Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550)/Il Rosso

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Giovanni Antonio Licinio da Pordenone Giovanni Antonio Sogliani

IL ROSSO

Pittor Fiorentino

Gli uomini pregiati ch’alle virtú si danno e quelle con tutte le forze loro abracciano, sono pur qualche volta, quando manco ciò si aspettava, esaltati et onorati eccessivamente nel cospetto di tutto il mondo; come apertamente si può vedere nelle fatiche che il Rosso pittor fiorentino pose nell’arte della pittura. Le quali se in Roma et in Fiorenza non furono da quei che lo potevano remunerare sodisfatte, trovò egli pure in Francia chi per quelle e per esso lo riconobbe di sorte che la gloria di lui poté spegnere la sete in ogni grado di ambizione che possa il petto di qual si voglia artefice occupare.

Né poteva egli in quello essere conseguire degnità, onore o grado maggiore, poiché sopra un altro del suo mestiero, da sí gran re, come è quello di Francia, fu ben visto e pregiato molto.

E nel vero i meriti di esso erano tali, che se la fortuna gli avesse procacciato manco, ella gli avrebbe fatto torto grandissimo. Con ciò sia che il Rosso era oltra la virtú, dotato di bellissima presenza; il modo del parlar suo era molto garbato e grave; era bonissimo musico et aveva ottimi termini di filosofia, e quel che importava piú che tutte l’altre sue bonissime qualità, fu che egli del continuo nelle composizioni delle figure sue era molto poetico, e nel disegno fiero e fondato, con leggiadra maniera e terribilità di cose stravaganti, et un bellissimo compositore di figure. Nella architettura fu garbatissimo e straordinario, e sempre per povero ch’egli fosse, fu ricco d’animo e di grandezza.

Per il che coloro che nelle fatiche della pittura terranno l’ordine che ’l Rosso tenne, saranno di continuo celebrati come son l’opre sue. Le quali di bravura non hanno pari, e senza fatiche di stento son fatte, levato via da quelle un certo tisicume e tedio, che infiniti patiscono per fare le loro cose di niente parere qualche cosa. Disegnò il Rosso nella sua giovanezza al cartone di Michele Agnolo, e con pochi maestri volle stare alla arte, avendo egli una certa sua opinione contraria alle maniere di quegli, come si vede fuor della porta a San Pier Gattolini di Fiorenza, a Marignolle, un tabernacolo lavorato a fresco con un Cristo morto, dove cominciò a mostrare quanto egli desiderasse la maniera gagliarda e di grandezza piú de gli altri, leggiadra e maravigliosa. Lavorò sopra la porta di San Sebastiano de’ Servi l’arme de’ Pucci con due figure che in quel tempo fece maravigliare gli artefici, aspettando di lui quello che riuscí. Onde gli crebbe l’animo talmente che, avendo egli a maestro Iacopo frate de’ Servi, che attendeva alle poesie, fatto un quadro d’una Nostra Donna con la testa di San Giovanni Evangelista mezza figura, persuaso da lui fece nel cortile de’ detti Servi, allato alla storia della Visitazione che lavorò Iacopo da Puntormo, l’Assunzione di Nostra Donna, nella quale fece un cielo d’angeli tutti fanciulli ignudi, che ballano intorno alla Nostra Donna accerchiati, che scortano con bellissimo andare di contorni e con graziosissimo garbo girati per quella aria; di maniera che se il colorito fatto da lui fosse con quella maturità di arte con ch’egli poi crebbe col tempo, avrebbe, come di grandezza e di buon disegno paragonò l’altre storie, di gran lunga ancora trapassatele. Fecevi gli Apostoli carichi molto di panni e troppo di dovizia di essi pieni, ma le attitudini et alcune teste sono piú che bellissime. Fecegli fare lo spedalingo di Santa Maria Nuova una tavola, la quale, vedendola abbozzata, gli parvero, come colui ch’era poco intendente di questa arte, tutti quei santi, diavoli, avendo il Rosso un costume, nelle sue bozze a olio, fare certe arie crudeli e disperate, e nel finirle poi addolciva l’aria e riducevale al buono, per che se li fuggí di casa e non volse la tavola, dicendo che lo aveva giuntato. Dipinse medesimamente sopra un’altra porta l’arme di Papa Leone con due fanciulli, oggi guasta. E per le case de’ cittadini si veggono piú quadri e molti ritratti.

