Lettere (Sarpi)/Vol. I/Fra Paolo Sarpi/VIII

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VIII.

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VIII.


Ora hannosi a disaminar più a minuto i concetti del Sarpi intorno alla Chiesa. L’intendimento suo appar chiaro da questo luogo di una sua lettera: «Noi non vogliamo mescolare il cielo con la terra, nè le umane cose con le divine. I sacramenti, e quanto vi ha di religioso, lasciar vogliamo a suo luogo; solamente si conviene ai principi l’affermare le loro potestà mediante le divine scritture e le dottrine de’ Padri (per la qual ultima cosa intendi il testimonio de’ documenti legislativi). Nulla più giova ai romaneschi, che quando dir possono che non già essi, ma la religione medesima viene assalita.1» [p. xxxiv modifica]Come la lettera citata riguarda il libro del re Giacomo I, aggiungiamo che nella lettera 161 tornavi sopra: «Noterò qui che se quel libro avesse contenuto ciò solo che stava nell’Apologia, sarebbero riusciti vani tutti gli sforzi del Nunzio per impedirne lo spaccio; ma dava ombra quel discorso sul Purgatorio, sulle sante immagini, sulla venerazione de’ Santi, e singolarmente della Beata Vergine, cui noi Veneziani siamo teneramente devoti.» E in molti luoghi del suo epistolario l’udiamo beffeggiar quel re da sermoni, sul quale avea scorto il Sarpi, con la sua solita perspicacia, che non era da far fondamento; e ben lo seppe l’Elettore Palatino. Potrebbesi dagli avversari fare istanza dicendo pure, che queste parole citate significano la prudenza civile del Sarpi, ma non già la sua fede; citiamo pertanto un brano di un’altra lettera: «Io immagino che il regno e la Chiesa sieno due Stati, composti però degli stessi uomini; al tutto celeste l’uno, e terreno l’altro; aventi propria sovranità, difesi da proprie armi e fortificazioni; di nulla posseditori in comune, e impediti di muoversi comecchessia scambievolmente la guerra. Come si avrebbero a cozzare se procedono per sì diversa via? Cristo ebbe detto ch’esso e i discepoli non erano di questo mondo, e (argomento per noi di chiari e lieti riflessi) Paolo santo dichiara che il nostro conversare, πολιτευμα nostrum, è ne’ cieli. Tolgo qui la voce Chiesa per riunione de’ fedeli, e non di preti soltanto, che [p. xxxv modifica]ristretto a questi non è più il regno di Cristo, ma porzione di terrena repubblica, e però soggetta alla somma autorità, cui stanno proni anche i laici. Può annettersi una significazione ambigua a questa frase chiesiastico potere: perocchè se s’intende quello per lo quale amministrasi il regno di Cristo, il regno de’ Cieli, esso a niuna autorità soggiace, a niuna sovrasta, in niuna può dar di cozzo, se ne togliamo Satana con cui ha guerra continua: se quello poi onde s’indirizza la disciplina de’ chierici, esso non è potestà sul regno de’ cieli, ma parte della repubblica.... I principi che liberarono i chierici dall’autorità de’ magistrati.... fornirono a loro pretesti a pigliar per debiti i donativi, e spacciarli derivanti da giure divino, o almeno ecclesiastico. Io per primo in Italia fui oso a bandire che niuno imperante sciolse i cherici dal suo potere...2»

Le medesime cose ripetè al principe di Condé, quando costui ebbe desiderio di conversar con esso in Venezia: «Concluse il signor principe, ch’era bene a difendere la propria libertà, ma però conveniva tener maggior conto della religione, e non far cosa minima contro la religione per mantener la libertà. A questo io gli risposi, che non si possono incontrare e urtarsi se non quei che camminano per la medesima via; ma quei che vanno per diverse strade, non possono nè urtarsi nè incomodarsi. Che il regno di Cristo non è di questo [p. xxxvi modifica]mondo, ma in Cielo; e che però la Religione cammina per via celeste e il governo di Stato per via mondana, e però non può mai incomodar l’altro: ma ben vi è un certo appetito di dominare mascherato di religione, che cammina per vie mondane, e a quello non conviene avere alcun riguardo, come a cosa, non divina ma fraudolente; e esser gran cosa, che tutta la predicazione di Cristo Nostro Signore e di tanti Apostoli, non è versata in altro, se non a dichiarare che le promesse del Testamento Vecchio temporali si debbono intendere spiritualmente, e non di cose mondane; e adesso, tutto il contrario, non si ha altra mira, se non di tirar al temporale le cose spirituali da Cristo promesse alla Chiesa.3»

