensa gioia le illuminava i begli occhi.