Fece per la venuta di Papa Leone a Fiorenza su ’l canto di Bischeri uno arco bellissimo. Poi lavorò al Signor di Piombino una tavola con un Cristo morto bellissimo, e gli fece ancora una cappelluccia. E similmente a Volterra dipinse un bellissimo Deposto di Croce. Per che cresciuto in pregio e fama, fece in Santo Spirito di Fiorenza la tavola de’ Dèi, la quale già avevano allogato a Raffaello da Urbino, che la lasciò per le cure dell’opera ch’aveva preso a Roma, la quale il Rosso lavorò con bellissima grazia e disegno e vivacità di colori. Né pensi alcuno che nessuna opera abbia piú forza o mostra piú bella di lontano di quella, la quale per la bravura nelle figure e per l’astrattezza delle attitudini, non piú usata per gli altri, fu tenuta cosa stravagante, né gli fu molto lodata. Ma poi a poco a poco hanno conosciuto i popoli la bontà di quella, e gli hanno dato lode mirabili. Fece in San Lorenzo la tavola di Carlo Ginori dello Sponsalizio di Nostra Donna, tenuto cosa bellissima.

Et invero che in quella sua facilità del fare non è mai stato chi di pratica o di destressa l’abbi potuto vincere, né a gran lunga accostarseli. Era nel colorito sí dolce e con tanta grazia cangiava i panni, che il diletto, che per tale arte prese, lo fé sempre tenere lodatissimo e mirabile, come chi guarderà tale opera conoscerà tutto questo ch’io scrivo esser verissimo. Fece ancora a Giovanni Bandini un quadro di alcuni ignudi bellissimi, storia di Mosè quando egli amazza lo Egizzio, nel quale erano cose lodatissime; e credo che in Francia fosse mandato. Similmente un altro ne fece a Giovanni Cavalcanti, che andò in Inghilterra, quando Iacob piglia ’l bere da quelle donne alla fonte, che fu tenuto divino, atteso che vi erano ignudi e femmine lavorate con somma grazia, alle quali egli di continuo si dilettò far pannicini sottili, acconciature di capo con trecce et abbigliamenti per il dosso. Stava il Rosso, quando questa opra faceva, nel Borgo de’ Tintori, che risponde con le stanze ne gli orti de’ frati di Santa Croce, e si pigliava piacere d’un bertuccione, il quale aveva spirto piú d’uomo che di animale; per la qual cosa carissimo se lo teneva e come se medesimo l’amava, e perciò ch’egli aveva uno intelletto maraviglioso, gli faceva fare di molti servigi. Avvenne che questo animale s’innamorò di un suo garzone, chiamato Batistino, il quale era di bellissimo aspetto, et indovinava tutto quel che dir voleva, a i cenni, che ’l suo Batistin gli faceva. Per il che, sendo da la banda delle stanze di dietro, che nell’orto de’ frati rispondevano, una pergola del guardiano piena di uve grossissime sancolombane, quei giovani mandavano giú il bertuccione per quella che dalla finestra era lontana, e con la fune su tiravano lo animale con le mani piene d’uve. Il guardiano, trovando scaricarsi la pergola e non sapendo da chi, dubitando de’ topi, mise lo aguato a essa e, visto che il bertuccione del Rosso giú scendeva, tutto s’accese d’ira, e presa una pertica per bastonarlo, si recò verso lui a due mani, in attitudine a gambe larghe. Il bertuccione, visto che se saliva ne toccherebbe, e se stava fermo il medesimo, cominciò salticchiando a ruinargli la pergola, e fatto animo di volersi gettare addosso il frate, con ambedue le mani prese l’ultime traverse che cingevano la pergola; et in un tempo il frate mena la pertica, e ’l bertuccione scuote la pergola per la paura, di sorte e con tal forza, che fece uscire delle buche le pertiche e le canne: onde la pergola e ’l bertuccione ruinarono addosso a ’l frate, il quale gridava misericordia, fu da Batistino e da gli altri tirata la fune, et il bertuccion salvo rimesso in cammera. Discostatosi il guardiano et a un suo terrazzo fattosi, disse cose fuor della messa; e con cólora e malo animo se n’andò allo uffizio de gli Otto, magistrato in Fiorenza molto temuto. Quivi posta la sua querela e mandato per il Rosso, fu per motteggio condannato il bertuccione a dovere un contrapeso tenere al culo, acciò che non potesse saltare come prima soleva su per le pergole.