Traducendo nel linguaggio moderno le parole del Sarpi, risulta ch’esso tiene la Chiesa per divinamente instituita per la nostra salvezza, e indipendente dallo Stato in virtù della sua natura e della origine; ma in quanto ha luogo nello Stato, non può mutare l’essenza di questo col tôrre o scemare al medesimo la sua propria giurisdizione, la quale è tanta su la Chiesa divina, quanta sarebbe sopra ogni altro sistema religioso, essendochè sia assoluta; come il Sarpi mostra altrove parlando del Barclajo. In un’altra lettera egli va incontro all’obbiezione de’ romanisti, provando che la durata e la vittoria della Chiesa contro gl’impeti iniqui dello Stato, [p. xxxvii modifica]non nasce dall’avere essa il diritto di contrapporsi al medesimo più che ogni altra instituzione puramente umana, ma dall’assistenza divina esplicitamente promessa da Cristo. Al contrario, ove fossero fondate le pretese de’ romanisti, non potendo insieme sussistere sovrani Stato e Chiesa, questa assorbirebbe di necessità quello. E qui notisi, che non sono da confondersi i principii del Sarpi riguardo al poter dello Stato, con quelli de’ legittimisti moderni; come si hanno similmente a distinguere le sentenze del Bellarmino e del Mariana e di Suarez da quelle de’ demagoghi. Il Sarpi non afferma l’assolutezza dello Stato quasi il medesimo non avesse origine umana; al contrario, i Gesuiti non erano fautori della sovranità della nazione, ma popoli e re sommettevano al papa, e ai suoi giudicii e interessi. Quindi la Chiesa è libera, in quanto Politeuma celeste, nel buono Stato; e non pure la Chiesa cattolica, ma tutte le Chiese e congreghe de’ credenti e religioni, in quanto pretendono d’insegnare una via di salvezza; potendosi applicare ad esse lo stesso principio, che le medesime non toccano per niun verso lo Stato. Ma per ciò che riguarda le cose terrene, non può venire scemata l’autorità dello Stato; salvo che il modo di esercitarla si accomoda ai tempi, e può variare perciò: e se si abusa del modo, giudice dell’abuso e riformatore non può essere che lo Stato; e per questa cagione ammira tanto il nostro autore la legge di Francia degli appelli ab abusu. [p. xxxviii modifica]Ad appoggiar quel che ho detto, allego un altro passo del Sarpi: «Quanto al dubbieggiar ch’ella fa sul menar buono o no alla Chiesa il vocabolo di potere, in verità è cosa di momento. Sarebbe da passar sopra ai vocaboli, se per la loro storsione i perversi non si gittassero ad abusare ancora le cose; come dacchè si arrogarono il nome di Chiesa, fecero eziandio proprii esclusivamente i beni sparsi nel dominio di tutta la Chiesa, o che erano destinati al mantenimento di tutti i ministri. Io, comunque abbia moltissimo a noia l’abuso della voce τό, potestas, pure non giudico si abbia affatto a scartare, essendosi valso due volte il santo apostolo nella IIa ai Corinti del vocabolo ἐξουσίας, cui egli adopera, fatto verbo, anco nella Ia col significato di imperare e dominare; sebbene io una volta, nei miei abortivi lavori, usassi più volentieri la frase: ministero ecclesiastico. Da qui le ire de’ romaneschi; sopra tutto poi, perchè non menai ad essi buona l’autorità coattiva verso dei sommi imperanti od altri, salvo che per privilegio dei medesimi.4» Per intendere quel che qui dice, fa d’uopo considerare che ogni potere è della natura medesima del subietto cui si riferisce, essendo un mezzo datogli per adempiere alla sua destinazione: quindi non dee fare ostacolo l’adoperare l’Apostolo una parola così grave e imperatoria, e se ne ha da inferire che in quello in cui la Chiesa ha propria [p. xxxix modifica]potestà, sia al tutto sovrana, e, come diceva nell’altra lettera, uno Stato; e perciò il principato civile sia incompetente del tutto in quelle cose, e non abbia la Chiesa neppure a voler l’aiuto del suo braccio, affinchè non si mescolino le due tanto distinte e diverse potestà. E per fermo, se Cristo avesse voluto instituire una Chiesa signora dello Stato, o a cui lo Stato dovesse suggettarsi, o vogliam dire una Teocrazia, non l’avrebbe instituita e fattala per tre secoli