Cosí il Rosso fatto un rullo che girava con un ferro, quello gli teneva, acciò che per casa potesse andare, ma non saltare per le altrui come prima faceva. Perché vistosi a tal supplicio condennato, il bertuccione parve che s’indovinasse il frate essere stato di ciò cagione, onde ogni dí s’essercitava saltando di passo in passo con le gambe e tenendo con le mani il contrapeso, e cosí posandosi spesso al suo disegno pervenne. Perché, sendo un dí sciolto per casa, saltò appoco appoco di tetto in tetto, su l’ora che il guardiano era a cantar il vespro, e pervenne sopra il tetto della camera sua.

Quivi, lasciato andare il contrapeso, vi fece per mezza ora un sí amorevole ballo, che né tegolo né coppo vi restò che non rompesse. E tornatosi in casa, si sentí fra tre dí per una pioggia le querele del priore.

Avendo il Rosso finito l’opere sue, con Batistino e ’l bertuccione s’inviò a Roma, et essendo in grandissima aspettazione, l’opre sue infinitamente erono desiderate, essendosi veduti alcuni disegni fatti per lui, i quali erano tenuti maravigliosi, atteso che il Rosso divinissimamente e con gran pulitezza disegnava.

Quivi fece nella Pace sopra le cose di Raffaello una opra, della quale non dipinse mai peggio a’ suoi giorni, né posso imaginare onde ciò procedesse, se non ch’egli gonfio di vana gloria di se stesso, niente stimava le cose d’altri: per che gli avvenne che, ciò poco apprezzando, la sua fu poi meno stimata.

In questo tempo fece al Vescovo Tornabuoni amico suo un quadro d’un Cristo morto, sostenuto da due angeli, che oggi è appresso Monsignor Della Casa, il quale fu una bellissima impresa. Fece al Baviera, in disegni di stampe, tutti gli dèi, intagliati poi da Iacopo Caraglio alcune, quando Saturno si muta in cavallo, e quando Plutone rapisce Proserpina. Lavorò una bozza della decollazione di San Giovanni Batista, che oggi è in una chiesiuola su la piazza de’ Salviati in Roma. Successe in quel tempo il sacco di Roma, dove il povero Rosso fu fatto prigione de’ Tedeschi e molto male trattato. Percioché oltra lo spoliarlo de’ vestimenti, scalzo e senza nulla in testa, gli fecero portare addosso pesi, e sgombrare quasi tutta la bottega d’un pizzicagnuolo. Per il che da quelli mal condotto, si condusse appena in Perugia, dove da Domenico di Paris pittore fu molto accarezzato e rivestito; et egli disegnò per lui un cartone di una tavola de’ Magi, il quale appresso lui si vede, cosa bellissima. Né molto restò in tal luogo, intendendo ch’al Borgo era venuto il Vescovo de’ Tornabuoni, fuggito egli ancora dal sacco, e si trasferí quivi.

Era in quel tempo al Borgo Raffaello da Colle pittore, creato di Giulio Romano, che nella sua patria aveva preso a fare, per Santa Croce, Compagnia di Battuti, una tavola per poco prezzo, de la quale come amorevole si spogliò e la diede al Rosso, acciò che in quella città rimanesse qualche reliquia di suo. Per il che la compagnia si risentí, ma il vescovo gli fece molte comodità. Mentre che il Rosso lavorava questa tavola prese nome, et in quel luogo ne fu tenuto gran conto, e la tavola messa in opera in Santa Croce, nella quale fece un Deposto di Croce, il quale è cosa molto rara e bella, per avere osservato ne’ colori un certo che tenebroso per le eclisse che fu nella morte di Cristo, per essere stata lavorata con grandissima diligenza. Gli fu fatto in Città di Castello allogazione di una tavola, la quale volendo lavorare mentre che s’ingessava, le ruinò un tetto addosso che la infranse tutta. Vennegli un mal di febbre sí bestiale, che ne fu quasi per morire: per il che di Castello si fé portare al Borgo.

Seguitando quel male con la quartana, si trasferí poi a la Pieve a Santo Stefano a pigliare aria, et ultimamente in Arezzo, dove fu tenuto in casa da Benedetto Spadari.