fiorire più che mai in grembo di un impero inimico. Egli è perciò che il Sarpi senza scrupolo desidera che i Riformati abbiano per ogni dove la libertà civile, e piglia a cuore i loro interessi, e vuol porre un termine allo strapotere dei governi che li perseguitavano, o a gran pena s’inducevano a tollerarli, quando invece era giusto che fossero pareggiati ai Cattolici; e duolsi liberamente che i Veneziani preferissero il pericolo d’una morte repentina (come poi accadde a quella Repubblica) all’impresa di riformare le loro leggi, non contentandosi di difendersi dall’ambizione papale, ma recidendole i nervi e gli appicchi nel lor territorio. Qui si vede l’eccellenza del Sarpi sopra i Gallicani; come nel tollerare le imperfezioni nella Chiesa contro alle sentenze calvinistiche del Casaubono,5 abbiamo una nuova prova del suo sentire cattolico, comechè non sia papista mai, e propugni l’autorità del Concilio [p. xl modifica]sopra il Papa, e l’eccellenza del sistema elettivo sopra quello papistico della collazione de’ ministeri ecclesiastici; nelle quali e in simiglianti cose è la vera libertà della Chiesa, cioè la sua esenzione dal patronato dello Stato e dall’arbitrario del papato; e si faccia con ragione meraviglia del clero francese, che a volta a volta ebbe voglia di mettere a pericolo le sue preziosissime libertà. In somma, a stringer tutto in una parola, il Sarpi vuol disarmare la Religione delle armi non sue e fabbricate nell’ignoranza del medio-evo; e che adoperate qualche volta a beneficio de’ popoli, si volgevano, massime in quel tempo e nel susseguente, contro alla civiltà, rinettate o aguzzate dai Gesuiti. Or, per tornare ad insistere sul punto dell’ortodossia, se non si lodano i Parlamentaristi e i Giansenisti di Francia di avere partecipato all’oppressione de’ Calvinisti, perchè poi si biasima il gran Veneziano di aver tenuto altra opinione? Gli uomini di Stato cattolici oggidì non pur tollerano i Protestanti, ma s’interessano della prosperità delle loro comunioni, e gli uomini di Stato protestanti fanno il medesimo de’ cattolici; e chi primo ha dato l’esempio di tanta saviezza e equità si avrà a vituperar per ipocrita? Certo è debito di ogni buon Italiano il difenderlo. Noi siamo, la Dio mercè, in tempi che se il Sarpi fosse stato intinto di protestantismo, il potremmo dire, e lodarlo ad un’ora per l’acume politico e per l’onestà della vita: ma non era, e troppo bene si accorgeva che tra i Protestanti [p. xli modifica]sarebbe mancata l’autorità insieme col vincolo della unità, o lo accenna in qualche luogo di queste sue Lettere; laddove, disarmata la Chiesa cattolica, era più facile l’accordarsi. Lungi dall’apporgli eresia, Pallavicino, che gli era tre volte avversario, come gesuita e cardinale, e Pallavicino, così ne parla nella Vita di Alessandro Settimo.6 «Gl’insegnamenti teologici di Fra Paolo erano semi di ateismo, togliendo la certezza di qualunque religione.» Il che vuol dire pe’ buoni intenditori, che Fra Paolo non dogmatizzava, distinguea la fede dalle opinioni, era teologo come Erasmo e canonista come Gersone. Io so bene che queste idee corrono ora le menti dell’universale; ma ciò pure prova il merito grande e il genio di Fra Paolo: perciocchè il genio altro non sia che un’anticipazione della luce che poi si diffonde su tutti; e dobbiamo dolerci che il Sarpi non abbia avuto nè agio nè voglia di formulare con rigore scientifico le sue sentenze su le relazioni tra lo Stato e la Chiesa; e tanto più dolercene, che or non vedremmo il clero dei paesi cattolici esser pressochè tutto quanto mutato in una setta, e i governi e i popoli non trovar modo di sciorla o di liberarsene, e perciò oscillare tra la religione civile, secondo gl’intendimenti degli antichi, o l’indifferenza religiosa, giusta le massime de’ filosofi del secolo scorso; e soprattutto, non trovarsi modo di togliere senza pericolo allo Stato il patronaggio della [p. xlii modifica]Chiesa cattolica, che in altri tempi e ordini sociali avea assunto per ripararsi dalle offese de’ papi, ed ora impedisce la scambievole libertà.