Stando egli a’ suoi servigi operò il mezzo di Giovanni Antonio Lappoli aretino e di quanti amici e parenti essi avevano, acciò che egli facesse alla Madonna delle Lagrime una volta, allogata già a Niccolò Soggi pittore. E perché tal memoria si lasciasse in quella città, gliele allogarono per prezzo di trecento scudi d’oro. Onde il Rosso cominciò cartoni in una stanza che gli avevano consegnata in un luogo detto Murello, e quivi ne finí quattro. In uno fece i primi parenti legati allo albero del peccato, e la Nostra Donna che cava loro il peccato di bocca, figurato per quel pomo, e sotto i piedi il serpente, e nella aria, volendo figurare ch’era vestita del sole e de la luna, fece Febo e Diana ignudi.

Nell’altra fece quando l’arca federis è portata da Mosè, figurata per la Nostra Donna che le Virtú la cingono.

In un’altra il trono di Salomone, a cui i voti si porgono, somigliata pur per lei, significando quei che ricorrono a lei per ritrarne aiuto e grazia, con altre bizzarrissime fantasie, che dal pellegrino e bello ingegno di Messer Giovan Pollastra canonico aretino et amico del Rosso furono trovate. La quale opera egli cosí ordinando, non restava però per sua cortesia di far del continuo disegni a tutti coloro che di Arezzo e di fuori, o per pitture o per fabbriche, n’avevano bisogno. Entrò mallevadore di questa opera Giovanni Antonio Lappoli aretino et amico suo fidatissimo, che con ogni modo di servitú gli usò termini di amorevolezza. Avvenne l’anno MDXXX, essendo l’assedio intorno a Fiorenza, et essendo gli Aretini per la poca prudenza di Papo de gli Altoviti rimasi in libertà, essi combatterono la cittadella e la mandarono a terra. E perché que’ popoli mal volentieri vedevano i Fiorentini, il Rosso non si volle fidar di essi, e se n’andò al Borgo San Sepolcro, lasciando i cartoni et i disegni dell’opera serrati in Cittadella: perché quelli che a Castello gli avevan allogato la tavola, volsero che la finisse; e per il male che avea avuto a Castello, non volle ritornarvi, e cosí al Borgo finí la tavola loro. Né mai a essi volse dare allegrezza di poterla vedere: dove figurò un popolo et un Cristo in aria adorato da quattro figure, e quivi fece mori, zingani e le piú strane cose del mondo; e da le figure in fuori, che di bontà son perfette, il componimento attende a ogni altra cosa, che all’animo di coloro che gli chiesero tale pittura. In quel medesimo tempo che tal cosa faceva, disotterrò de’ morti nel vescovado, ove stava, e fece una bellissima notomia. E nel vero il Rosso era studiosissimo nell’arte, né passava mai giorno che qualche ignudo non disegnasse di naturale.

Gli era già venuto capriccio volere finire la sua vita in Francia e levarsi da questa miseria e povertà, perché lavorando gli uomini in Toscana e ne’ paesi dove e’ sono nati, si mantengono sempre poveri. Ma per meglio comparire fra que’ barbari, cercò farsi insegnare la lingua latina, la quale imparò benissimo. Or avvenne un giovedí santo, quando si dicono gli uffici la sera, che, avendo egli un giovanetto aretino suo creato, che con un moccolo acceso e con la pece greca faceva alcune vampe di fuoco nelle tenebre, ne fu sgridato da preti e fattogli male. Per il che il Rosso, che sedeva, vedendo un prete che lo batteva, si levò in piede verso il prete. Né sapendo alcuno chi si fosse, si mise la chiesa a romore, e contra il Rosso trassero alcune spade ignude. Onde egli datosi a fuggire fu tanto destro, che si ricoverò nelle stanze sue senza che nessuno lo potesse giungere, tenendosi in ciò vituperatissimo. Per la qual cosa, finita la tavola di Castello, non curò piú del lavoro d’Arezzo, né del danno ch’e’ faceva a Giovanni Antonio, avendo egli avuto piú di cento cinquanta ducati; ma si partí di notte, e faccendo la via di Pesaro, arrivò a Vinegia, dove da Messer Pietro Aretino trattenuto, gli disegnò una carta che si stampa, quando Marte dorme con Venere e gli Amori e le Grazie lo spogliano e gli traggono la corazza. Cosí di quivi partito, arrivò in Francia a Parigi, dove con favor grande della nazione fece al re due quadri d’un Bacco e d’una Venere, che sono posti in Fontanableò nella galleria del re, ch’a lui parvero miracolosi, e piú parve la presenza del Rosso, tal che lo giudicò (sentendo il suo procedere di parole) degno d’ogni beneficio e lo constituí sopra gli ornamenti di tal fabbriche, e gli donò un canonicato della Santa Cappella della Madonna di Parigi. E cosí continuando i servigi di tanto re, fece stanze tutte di stucchi lavorate in quel luogo, con storie assai et ordini di camini e porte fantastiche. E nel vero il Rosso era in ciò miracoloso. Per il che gli furono donati altri benefici, talché egli aveva da la liberalità di quel re mille scudi d’entrata e le provisioni dell’opera, ch’erano grossissime. Fece ancora un cartone per fare una tavola alla Congregazione del Capitolo, dove era canonico, et infinitissimi altri, de i quali non accade far memoria. Basta che egli non piú da pittore, ma da principe vivendo, teneva servitori assai e cavalcature, e si trovava fornito di bellissime tappezzerie e d’argenti.

Avvenne sí, come vuole l’invidiosa fortuna, che non lascia mai lungo tempo in alto grado chi dalle felicità di essa è esaltato, che praticando seco Francesco di Pellegrino fiorentino, il quale della pittura si dilettava et amicissimo e suo domestico continuo era, furono in questo tempo rubati alcune centinaia di scudi al Rosso; il quale non avendo sospetto di altri che di Francesco, lo fece pigliare dalla corte e con esamine rigorose stringerlo molto. Ma colui che innocente si trovava, non confessando altro che il vero, finalmente fu relassato, et acceso di giusto sdegno contra il Rosso, fu sforzato a risentirsi de ’l vituperosissimo carico che da lui gli era stato apposto. Mosseli dunque un piato di ingiuria, e lo strinse di tal maniera, che il Rosso non si potendo aiutare stava mesto e doloroso, parendogli di continuo avere vituperato e l’amico et il proprio onore. E che se egli si disdiceva o teneva altri vituperosi ordini, si dichiarava da se medesimo per cattivo uomo. Laonde fatto deliberazione piú tosto da se stesso morire, che sopportare ingiurie per mano d’altrui, prese questo modo. Un giorno che il re si trovava a Fontanableò mandò egli un contadino a Parigi per certo venenosissimo liquore, mostrando volerlo per far colori o vernici. Et era tanta la malignità di quello, che al contadino stesso, il quale nello arrecarlo tenne sempre il dito grosso sopra la bocca della ampolla, diligentissimamente turata con la cera, fu nientedimanco dalla mortifera virtú del liquore consumato e quasi mangiato tutto quel dito. Et il Rosso che era sanissimo, preso questa cosa dopo mangiare in poche ore finí il corso della sua vita. E guadagnossi questi epitaffii:
DATVR MORI
ROSCIO FLORENTINO PICTORI TVM INVENTIONE AC DISPOSITIONE TVM VARIA MORVM EXPRESSIONE TOTA ITALIA GALLIAQVE CELEBERRIMO. QVI DVM POENAM TALIONIS EFFVGERE VELLET VENENO LAQVEVM REPENDENS TAM MAGNO ANIMO QVAM FACINORE IN GALLIA MISERRIME PERIIT. VIRTVS ET DESPERATIO
FLORENTIAE HOC MONVMENTVM EREXERE.

L’OMBRA DEL ROSSO È QVI; LA FRANCIA HA L’OSSA;
LA FAMA IL MONDO COPRE; IL CIEL RISPONDE
A CHI PER LE BELLE OPRE IL CHIAMA; DONDE
NON PASSA L’ALMA SVA LA INFERNA FOSSA.

La qual nuova sendo portata al re, senza fine gli dispiacque, e de ’l Rosso gli dolse molto. E perché l’opera non patisse fece seguitare a Francesco Primaticcio bolognese, che gli aveva lavorato molte stanze, al quale come al Rosso donò in quel tempo una abbazia. Successe la infelice morte del Rosso l’anno MDXXXXI, il quale per avere arricchito l’arte nel disegno e mostro a gli altri che dopo lui son venuti, quanto accompagni nella dote dell’arte un vago e netto e bel disegnatore e quello che acquista presso un principe l’essere universale, è cagione che gli ingegni moderni lo vanno ora in molte parti imitando; onde, sendo cagione di tanto benefizio, merita lode per la fama nell’opere e per tale esempio nell’arte.